Regola di S. Benedetto

Prologo
Alziamoci, dunque, una buona volta, dietro l'incitamento della Scrittura che esclama: ... : " Chi ha orecchie per intendere, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese!". E che dice? " Venite, figli, ascoltatemi, vi insegnerò il timore di Dio. Correte, finché avete la luce della vita, perché non vi colgano le tenebre della morte".
Capitolo III - La consultazione della comunità
L'abate però dal canto suo operi tutto col timor di Dio e secondo le prescrizioni della Regola, ben sapendo che di tutte le sue decisioni dovrà certamente rendere conto a Dio, giustissimo giudice.
Capitolo V - L'obbedienza
Quasi allo stesso istante, il comando del maestro e la perfetta esecuzione del discepolo si compiono di comune accordo con quella velocità che è frutto del timor di Dio:  così in coloro che sono sospinti dal desiderio di raggiungere la vita eterna.
Capitolo VII - L'umiltà
Dunque il primo grado dell'umiltà è quello in cui, rimanendo sempre nel santo timor di Dio, si fugge decisamente la leggerezza e la dissipazione, si tengono costantemente presenti i divini comandamenti  ....
Una volta ascesi tutti questi gradi dell'umiltà, il monaco giungerà subito a quella carità, che quando è perfetta, scaccia il timore; per mezzo di essa comincerà allora a custodire senza alcuno sforzo e quasi naturalmente, grazie all'abitudine, tutto quello che prima osservava con una certa paura; in altre parole non più per timore dell'inferno, ma per amore di Cristo, per la stessa buona abitudine e per il gusto della virtù.
Capitolo LXIV - L'elezione dell'abate
Nell'elezione dell'abate bisogna seguire il principio di scegliere il monaco che tutta la comunità ha designato concordemente nel timore di Dio, oppure quello prescelto con un criterio più saggio da una parte sia pur piccola di essa.
Capitolo LXVI - I portinai del monastero
Questo portinaio deve avere la sua residenza presso la porta, in modo che le persone che arrivano trovino sempre un monaco pronto a rispondere.  Quindi, appena qualcuno bussa o un povero chiede la carità, risponda: "Deo gratias!" Oppure: "Benedicite!" e con tutta la delicatezza che ispira il timor di Dio venga incontro alle richieste del nuovo arrivato, dimostrando una grande premura e un'ardente carità.

Capitolo LXXII - Il buon zelo dei monaci

(I monaci) si portino a vicenda un amore fraterno e scevro da ogni egoismo; temano con amore Dio; amino il loro abate con sincera e umile carità;


Il timor di Dio

 Tratto dal cap. XI del libro "Cristo Ideale del Monaco" di Don Columba Marmion O.S.B.

Ed. Scritti Monastici - Monaci Benedettini di Praglia 1936

 

Dobbiamo ora percorrere, guidati dal Santo Patriarca Benedetto, i gradi di cotesta virtù dell'umiltà; poi ne indicheremo i benefici effetti e i mezzi con cui stabilirla in noi.

Il Dottor Angelico [1] ha approvato l’ordine generale dei gradi d’umiltà come li ha disposti S. Benedetto; prima egli tratta della virtù interiore, mettendo a fondamento la riverenza verso Dio; e con molta ragione; poiché, dice S. Tommaso, egli ha considerato la virtù secondo la sua stessa natura; «secundum ipsam naturam rei [2]». Gli atti esteriori devono derivare dalla disposizione interna; ma nella stessa umiltà interna bisogna stabilir bene il principio, la radice, ossia la riverenza a Dio. - Ex interiori autem dispositione humilitatis procedunt quaedam exteriora signa [3] [Dall’atteggiamento interiore dell’umiltà derivano poi certi segni esterni (cioè parole, azioni e gesti, che manifestano l’interno)] [4].

« Principium et radix humilitatis est reverentia quam quis habet ad Deum [Il principio e la radice dell'umiltà è la riverenza che si ha verso Dio] [5]». Il timor di Dio ne è dunque il primo grado; senza di esso l’umiltà non può nascere né durare; e dal timor filiale rampolleranno gli altri gradi della virtù interna, la quale produrrà gli atti esteriori.

Punto di partenza è dunque il rispetto che dobbiamo a Dio. «Il primo grado di umiltà consiste nell’aver sempre davanti agli occhi il timor di Dio, e non dimenticarsene mai. — Si timorem Dei sibi ante oculos semper ponens, oblivionem omnino fugiat (RB cap 7. [6])». Di quale timore vuol parlare il santo Patriarca? Non del timor servile, che ha paura del castigo, ed è proprio dello schiavo, perché impedisce l’amore e la fiducia, ma di quel timore imperfetto che contiene l’amore e si perfeziona poi nel timore riverenziale; anche N. Signore ci raccomanda di temere colui che può condannarci anima e corpo all’inferno: «in gehennam»; è un timore che ci spinge continuamente ad evitare il peccato, per non dispiacere a Dio che punisce il male: «Custodiens se omni hora a peccatis et vitiis [mentre si astiene costantemente dai peccati e dai vizi]»; e questo timore è buono. La Scrittura c’insegna questa preghiera: «Trafiggi, o Signore, col tuo timore le mie ossa e la mia carne. - Confige timore tuo carnes meas (Sal 119 (118), 120)»; e li Salvatore lo intima a coloro che si è degnato di chiamare amici: «Dico autem vobis amicis meis (Lc 12, 4)»; per questo il B. Padre, che ci insegna un fine spirituale così elevato e vuol condurci a così sublime perfezione, incomincia coll'ispirarci il timor di Dio, come insegna il Vangelo.

