Regola di S. Benedetto


Capitolo XXXVI - I fratelli infermi: L'assistenza agli infermi deve avere la precedenza e la superiorità su tutto, in modo che essi siano serviti veramente come Cristo in persona, il quale ha detto di sé: "Sono stato malato e mi avete visitato", e: "Quello che avete fatto a uno di questi piccoli, lo avete fatto a me". I malati però riflettano, a loro volta, che sono serviti per amore di Dio e non opprimano con eccessive pretese i fratelli che li assistono, ma comunque bisogna sopportarli con grande pazienza, poiché per mezzo loro si acquista un merito più grande.
Quindi l'abate vigili con la massima attenzione perché non siano trascurati sotto alcun riguardo. Per i monaci ammalati ci sia un locale apposito e un infermiere timorato di Dio, diligente e premuroso. Si conceda loro l'uso dei bagni, tutte le volte che ciò si renderà necessario a scopo terapeutico; ai sani, invece, e specialmente ai più giovani venga consentito più raramente. I malati più deboli avranno anche il permesso di mangiare carne per potersi rimettere in forze; però, appena ristabiliti, si astengano tutti dalla carne come al solito. Ma la più grande preoccupazione dell'abate deve essere che gli infermi non siano trascurati dal cellerario e dai fratelli che li assistono, perché tutte le negligenze commesse dai suoi discepoli ricadono su di lui.

Capitolo XXXIX - La misura del cibo: ... Tutti infine si astengano assolutamente dalla carne di quadrupedi, a eccezione dei malati molto deboli.

Capitolo XLVIII - Il lavoro quotidiano: ... Infine ai monaci infermi o cagionevoli si assegni un lavoro o un'attività che non li lasci nell'inazione e nello stesso tempo non li sfinisca per l'eccessiva fatica, spingendoli ad andarsene, poiché l'abate ha il dovere di tener conto della loro debolezza.


 

MEDICINA MONASTICA

 

Estratto da "Storia della medicina", di Giuseppe Armocida, Editoriale Jaca Book, 1993

 

Le conoscenze anatomiche, fisiologiche e terapeutiche del medico medievale erano formate da un misto di ricordi della scienza antica, di intrusioni arabe e di credenze popolari. In Occidente la decadenza della pratica medica nel mondo laico aveva fatto confluire soprattutto nelle mani dei monaci sia la scienza, sia la pratica. Si ha, in tal modo, una nutrita serie di centri religiosi nei quali si pratica la medicina, e tali centri corrispondono ai monasteri: è la cosiddetta medicina monastica, la quale per parecchio tempo rimase la quasi unica forma di medicina conosciuta nel Medioevo occidentale. Nei monasteri, infatti, si era salvato il salvabile della produzione degli Autori classici e si era conservata anche, come nel suo estremo rifugio, la medicina. Ciò, naturalmente, non avvenne per caso: due fatti concorsero a determinare la nascita della medicina monastica. Il primo fu quello al quale già accennammo: l'essere i monasteri, almeno per un primo lungo periodo, praticamente gli unici centri in cui si fosse trasmessa la cultura classica, soprattutto la cultura latina. Con l’andare del tempo anche questa per gran parte rimase muta negli scaffali in cui si lasciavano impolverare quei testi che i primi monaci avevano amorevolmente copiato, i loro successori avevano ignorato, quando non addirittura usato come «carta da scrivere» erudendo i testi classici e scrivendo, al loro posto, fra una riga e l’altra testi di preghiere o di omelie di Santi (sono i cosiddetti palimpsesti), e che solo gli Umanisti, a partire dal Petrarca (1304-74), riscopriranno con entusiasmo. Il secondo fatto fu di portata assai più vasta ed interessò la cultura medica solo come elemento particolare nell'ambito di una nuova visione del mondo e di una nuova impostazione dei problemi umani: il Cristianesimo. La carità cristiana, che ormai ispirava ogni aspetto della vita, non poteva non produrre i suoi effetti anche sulla medicina dei monasteri, la quale appunto a tale principio era ispirata. Aiutare gli afflitti, soccorrere i bisognosi: come, meglio che curando i malati, potrebbero esser messi in pratica questi due fondamentali precetti di carità? Ecco, quindi, che i monasteri divengono assai per tempo qualche cosa che potrebbe sembrare molto simile agli antichi Asclepiei [1] , ma che, invece, se ne differenzia profondamente. Là tutto era suggerito e nasceva da una buona dose di pratica da pane dei sacerdoti e dei loro assistenti, da una altrettanto buona dose d'istrionismo da parte del sacerdote stesso, aiutato da una non minore dose di credulità da parte del fedele paziente. Qui tutto è suggerito dallo spirito di carità, dalla fede e dall'amore per il prossimo. In altre parole: nei monasteri, sia nella medicina, sia negli altri aspetti della vita, si ha la consapevolezza che si sta preparando, anzi, che si è già realizzata una nuova umanità. Fra i più importanti, anche sotto questo aspetto, fu il monastero di Montecassino, che possiamo dire abbia costituito il modello al quale si ispirarono, poi, quasi tutti gli altri. Molti dei quali sorsero e furono attivissimi nella cura dei malati lungo le vie battute dai pellegrini per Compostela, Roma e la Terra Santa. In questi monasteri i pellegrini trovavano ospitalità, riposo e, ovviamente, in caso di bisogno, anche le cure mediche. Quel che i monaci sapevano di medicina non era un gran che, ma una lunga pratica, affiancata da alcune nozioni fondamentali di farmacologia e di dietetica, oltre alla quasi generale disponibilità di un organizzato orto botanico, ricco di piante officinali, bastavano ad ottenere qualche risultato non del tutto disprezzabile. La pratica era fornita dall'uso quotidiano; la dottrina dalle poche opere di Ippocrate (delle quali circolava in traduzione latina il trattato Delle arie, acque e luoghi, cui si affiancavano, sempre in traduzione latina, gli Aforismi e il trattatello Sulle settimane), dall'Articella di Galeno, dal testo di Celso ed infine, soprattutto per la farmacologia, da Plinio il Vecchio e dall’Erbario attribuito ad Apuleio di Madaura (125-180 ca. d.C.), ma sicuramente spurio. Possiamo dire che col tempo, eccettuata, forse, l’Articella di Galeno, tutte le altre opere vennero sostituite dalle Etimologie di sant'Isidoro di Siviglia (570-636), cui rimase accanto solo l'Erbario dello pseudo-Apuleio.

