Regola di S. Benedetto

Prologo: Il Signore attende che, giorno per giorno, rispondiamo con i fatti alle sue sante esortazioni. Ed è proprio per permetterci di correggere i nostri difetti che ci vengono dilazionati i giorni di questa vita secondo le parole dell'Apostolo: "Non sai che con la sua pazienza Dio vuole portarti alla conversione?" Difatti il Signore misericordioso afferma: "Non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva".

Capitolo VI - L'amore del silenzio: Facciamo come dice il profeta: "Ho detto: Custodirò le mie vie per non peccare con la lingua; ho posto un freno sulla mia bocca, non ho parlato, mi sono umiliato e ho taciuto anche su cose buone". Se con queste parole egli dimostra che per amore del silenzio bisogna rinunciare anche ai discorsi buoni, quanto più è necessario troncare quelli sconvenienti in vista della pena riserbata al peccato! Dunque l'importanza del silenzio è tale che persino ai discepoli perfetti bisogna concedere raramente il permesso di parlare, sia pure di argomenti buoni, santi ed edificanti, perché sta scritto: "Nelle molte parole non eviterai il peccato".

Capitolo VII - L'umiltà: I Dunque il primo grado dell'umiltà è quello in cui, rimanendo sempre nel santo timor di Dio, si fugge decisamente la leggerezza e la dissipazione, si tengono costantemente presenti i divini comandamenti e si pensa di continuo all'inferno, in cui gli empi sono puniti per i loro peccati, e alla vita eterna preparata invece per i giusti. In altre parole, mentre si astiene costantemente dai peccati e dai vizi dei pensieri, della lingua, delle mani, dei piedi e della volontà propria, come pure dai desideri della carne, l'uomo deve prendere coscienza che Dio lo osserva a ogni istante dal cielo e che, dovunque egli si trovi, le sue azioni non sfuggono mai allo sguardo divino e sono di continuo riferite dagli angeli.... Il dodicesimo grado, infine, è quello del monaco, la cui umiltà non è puramente interiore, ma traspare di fronte a chiunque lo osservi da tutto il suo atteggiamento esteriore,... e, considerandosi sempre reo per i propri peccati, si vede già dinanzi al tremendo giudizio di Dio, ripetendo continuamente in cuor suo ciò che disse, con gli occhi fissi a terra il pubblicano del Vangelo: "Signore, io, povero peccatore, non sono degno di alzare gli occhi al cielo".

Capitolo LXXII - Il buon zelo dei monaci: Come c'è un cattivo zelo, pieno di amarezza, che separa da Dio e porta all'inferno, così ce n'è uno buono, che allontana dal peccato e conduce a Dio e alla vita eterna. Ed è proprio in quest'ultimo che i monaci devono esercitarsi con la più ardente carità... non antepongano assolutamente nulla a Cristo, che ci conduca tutti insieme alla vita eterna.


 

IL PECCATO DEGLI UOMINI

Cesls Spicq O.P.

Estratto da “Grandi temi biblici” – Edizioni Paoline 1960

 

Si può dire che la religione rivelata è caratterizzata tanto dalla rivelazione e dalla presa di coscienza del peccato quanto dalla redenzione dei peccatori. L’Antico Testamento è soprattutto la storia delle offese dell’uomo contro Dio, con tutto quello che queste colpe portano con sé di castigo e di speranza e di perdono; il Nuovo Testamento proclama la venuta del Salvatore: « Sarà lui che salverà il popolo suo dai suoi peccati » (Mt 1, 21). Quest’ultima parola è al plurale; ed in realtà la Bibbia dispone di più di trenta termini per indicare il male o la colpa: disobbedienza, ingiustizia, debito, trasgressione, rivolta, infedeltà, ecc.; ma il vocabolo più costante (amartia in greco, hattah in ebraico) evoca l’idea di «mancare allo scopo», donde: deviare e fuorviare, sbagliar strada. Se si pensa che la vocazione dell’uomo, la sua unica ragione di essere, è trovare Dio, unirsi a lui, il peccato è tutt’insieme un errore (sheghaghah), una follia e un accecamento (nebâlâh). Ecco perché la Scrittura qualifica il giusto da saggio e il peccatore da stolto (Sir 16, 21-23; 21, 11-28).