Col progredire dell’anima nelle vie spirituali, al timore succede, come movente abituale, l'amore; ma non dobbiamo mai lasciarlo estinguere totalmente, perché è un’arma da tener in serbo per le ore di combattimento, quando l’amor di Dio sta per essere sopraffatto dalla passione. Sarebbe una pietà sentimentale quella che non volesse altro fondamento che l’amore; una pietà presuntuosa ed esposta a molti pericoli; il Concilio di Trento insegna ripetutamente, che non siamo certi mai di avere la perseveranza finale; e siccome la vita presente è una continua prova di fede, non dobbiamo mai gettare l’arma difensiva, il timor di Dio; ma trasformare abitualmente il sentimento imperfetto nel timore riverenziale, che ha per termine ultimo l'adorazione amante. Dice il Salmista: «Timor Domini sanctus, permanens in saeculum saeculi (Sal 19 (18), 10)» ; il timore del Signore è santo e dura in eterno; perché è la riverenza che penetra ogni creatura che scorge la pienezza delle perfezioni divine, anche se è diventata figlia di Dio e ammessa al regno dei cieli; gli stessi Angeli, spiriti purissimi, si velano la faccia davanti allo splendore della divina Maestà: «Adorant dominationes, tremunt potestates (Prefazio della Messa) [Le Dominazioni adorano (Gesù Cristo), le Potestà tremano (alla vista di Gesù Cristo)]» ;riverenza che inonda persino l’Umanità di Cristo: «Et replebit eum spiritus timoris Domini [Si compiacerà del timore del Signore] (Is 11, 8)».

Quando il nostro grande Patriarca nel Prologo ci chiama alla sua scuola, si propone disegnarci, come a figli, il timor di Dio: «Venite, filii,... timorem Domini docebo vos [Venite, figli, ...vi insegnerò il timore del Signore] (Sal 34 (33), 12)». Dio è un Padre benevolo, e ne dobbiamo ascoltare gli insegnamenti con l’orecchio del cuore, ossia con una disposizione d’amore; perché ci ha preparato un’eredità di gloria immortale e di eterna beatitudine ; ma S. Benedetto ci raccomanda di non stancare con le nostre colpe (Prologo) la bontà di lui che ci aspetta: «quia pius est [poiché è misericordioso]»; e che, nel suo grande amore, predestina coloro che lo temono all’ineffabile partecipazione della sua stessa vita : «Et vita aeterna quae timentibus Deum preparata est [la vita eterna è preparata per quelli che lo temono]». Il timore riverenziale verso Dio, Padre di immensa maestà, «Patrem immensae majestatis (Te Deum)», dev'essere abituale e costante, perché è una virtù, una disposizione abituale; non basta un singolo atto: «Animo suo semper evolvat [ripensa dentro di sé perennemente] (RB 7,11)»; e da esso, come da vivo ceppo, il B. Padre fa derivare tutti gli altri gradi di umiltà; ciascuno dei quali è un passo all'adorazione profonda di Dio, che è il termine finale della nostra riverenza. Se abbiamo davvero questo rispetto, gli sottometteremo anche la volontà; e ciò costituisce il secondo grado; il vero timor di Dio fa sì che l’uomo voglia conoscere ciò che egli comanda, perché il trascurar di sapere quello che ci prescrive è mancanza di rispetto; la volontà di Dio s’immedesima con lui stesso; se lo temiamo, compiremo ogni suo precetto: «Beatus vir qui timet Dominum, in mandatis ejus volet nimis [Beato l’uomo che teme il Signore e nei suoi precetti trova grande gioia] (Sal 112 (111), 1)». Se avremo verso Dio grande riverenza, preferiremo sempre la volontà sua alla nostra ; e gli immoleremo quel proprio volere che in molti casi è per noi un idolo interno, al quale offriamo incenso continuamente; l’anima umile che conosce i supremi diritti di Dio, quali a lui provengono dalla pienezza del suo essere e dalle infinite sue perfezioni, conosce anche il suo nulla e la sua dipendenza; quindi cerca nella volontà di Dio, e non in sé, la ragione della propria attività; sacrifica il suo volere a quello di Dio ; accetta le disposizioni della Provvidenza a suo riguardo ; e non si eleva in sé, perché Dio solo, santo e onnipotente, merita l’adorazione e la sottomissione : «Humilitas proprie respicit reverentiam qua homo Deo subjicitur... [7]. Per hoc quod Deum reveremur et honoramus, mens nostra ei subjicitur [L'umiltà consiste principalmente nella subordinazione dell'uomo a Dio... Poiché mediante la riverenza e l'onore che prestiamo a Dio la nostra mente si sottomette a lui, (raggiungendo così la propria perfezione)]».

Questi due primi gradi non sono propri dei monaci, obbligano anche i semplici fedeli; ma S. Benedetto ce li ricorda perché la perfezione monastica è per lui il Cristianesimo pienamente vissuto.



[1] Summa Theologica Secunda Secundae, q. CLXI, a. 6.

[2] Ivi, a. 6, ad. 5.

[3] Nota del redattore: Le traduzioni in parentesi quadra sono mie.

[4] Ivi, a. 6.

[5] Ivi, a. 6.

[6] Anche gli altri testi qui citati sono presi dal capitolo 7 della Regola di Benedetto sull'umiltà.

[7] Summa Theologica Secunda Secundae, q. CLXI, a. 4; q. LXXXI, a. 7; q. XIX, a. 2.


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1 dicembre 2018                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net