Come si curassero i malati possiamo indurlo dalla lettura dei capitoli che le Regole dei diversi ordini monastici dedicano a questo argomento. Valga, per tutte, qualche passo del capitolo XXXVI della Regola di san Benedetto, che è in Occidente la prima (san Benedetto da Norcia visse fra il 480 ed il 547 ca.), ed il modello di tutte le altre. Il capitolo riguarda la cura dei monaci infermi, ma dobbiamo pensare che gli stessi principi cui si ispiravano i monaci nei confronti dei loro confratelli dovessero essere attivi anche nella cura degli altri malati. Prima di tutto vale la pena di leggere l’inizio del capitolo: «Soprattutto e prima di ogni altra cosa si debbono curare gli infermi, servendo ad essi come se si stesse servendo a Cristo in persona. Egli, infatti, disse: "Io ero malato e voi mi avete visitato". Non è chi non veda come la carità cristiana sia il primo elemento sul quale la Regola pone l’accento, carità che ispira, quindi, tutta la medicina monastica. Il testo continua prescrivendo per ciascun monaco malato una cella personale ed un inserviente particolare, raccomandando all'inserviente di non trascurare il malato e al malato, a sua volta, di non importunare con troppe richieste il suo inserviente, ricordandogli che vien curato «per rendere onore a Dio». All’inserviente, tuttavia, si raccomanda comprensione, poiché «proprio con il curare i malati ci si procura ricompensa maggiore». Quanto alla terapia, essa consiste nel concedere ai malati "l'uso dei bagni tutte le volte che sia necessario", cosa che non si concede con troppa facilità, invece, ai sani, soprattutto se giovani. Inoltre agli infermi viene concesso di "mangiare carne, onde riacquistare le loro forze", ma ciò solo in casi di estrema debolezza del paziente, il quale, "dopo il miglioramento, deve anch'egli astenersi dalla carne, secondo il principio fissato dalla Regola". È evidente che si tratta solo di una breve ferie di consigli dietetico-igienici, ispirati ad un vago ricordo delle terapie antiche (i bagni) e ad una buona dose di pratica, la quale aveva fatto identificare alcuni elementi fondamentali di dietetica che potremmo dire polivalenti, cioè validi per numerosissime affezioni. Tuttavia un bagaglio cosi ristretto di cognizioni non poteva soddisfare a lungo le esigenze della società. Ecco perché, accanto ai monasteri stessi—come accanto agli Asclepièi dell'antica Grecia si erano radunati medici laici ad esercitarvi la professione—vediamo sorgere ben presto gruppi di medici laici, forse perché lì si trovava abbondanza di casi clinici da poter sottoporre ad osservazione e indagine, oltre, ovviamente, ad abbondanza di clienti. Essi in breve tempo si trasformarono e si organizzarono in vere e proprie scuole tra le quali due primeggiarono quella di Montpellier e la nostra di Salerno. Ma per quest'ultima si è recentemente messa in dubbio l'origine «monastica». Certo è che per più decenni le due scuole furono i più illustri centri di studio medico di tutta l'Europa occidentale.

