Regola di S. Benedetto

 

Capitolo IV - Gli strumenti delle buone opere:  "
55 -Ascoltare volentieri la lettura della parola di Dio,..."

Capitolo XLVIII - Il lavoro quotidiano:
1  -
L'ozio è nemico dell'anima, perciò i monaci devono dedicarsi al lavoro in determinate ore e in altre, pure prestabilite, allo studio della parola di Dio. .....  
4 -
dalle 9 fino all'ora di Sesta si dedichino allo studio della parola di Dio.  
10 -
Dal 14 settembre, poi, fino al principio della Quaresima, si applichino allo studio fino alle 9,... 
13 -
Dopo il pranzo si dedichino alla lettura personale o allo studio dei salmi.  
14 -
Durante la Quaresima leggano dall'alba fino alle 9 inoltrate e poi lavorino in conformità agli ordini ricevuti fino verso le 4 pomeridiane. 
22 -
Anche alla domenica si dedichino tutti allo studio della parola di Dio, a eccezione di quelli destinati ai vari servizi."


1. LE RADICI STORICHE DELLA LECTIO DIVINA

Estratto da: “Abitare la parola” - G. Farro e altri

Ed. Il pozzo di Giacobbe 2005

Prima dì iniziare il nostro excursus storico sulla lectio divina - per rintracciare la radici antiche di questo modo dì accostarsi alla Bibbia e a partire da esse fondare le ragioni di un cammino di fede orientato dalla Parola di Dio - è opportuno considerare preliminarmente che l'espressione lectio divina significa "lettura divina" o, più liberamente, “lettura spirituale". Essa indica immediatamente che non si tratta semplicemente di una lettura intellettiva o lettura-studio né di una lettura amena. Questo dipende dal fatto che l’oggetto di questa lettura in realtà è un soggetto che parla. È la Parola di Dio rivolta ad ogni uomo e storicizzata nelle Scritture. Da ciò discende che la lettura della Parola dì Dio, di fatto, è un vero e proprio ascolto, in conformità al "primo comandamento" di Dt 6,4: "Ascolta, Israele”, In questo senso la Parola di Dio è intimamente connessa all'azione dello Spirito, come si vedrà meglio più avanti. Chi fa lectio divina da un lato ha fede nell'ispirazione divina della Bibbia, dall’altro comprende che, piuttosto che nascere da una mera esigenza di cronaca storica, la Bibbia trae origine dall'interpretazione di un evento storico nel quale il popolo d'Israele ha ravvisato chiaramente l'intervento liberatore di Dio: l'uscita di Israele dalla schiavitù d'Egitto (Esodo). Non è quindi l'esigenza di una riflessione su Dio a determinare la sinergia tra lo Spirito e l'autore sacro, bensì l’esigenza memoriale di mettere in forma l'esperienza umana che un popolo, Israele, ha attribuito all'azione salvifica di Dio, In altri termini, è estranea all'impostazione ebraica una considerazione dì Dio come problema metafisico-ontologico, che presume dì definire l'essenza di Dio. Il movimento sotteso alla messa in forma dell'esperienza è di tutt'altro genere: "se Dio ci ha liberati, allora Dio è...”: l'identità dì Dio è connessa al suo agire. È l'intervento di Dio nella storia che genera la riflessione sul modo di essere e di esistere di Dio, riflessione che a sua volta ridiventa principio ermeneutico di tutti gli altri eventi storici.

La consapevolezza di questi principi compositivi, attuati dallo scrittore sacro, sui quali si tornerà successivamente a proposito della questione ermeneutica, ha disciplinato nel corso dei secoli, e disciplina ancor oggi, l’atteggiamento del lettore di fronte alle Sacre Scritture.

 

1.1. Le origini

Sarebbe impresa ardua e sicuramente senza grossi risultati quella mirata ad individuare nella storia un momento preciso in cui datare l’inizio della pratica della lectio divina. La lectio non è altro che un metodo (per molti "il” metodo) piuttosto articolato per leggere e comprendere le Sacre Scritture ricevendo i doni che Dio elargisce all’uomo attraverso la sua Parola. È chiaro che ogni modalità di approccio alla Parola di Dio, per quanto ben collaudata nella sua articolazione di tempi e forme, risente dell'inevitabile influsso di tante di quelle variabili che diviene estremamente difficile determinarne con precisione il momento ed il luogo della sua nascita, evoluzione ed eventualmente fine. Infatti, quando si parla della relazione tra Dio e l’uomo non è possibile prescindere, se ci si pone in atteggiamento di umiltà spirituale, da quell'alone di insondabilità e di mistero che caratterizza ogni realtà che abbia come sua precipua peculiarità quella dell'evoluzione e del cambiamento. E così, la relazione Dio-uomo, ricercata e mediata attraverso la Parola di Dio presente nelle Sacre Scritture, è realtà in continua evoluzione, che nasce, cresce e si trasforma da sempre e per sempre.