Dopo la creazione del mondo e dell’uomo da parte di Dio, la prima affermazione biblica è quella del carattere originale del peccato. All’alba della razza umana, infatti, Adamo appare il signore e padrone della terra, immagine di Dio, collocato in un paradiso di delizie e che gode dell’intimità del suo Creatore (Gen 1, 26; 2, 8; 3, 8). Ora egli trasgredisce una proibizione formale di Dio (Gen 2, 17; 3, 6). Questa colpa non è soltanto una disobbedienza, cioè una rivolta contro una prescrizione morale; ma ha senso solo in funzione di Dio che ha il diritto assoluto di determinare la condotta della sua creatura, così che il peccato nella Bibbia ha essenzialmente un carattere religioso. Questo fatto primordiale orienterà e il destino di Adamo e tutto il corso della storia. Ci sarà ormai un legame immutabile tra peccato e infelicità. Da una parte infatti questo primo peccato separa da Dio, provoca la vergogna, attira il castigo, moltiplica pene e sofferenze (Gen 3, 7-20). D’altra parte, esso si perpetuerà attraverso le generazioni e l’offesa contro Dio trarrà seco tutta una serie di colpe contro l’uomo; gelosia e violenza appaiono nell’assassinio di Abele per mano del fratello (Gen 4, 1-16), poi nella crudeltà di Lamec (Gen 4, 23-24), così che « Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni intimo intento del loro cuore non era altro che male, sempre » (Gen 6, 5). La conseguenza fu il diluvio.

Tuttavia, fin dalla prima caduta, Dio ha pietà della sua creatura (Gen 3, 21); egli lascia intravedere la sua intenzione di rialzarla (Gen 3, 15), e, per assicurare l’avvenire spirituale dell’umanità, mette in azione il principio dell’elezione facendo alleanza con alcune anime integre: Noè, Abramo, i Patriarchi, che «camminano con lui» (Gen 6, 9) e da cui uscirà una umanità nuova, il Popolo di Dio.

Il dono della Legge sul Sinai segna una nuova tappa nella concezione del peccato. Israele è legato a Dio con una alleanza, simile ad un matrimonio indissolubile. Le stipulazioni hanno precisamente lo scopo di assicurare la fedeltà del popolo eletto, « affinchè non pecchiate » (Es 20, 20); Jahvè si impegna da parte sua ad assicurare la protezione di coloro che gli appartengono e lo servono. Ne segue che, da una parte, si dovrà odiare il male come Dio lo odia, e amare la virtù perché Dio l’ama (Lv19, 32-37s; Dt 10, 17-20s.); d’altra parte che l’idolatria è il peccato supremo (Es 20, 3-7; 23, 24; 32). In realtà Israele tradisce il suo Creatore, e tutti i disastri nazionali sono attribuiti alla sua infedeltà [1]; ma questo rigore nel castigo è ordinato ad aprire gli occhi e a purificare i cuori. Quello a cui mira la pedagogia del Dio geloso quando punisce i suoi figli, è che riconoscano che il peccato è un male, che conduce alla morte; la conversione assicura la pace, la prosperità, la benedizione (Dt 10, 12; 11, 32).

A partire dall’ VIII secolo, i Profeti affinano la coscienza morale del popolo e tendono a inculcargli il senso del peccato, la gravità delle sue mancanze. A tale scopo insistono sulla bontà e generosità divina (Ger 2, 7) che dovrebbero toccare le anime più superficiali. Il peccato, risposta dell'uomo alle premure affettuose del suo benefattore, appare allora come un rifiuto, una durezza di cuore (Is 46, 12; 48, 4; 8; Ez 2, 4), una mostruosa ingratitudine: «Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende » (Is 1, 3). « La cicogna nel cielo conosce il tempo per migrare, la tortora, la rondinella e la gru osservano il tempo del ritorno; il mio popolo, invece, non conosce l’ordine stabilito dal Signore » (Ger 8, 7; cfr. 2, 32). Qualunque sia la mentalità delle colpe: oppressione dei deboli, spogliazione dei poveri, corruzione dei giudici, accaparramento delle terre, frode nel commercio, cupidigia e lussuria [2], è sempre Dio che si offende. Il peccato c’è solo in relazione a lui, come proclamò David dopo il suo adulterio: «Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto» [3].