A dare il colpo di grazia alla medicina monastica, tuttavia, non tu tanto la nascita delle scuole e della medicina laica, quanto un intervento drastico dell'autorità ecclesiastica. La pratica della medicina offriva anche nel Medioevo, come in tutte le epoche precedenti e successive, lautissimi guadagni. Naturale, quindi, che certi monaci, attratti da ciò, trascurassero gli impegni connessi con la loro missione religiosa, per dedicarsi all'esercizio della medicina non solo entro le mura dei conventi, dove guadagno, ovviamente, non c'era ma anche, e soprattutto, all'esterno in qualità di veri e propri medici privati. Nel quadro della lotta contro la corruzione e la temporalizzazione della Chiesa e della profonda riforma propugnata soprattutto dai Benedettini, ed in particolare dai Benedettini Cluniacensi, le autorità ecclesiastiche non mancarono di preoccuparsi di tale fenomeno e, dato che i richiami e le esortazioni risultarono inefficaci, ecco che il Concilio di Reims (1131) prima,, e quello di Roma (1139) poi, intervennero con un provvedimento drastico; la proibizione ai religiosi di esercitare la medicina fuori dai propri conventi. Il provvedimento fu reso ancora più rigido da papa Onorio III il quale, intorno al 1200, proibì l'esercizio della medicina anche ai chierici secolari. Questo pose fine alla medicina monastica la quale, a dire il vero, già da qualche tempo dava segni di stanchezza e di esaurimento. Questo fatto, tuttavia, segnò anche il momento di massimo impulso a quelle scuole laiche le quali erano qua e là fiorite, con più o meno di fortuna, nella maggior pane dei casi, abbiamo detto, proprio nei pressi dei conventi e dei monasteri.



[1] ASCLEPIÈI

Erano i templi consacrati ad Asclepio (vedere seguito), dio della medicina. In essi si praticava la terapia tramite l'incubazione (vedere seguito). Erano, in generale, grandi complessi costituiti, oltre che dal tempio vero e proprio, da una serie di edifici che ne facevano qualcosa di assai simile ad un nostro complesso ospedaliero. La terapia che vi si praticava spesso otteneva risultati positivi. Ne sono testimonianza i numerosi ex voto che gli scavi archeologici hanno riportato alla luce e con i quali si ringraziava il dio per l’ottenuta guarigione dalle malattie più disparate: dalle varici alle otiti, dalle artralgie alle malattie dell'apparato genito-urinario. In ogni Asclepièo erano allevati e mantenuti, in un apposito sacello, gli animali sacri ad Asclepio: i serpenti.

 BIBLIOGRAFIA

H.E. Sigerist, A history of Medicine, Oxford 1961 (si veda in particolare il vol. II, pp. 44ss.).

 

ASCLEPIO

Mitico eroe greco, accolto, poi, nel consesso degli dei come dio della medicina. Nell'Iliade Omero (sec. X ca. a.C.) è un mortale, e il «medico irreprensibile». Secondo il mito omerico avrebbe appreso l’arte della medicina dal dottissimo centauro Chirone, mentre secondo Esiodo (fiorito fra il IX e l’VIII secolo a.C.) e secondo Pindaro (518-438 a.C.) Asclepio sarebbe figlio di Apollo e di Coronide. Avendo osato resuscitare Ippolito, fu incenerito da Zeus con un fulmine, ma poi divinizzato. Questa è la versione più comune e più semplice del mito di Asclepio, che veniva data, però, in forme diverse ad Epidauro, in Messenia e nell’Arcadia meridionale. A questo dio si assegnò come moglie Epione e lo si fece padre di Podalirio e Macaone, i medici - secondo Omero - dell'esercito achèo durante la guerra di Troia, oltre alle personificazioni Igea (La salute), Panacea (La guaritrice d'ogni male), Iaso (Il guaritore) e, aggiunta ateniese, Aceso (La guarigione). Durante tutto il Medioevo prevalse, più o meno storpiata e con i nomi più o meno maltrattati, la versione che abbiamo detto più comune del mito.

 Bibliografia

G.G. Porro. Asclepio. Milano 1911; E.J. Edelstein. Asclepius. New York 1945.

 

INCUBAZIONE

Era il metodo adottato negli antichi Asclepièi per la cura dei malati che vi si recavano come ad un luogo le cui caratteristiche potrebbero esser definite un incrocio fra il nostro ospizio (che solo dal XVIII secolo in avanti si trasformerà in vero e proprio ospedale) ed un luogo miracoloso. Nell'Asclepièo si somministravano particolari bevande al malato e lo si poneva a dormire in un apposito sacello, sdraiato a terra e, generalmente, sopra una pelle di capra. Durante il sonno si dice che, in generale, apparisse in sogno al malato il dio Asclepio il quale gli indicava la cura e che, comunque, il sogno che il malato avesse fatto era senza dubbio inviato dal Dio e conteneva l'indicazione terapeutica. Destatosi, il paziente doveva narrare il sogno ad un apposito sacerdote (definito, per lo più, iatrōmantis, ossia medico indovino} il quale interpretava il sogno e prescriveva la cura. Incubazione era, appunto, il sonno nel sacello. Tutta la prassi era regolata da un sacerdote capo, detto phōlarkos (capo, direttore dell'incubazione). Di questo tipo di terapia—che spesso portava alla guarigione— ci restano testimonianze innumerevoli soprattutto negli ex voto venuti alla luce durante gli scavi archeologici di molti Asclepièi.

 


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7 aprile 2020                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net