Più l’anima si purifica e più acquista coscienza delle sue colpe. Nessuna meraviglia dunque che i Profeti, che si sforzano di avvicinare i credenti al loro Dio, siano così vivamente colpiti dall’universalità del male: «Percorrete le vie di Gerusalemme, ...cercate nelle sue piazze se c’è un uomo che pratichi il diritto, e cerchi la fedeltà» (Ger 5, 1); « Dal piccolo al grande, tutti commettono frode» (Ger 8, 10; cfr. 5, 6); «Siamo divenuti tutti come una cosa impura, e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia; tutti siamo avvizziti come foglie, le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento» (Is 64, 5). Perché in verità il peccato — che si estende al mondo intero (Ez 25, 32; Am 1) — ha la sua radice nel cuore (Ger 5, 23; 17, 9), come una cattiva inclinazione (Ger 2, 25; 7, 24; 18, 12) che non si può sradicare: «Può un Etiope cambiare la pelle o un leopardo le sue macchie? Allo stesso modo: potrete fare il bene voi, abituati a fare il male?» (Ger 13, 23; cfr. 10, 23). È una corruzione, un egoismo forsennato, una malattia [4].

Ecco perché Dio rassomiglia ad un medico che cura un ammalato grave con un trattamento doloroso ma efficace: «Ma ecco, io farò rimarginare la loro piaga, li curerò e li risanerò» (Ger 33, 6); «Io li guarirò dalla loro infedeltà, li amerò profondamente» (Os 14,5) [5]. È nel perdono del peccato che l’amore di Jahvè si rivela in tutta la sua gratuità e immensità: «Quale dio è come te, che toglie l’iniquità e perdona il peccato al resto della sua eredità? ... Egli tornerà ad avere pietà di noi, calpesterà le nostre colpe. Tu getterai in fondo al mare tutti i nostri peccati. Conserverai a Giacobbe la tua fedeltà, ad Abramo il tuo amore, come hai giurato ai nostri padri fin dai tempi antichi» (Mi 7,18-20) [6].

Al ritorno dall’esilio la legge giudaica — espressa con la penna dei sapienti e nel canto dei salmi — insiste sull’universalità del peccato. Nessun uomo è perfetto: «Sono tutti traviati, tutti corrotti; non c’è chi agisca bene, neppure uno» (Sal 14, 3). «Non c’è infatti sulla terra un uomo così giusto che faccia solo il bene e non sbagli mai» (Qo 7,20) [7]. Senza dubbio si tratta di una impossibilità congenita di una esatta osservanza della Legge [8], ma si insiste soprattutto sull’opposizione tra la contaminazione dell’uomo e la santità dell’Altissimo. Il peccato si giudica in base all'orrore che ne ha Dio [9] e l’abisso che scava tra noi e lui. Mentre l’empio, presuntuoso, conta su un facile perdono (Sir 5, 4-6), l’anima religiosa confessa con angoscia: «Davanti a te poni le nostre colpe, i nostri segreti alla luce del tuo volto» (Sal 90, 8) [10]. In realtà i peccati sono considerati come una specie di profanazione in seno al popolo eletto, in mezzo al quale Jahvè risiede. Ogni culto, ogni gesto che avvicina a Dio esige una santità perfetta, quindi il peccato è una bruttura incompatibile con l’adorazione del Signore [11]. Mentre il giusto proclama che il Signore è tutto (Sir 43, 27) e vive nel suo timore, cioè in quella venerazione e religiosa fedeltà che gli meritano il titolo di saggio [12], il peccatore vuole ignorare e spesso disprezza l’assoluta sovranità divina. Il primo vive sotto lo sguardo di Dio, il secondo se ne allontana e compie la sua infelicità: «I ragionamenti distorti separano da Dio» (Sap 1, 3; cfr. Is 59, 2). La storia conferma e ratifica tragicamente la prima esperienza dell’Eden!

 

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La predicazione primitiva della Chiesa non poteva far a meno di sottolineare lo stato deplorevole degli uomini, giudei o pagani, « schiavi del peccato » [13] che regna su loro come il più dispotico e il più crudele dei tiranni. La corruzione del mondo è universale — « tutti hanno peccato » (Rm 8, 23) — quindi provoca la collera di Dio, cioè la sua giustizia vendicatrice [14]. Il responsabile è Adamo, la cui colpa, trasmessa nei suoi discendenti, ha corrotto la natura umana [15]; e la legge di Mosè, moltiplicando i precetti senza dare la forza di compierli, ha aggravato ancor più la situazione dei suoi sudditi. Se ha precisato le determinazioni del bene e del male, ha per ciò stesso ravvivato la coscienza del peccato e ha contribuito a moltiplicare le infrazioni: «Però io non ho conosciuto il peccato se non mediante la Legge. Infatti non avrei conosciuto la concupiscenza, se la Legge non avesse detto: “Non desiderare”. Ma, presa l’occasione, il peccato scatenò in me, mediante il comandamento, ogni sorta di desideri. Senza la Legge infatti il peccato è morto. E un tempo io vivevo senza la Legge ma, sopraggiunto il precetto, il peccato ha ripreso vita e io sono morto. Il comandamento, che doveva servire per la vita, è divenuto per me motivo di morte» (Rm 7, 7-10); «La Legge poi sopravvenne perché abbondasse la caduta» (5, 20; cfr. Gal 8, 22). Queste non sono astratte considerazioni storiche o speculative. Ogni uomo potrebbe far propria la confessione dell’Apostolo; «Sappiamo infatti che la Legge è spirituale, mentre io sono carnale, venduto come schiavo del peccato. ... Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene: in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. ... nelle mie membra vedo un’altra legge, che combatte contro la legge della mia ragione e mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra. Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?» (Rm 7, 14-24).

Infelix homo! È il grido del peccatore che — volens nolens — non può trovare al di fuori di Dio una beatitudine alla quale aspira con tutte le forze (Rm 8, 18-25). Le sue colpe gli interdicono — più severamente dei Cherubini armati all’ingresso del paradiso — l’accesso in quel bel regno, illusorio... fino al giorno in cui, dalle labbra di un Apostolo, sentirà risuonare nelle sue orecchie la parola liberatrice: «I tuoi peccati ti sono rimessi!». Infatti il più decisivo avvenimento della storia si verifica con la venuta del Figlio di Dio in questo mondo, e quel che contraddistingue la rivelazione del Nuovo Testamento riguardo al peccato è il fatto di legarlo essenzialmente alla Persona [16], e all’intera opera di Gesù Cristo: la sua nascita, la sua vita, la sua morte, la sua risurrezione sono ordinate a liberare l’uomo dal peccato, a «riconciliarlo» con il suo Dio, cioè a salvarlo. Lo stesso nome esprime la sua missione: Gesù vuol dire Salvatore (Mt 1, 21; Lc 1, 31, 77). Il Precursore lo indica come colui «che toglie i peccati del mondo» (Gv 1, 29). Egli stesso dichiara di essere venuto «a cercare e a salvare ciò che era perduto» (Lc 19,10) [17], «non a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mt 9, 13), come un medico che consacra la propria vita agli ammalati (Lc 5, 31). Difatti, egli frequenta i peccatori e concede loro la sua amicizia [18]. Insegna che la volontà del Padre suo è che neppure uno di quei piccoli si perda [19], e come Dio, pieno di compassione per i suoi figli prodighi (Lc 15, 11-32) rimette i loro debiti (Mt 6, 12-14), così anche lui ha il potere di assolvere tutti i peccati. (Mt 9, 2-8). Perdona alla peccatrice le sue numerose colpe (Lc 7, 48), come introdurrà il buon ladrone nel paradiso (23, 43). Solo il rifiuto della luce, «il peccato contro lo Spirito Santo», non è remissibile [20]. In compenso, il Salvatore dà la propria vita in riscatto per la moltitudine (Mt 20, 28) e sparge il suo sangue per molti in remissione dei peccati (Mt 26, 28). Non soltanto istituisce l’Eucarestia per unire eternamente al Padre le anime purificate in questa «nuova Alleanza» che egli sigilla con la sua immolazione, ma affida ai suoi Apostoli il potere che egli stesso aveva sulla terra: «A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati» (Gv 20,23) [21]. Finalmente, nell’ultima apparizione il Risorto ordina «nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati» (Lc 24,47) [22].

Si comprende allora come il messaggio cristiano, la Buona Novella, si riassuma in quell’affermazione di fede ripetuta a gara sotto una forma o sotto un’altra da tutti gli Apostoli: «A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati» (1 Cor 15,3) [23]; «Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori» (1 Tm 1, 15). Fin dal giorno di Pentecoste S. Pietro domandava alle anime di buona volontà di pentirsi «Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati» (At 2, 38), poiché «Dio, dopo aver risuscitato il suo servo, l’ha mandato prima di tutto a voi per portarvi la benedizione, perché ciascuno di voi si allontani dalle sue iniquità» (At 3, 26). «Dio lo ha innalzato alla sua destra come capo e salvatore, per dare a Israele conversione e perdono dei peccati» (At 5, 31). Alla sera della sua vita S. Giovanni ripete: «Gesù si manifestò per togliere i peccati» (1 Gv 3, 5).

Se Cristo sulla croce ha espiato le nostre colpe e riscattato il genere umano, rimane da appropriarsi i meriti di questa morte e uccidere effettivamente il peccato in noi. È quello che fa il battesimo, rito e sacramento di incorporazione a Cristo, in cui il credente è unito al Salvatore come un membro a un corpo o un ramo innestato su un albero: «L’uomo vecchio che è in noi è stato crocifisso con lui, affinché fosse reso inefficace questo corpo di peccato» (Rm 6, 6; cfr. 7, 6). Quest’unione è talmente reale che ormai è Cristo risuscitato che vive in noi (Gal 2, 19-20); in lui si diventa una nuova creatura (2 Cor 5, 17; Gal 6,15), un uomo nuovo (Ef 4, 22-24; 1 Cor 3, 9-10). È una rinascita (Tt 3, 5-7), il passaggio da questo basso mondo al mondo celeste: «Né immorali, né idolatri, né adùlteri, né depravati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né calunniatori, né rapinatori erediteranno il regno di Dio. E tali eravate alcuni di voi! Ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore (nostro) Gesù Cristo» (1 Cor 6, 9-11; cfr. Ef 5, 8). Donde l’immensa e religiosa gratitudine che riempie il cuore del peccatore giustificato e costituisce la nota dominante della sua carità. Al dono così prodigioso del perdono delle iniquità risponde la riconoscenza dell’anima purificata: «Ringraziate con gioia il Padre che vi ha resi capaci di partecipare alla sorte dei santi nella luce. È lui che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore, per mezzo del quale abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati» (Col 1, 12-14).

Per S. Paolo la creazione di una umanità nuova, liberata dal male (Rm 5, 12-19) è attribuita alla carità divina di cui costituisce la prova innegabile. Proprio perdonando il peccato, Dio rivela il suo amore: «Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5, 8; cfr. 8, 39; Gv 3, 16-17).

Qui sta l’insegnamento supremo del Nuovo Testamento: Dio è carità, e questo amore non compie opera più grande che di riscattare i peccatori; al punto che questo perdono, di una gratuità insigne, è il segreto di tutto il piano provvidenziale: Dio ha permesso la colpa e ha lasciato moltiplicare le iniquità, per dare maggior rilievo all’intervento della sua misericordia. Come l’esperienza delle tenebre dà maggior valore alla luce ricuperata, l’atroce coscienza delle sozzure permette alle anime purificate di percepire la bontà di un Dio che perdona alle sue creature che l’hanno offeso. Donde queste due affermazioni che riassumono l’epistola ai Romani: «Dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia» (Rm 5, 20); «Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per essere misericordioso verso tutti!» (Rm 11, 32).

 

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Mentre l’Antico Testamento, dall’indomani della creazione e lungo i millenni, traccia l’oscuro quadro di una umanità peccatrice, che sfoga il suo dolore e la sua vergogna, il Nuovo Testamento è un canto di trionfo alla gloria della bontà di Dio e della sua onnipotenza: «Noi siamo più che vincitori grazie a Colui che ci ha amati» (Rm 8, 37)... E tuttavia, l’esperienza quotidiana non ci rivela forse nel mondo riscattato tante iniquità quante ce n’erano prima? (1 Gv 2, 15- 16). La verità è che se il battesimo ci ha realmente uniti a Cristo e resi partecipi della sua morte, il cristiano deve far fruttare questa grazia di crocifissione e realizzare ogni giorno questa morte al peccato: «Quelli che sono di Cristo Gesù, hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri» (Gal 5, 24; cfr. Col 2, 11); «Il peccato dunque non regni più nel vostro corpo mortale, così da sottomettervi ai suoi desideri» (Rm 6, 12; cfr. 8, 2-14). L’assimilazione a Cristo si realizza progressivamente, la spiritualizzazione si compie a poco a poco, e poiché il cristiano continua a vivere nella carne e in un universo di cui Satana rimane il padrone [24], è chiamato a lottare contro tutte queste forze cattive e a liberarsi progressivamente dal peccato. La sua fedeltà non è una semplice perseveranza, ma una vittoria. Solo nella città beata, la Gerusalemme celeste, non ci sarà più posto per il peccato (Ap 21, 27; 22, 14-15); ed è quanto dire che la condizione essenziale del cristiano è quella di un peccatore riscattato.

Già Gesù, insegnando la preghiera e prevedendo le colpe dei suoi futuri discepoli, faceva loro domandare: «Perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione» (Lc 11, 4). Egli istituì il sacramento di penitenza per perdonare i peccati che non avrebbero mancato di commettere, affinché questa purificazione fosse il segno permanente della virtù santificatrice del suo sangue e l’opera dell’infinita misericordia. Sarebbe, di conseguenza, una specie di eresia credersi impeccabile e sognare di vivere senza colpa, poiché sarebbe contrario all’ordine provvidenziale [25], rompere questo vincolo d’amore compassionevole che Dio ha voluto stringere con noi: «Se dicessimo che noi non abbiamo alcun peccato, inganneremmo noi stessi e la verità non sarebbe in noi» (1 Gv 1, 8). Certo, dobbiamo evitare con tutte le nostre forze di offendere Dio. S. Giovanni, dopo aver ripetuto: «Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi» (1 Gv 1, 10), aggiunge immediatamente: «Vi scrivo queste cose perché non pecchiate» (1 Gv 2,1) [26], e preciserà: «Chiunque è stato generato da Dio non commette peccato» (1 Gv 3, 9; cfr. 5, 18). I grammatici osservano che il verbo è al presente (invece dell’aoristo precedente) e non significa affatto un’impossibilità di peccare, ma: il figlio di Dio non può rimanere nei suoi peccati o continuare ad offendere il Padre suo come faceva prima di essere divinamente adottato.

Che rimane dunque, se non che il dono salvatore della carità di Dio, nella passione di Cristo, si rinnova per ogni cristiano? Questi si unisce al Padre suo, mediante il Figlio, grazie ai suoi peccati oseremmo dire. Egli è ogni giorno contemporaneo del Calvario, da cui riceve la grazia di purificazione e di perdono. Più esattamente, Cristo risorto alla destra di Dio continua a intercedere per i peccatori e mette in opera i frutti della sua Passione. Dunque i cristiani devono implorare la misericordia divina dal cielo: «Se noi confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto tanto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità... ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto. È lui la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo» (1 Gv 1, 9; 2, 1-2).

Ecco perché la Redenzione è sempre attuale ed ecco come i «poveri peccatori» possono entrare in cielo e starsene alla presenza di Dio. Essi hanno un avvocato, un difensore, che da una parte è loro fratello (Eb 2, 12), dall’altra parte gode di ogni credito presso il loro Padre comune e intercede continuamente in loro favore [27]. Egli offre il suo prezioso sangue e purifica i suoi da ogni macchia (Eb 9, 14). È il Sommo Sacerdote, costituito per la salvezza degli uomini (Eb 5, 1-10) e aprir loro una via di accesso a Dio (Eb 10, 19-20).

Mentre il primo uomo, avendo perduta l’intimità divina, era stato scacciato dal paradiso (Gen 3, 24), i cristiani, grazie a Cristo Salvatore, possono avvicinarsi con fiducia al Dio di ogni misericordia, con il cuore purificato (Eb 10, 22), per rendergli il culto di cui è degno (Eb 12, 28). «Voi invece vi siete accostati al monte Sion, alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a migliaia di angeli, all’adunanza festosa e all’assemblea dei primogeniti i cui nomi sono scritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti resi perfetti, a Gesù, mediatore dell’alleanza nuova, e al sangue purificatore, che è più eloquente di quello di Abele» (Eb 12, 22-24).


NDR. Le citazioni bibliche del testo originale sono state sostituite da quelle della Bibbia CEI ed. 2008.

 

NOTE

[1] Cfr. Gdc 2, 10-15; 3, 7-8; 4, 1-2; 6, 1-3; 8, 33-35; 10, 6-9; 13, 1; 1 Re 11, 1-13; 16, 30-33; 2 Re 10, 29-33; 13, 2-3; poi Osea 13, 1-15; Amos 2, 4-16; 3, 11; 6, 7-9; Mi 3, 1-4; Ez 5, 7-17; 33, 23-29. Poiché tutti i membri della nazione sono solidali dei colpevoli, il peccato ha un carattere collettivo, e la comunità intera è colpita dal castigo.

[2] Is 1, 17; 5, 8-25; Osea 4, 1-19; 12, 1-2, 8; Amos 2, 6-8; 3, 10; 4, 1; 8, 4-6.

[3] Sal 51, 6; cfr. 1 Cor 8, 12: «Peccando così contro i fratelli e ferendo la loro coscienza debole, voi peccate contro Cristo».

[4] Cfr. Is 53, 4-5; Ger 14,7 (secondo l’ebraico). Con Geremia ed Ezechiele appare nettamente la nozione di responsabilità individuale Ger 17, 10; 31, 29; 32, 19; Ez 14, 13-23; 18, 20: «Chi pecca morirà; il figlio non sconterà l’iniquità del padre» Ez 33, 12-20.

[5] Osea 14, 5; cfr. 5, 13; Dt 32, 39; Is 57, 18; Ger 8, 21-23.

[6] Mi 7, 18-20; cfr. Is 1, 18: «Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve. Se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana». Secondo Ezechiele è per far onore al suo santo Nome che Jahvé vuol lavare il popolo da tutte le sue sozzure: «Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati ... vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme» (Ez 36, 23-27).

[7] Qo 7, 20; cfr. Pro 20, 9: “Chi può dire: «Ho la coscienza pulita, sono puro dal mio peccato?»”.

[8] Sap 12, 10: «(Tu sapevi) che la loro razza era cattiva e la loro malvagità innata...» (Sir 23, 26; 25, 24; del peccato originale).

[9] Pr 3, 32; 6, 16-19; Sir 17, 19-26.

[10] Sal 90, 8-12; cfr. Gb 4, 17: «Può l’uomo essere più retto di Dio, o il mortale più puro del suo creatore?» «Il Signore soltanto è riconosciuto giusto» (Sir 18, 1); e «Uno solo è il sapiente, (è il Signore)» (Sir 1,6).

[11] Zc 5, 5-11; Ml 2, 11.

[12] Pr 1, 7; 9, 10; Sir 1, 14-21: «Il timore del Signore tiene lontani i peccati» (Volg. Eccli. 1, 27).

[13] Rom. 6, 16-22; Tt 3, 3: «Anche noi un tempo eravamo insensati, disobbedienti, corrotti, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella malvagità e nell’invidia, odiosi e odiandoci a vicenda». (Cfr. 2 Pt 2, 19). S. Paolo caratterizza di solito le colpe individuali come delle «trasgressioni» (paraptóma, parabasis), e riserva il termine proprio di «peccato» (amartia), che spesso personifica, per quella potenza che domina l’uomo, l’allontana da Dio e infine l’uccide (Rm 7, 11-13).

[14] Rm 1, 18-3,-20; 10, 3; Ef 2, 3.

[15] «A causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo ... per la caduta di uno solo la morte ha regnato ... per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori» (Rm 5, 12-19); cfr. 1 Cor 15, 21, Per maggiori sfumature cfr. A. M. Dubarle Le péché originel dans l’Écriture, Paris, 1958.

[16] Proprio lui è senza alcun legame con il peccato (2 Cor 5, 21; Gv 8, 46; 1 Gv 3, 5).

[17] Lc 19, 10. «Ciò che era perduto» è un termine nuovo per designare i peccatori, Mt 10, 28, 89; 16, 25; Lc 15, 4, 8, 24, 32; Gv 3, 16; 1 Cor 1, 18; 8, 11; 2 Cor 2, 15; 2 Ts 2, 10.

[18] Lc 5, 30; 7, 34; Mt 11, 19.

[19] Mt 18, 14; Gv 6, 39; 18, 9.

[20] Mt 12, 31-32; cfr. Eb 6, 4-6; 10, 26-27; 1 Gv 5, 18.

[21] Gv 20, 23 (cfr. Mt 16, 19). La seconda parte della frase non restringe la portata della prima. Si tratta di una locuzione ebraica che, al contrario, esprime la totalità e assolutezza del perdono. Avere il diritto o la potenza di legare significa che la potenza di sciogliere è senza limiti. A questo sacramento di penitenza deve aggiungersi l’Estrema Unzione cosi efficacemente purificante (Gc 5, 15-16).

[22] Lc 24, 47. Se Cristo ottiene dal Padre la remissione per tutte le colpe, spetta agli uomini approfittarne; il che suppone che ci si riconosca peccatori, come il pubblicano (Lc 18, 9-14); che si voglia essere purificati, all’opposto dei Farisei (Mt 9, 12 ; Gv 9, 41 ; 15, 22) ; e soprattutto che « ci si penta » dei propri peccati, dei propri sentimenti, della propria condotta (Mt 4, 17). Il peccatore contrito ha «il cuore trafitto» (Atti 2, 37) dal dolore, quel che il medioevo chiamerà la «compunzione» (cfr. L’imitazione di Gesù Cristo); valore morale essenziale e profondamente biblico, che la spiritualità moderna trascura; e tuttavia «coloro che piangono, sono coloro che si salvano », come scriveva meravigliosamente Ruysbroeck. (Jan van Ruysbroeck detto “Dottore Ammirabile” (1293 – 1381) beato: autore fiammingo di opere di mistica e spiritualità. Ndr.)

[23] 1 Cor 15, 3; cfr. Rm 5, 6-10; 8, 3-4; Gal 1, 4; Ef 1, 7. È in lui che «abbiamo la redenzione e il perdono dei peccati» (Col. 1, 14).

[24] 1 Gv 2, 13-14; 3, 8; cfr. Mt 5, 37; 13, 19, 28, 38-39; Gv 8, 44.

[25] L’uomo essendosi inorgoglito per la propria sapienza e allontanato da Dio, Dio ha sostituito una «economia» di misericordia a quella di «giustizia» che era venuta meno.

[26] 1 Gv 2, 1; cfr. 1 Cor 5, 11; Ef 5, 3-7; 1 Tm 6, 3-5; 1 Pt 1, 15; 4, 15, ecc.

[27] Rm 8, 34; Eb 4, 14-16; 7, 24-26. cfr. J. Scharbebt, Unsere Sünden und die Sünden unserer Väter, in Biblische Zeitschrift, 1958. pp. 14-26.


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25 maggio 2017          a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net