Si può allora affermare che la lectio divina riconosce le sue origini non tanto in un tempo e in un luogo preciso, quanto piuttosto nel momento in cui l'uomo prende coscienza della presenza di Dio quale realtà, seppur insondabile e misteriosa, che lo interpella e lo chiama scuotendolo e provocandolo nella sua interiorità. In tal senso possiamo dire che la lectio divina nasce in ambiente giudaico già ai tempi dell’antica alleanza e che conosce vari periodi di crescita nei secoli grazie al cristianesimo che la eredita dal popolo israelitico e la diffonde ampiamente per farla giungere fino ai giorni nostri. È soprattutto per merito dei Padri della Chiesa d’Oriente e d’Occidente dei primi secoli e quindi dei padri medievali, ed in special modo delle realtà monastiche, che la lectio divina prende forma e si sviluppa secondo la struttura che le è propria; essa primeggerà quale metodo di interpretazione della Parola di Dio fino al 1300, formando le più belle e fiorite spiritualità del cristianesimo di tutti i tempi. Ma successivamente, a partire cioè dal basso medioevo e fino alla metà del XX secolo, la lectio divina conoscerà un lungo periodo di mortificazione poiché ad essa verranno preferite altre modalità e forme prevalenti quali quelle della quaestio e della disputatio tipiche dei canonici regolari e dei domenicani, della devotio e della meditatio Loyoliana, degli uffici della preghiera liturgica e dell’Opus Dei. Ciononostante, sicuramente per merito delle realtà ecclesiali della Riforma e delle realtà monastiche in cui la lectio divina verrà utilizzata praticamente senza interruzione anche nei tempi più difficili, essa ritroverà il suo splendore ed il suo primato quale metodo di approccio alle Scritture grazie al Concilio Vaticano II del 1963-1965 che ne sottolineerà la necessità di una pratica assidua e fervente per la formazione del credente e dell'identità stessa della Chiesa [1].

È evidente, dunque, come la lectio divina, intesa come Parola pregata, rappresenti quella forma privilegiata di accostamento attento ed orante alla Scrittura, così come lo Spirito Santo sembra volerci suggerire, viste le straordinarie capacità di sopravvivenza dimostrate, gli effetti esemplari sulla formazione e sulla crescita del cristianesimo nei tempi e la vitalità di cui il metodo gode ancora oggi.

Già nell’Antico Testamento [2] è possibile rinvenire, senza grosse forzature, quello che potremmo definire il prototipo della lectio divina. Nel libro di Neemia (capp. 8-9-10) è narrato un episodio fondamentale per la vita del popolo giudaico. In un momento delicatissimo della sua storia (la fine dell'esilio in Babilonia, il rientro a Gerusalemme, la ricostruzione del tempio e delle mura, la promulgazione di riforme sociali, il ritorno alla Legge di Dio) comincia a nascere nella comunità ebraica una nuova coscienza di popolo in obbedienza alla Legge di Dio. La ratifica ed il culmine di questo sentire avviene in quel giorno straordinario in cui il sacerdote Esdra, davanti a tutto il popolo radunato “come un solo uomo” (Ne 8,1), legge la Parola di Dio (così come questi l’aveva data ad Israele per mezzo di Mosè) “dallo spuntar della luce fino a mezzogiorno” (Ne 8,3). Vista l’impostazione liturgica data a questa lettura e considerati gli effetti di ricaduta sul popolo ebreo possiamo considerare questa come la prima lectio della storia. Infatti, ritroviamo tutti i passaggi di una vera lectio, dalla lettura all'azione, secondo un processo di graduale interiorizzazione della Parola di Dio. Viene così recuperata la coscienza e l’unità del popolo ebraico in obbedienza alla Legge di Dio ritrovata attraverso la memoria, la riconquista della fede, il pianto di compunzione, la gioia, la festa, la preghiera penitenziale, la carità e l’impegno concreto assunto dalla comunità. La Parola di Dio letta, meditata, pregata, contemplata ed incarnata comunitariamente aveva determinato la vera rinascita del popolo eletto.

Nell'epoca del cristianesimo antico, come d’altronde anche per i tempi successivi fino ad oggi, certamente l'approccio alla Scrittura risente di tutte quelle intuizioni neo testamentarie circa il senso ed il valore della Parola di Dio. È soprattutto dai testi evangelici (Giovanni in particolare) e dall'epistolario paolino e petrino che si può ricavare un insegnamento autorevole per accostarsi con sapienza alla Scrittura. Per fare solo qualche esempio, la lettera agli Ebrei (Eb 1,1) inizia con l'affermazione che il modo in cui Dio ha parlato all'uomo nella storia è vario e mutevole in rapporto ai tempi, alle culture, ai linguaggi, ai luoghi; ciò è per dire che il fedele che vuol conoscere Dio deve cercarlo nella Sua Parola così come essa è contenuta nelle Scritture antiche e nei Vangeli (che ci parlano, questi ultimi, del Figlio quale forma ultima del linguaggio di Dio), interpretandola anche alla luce della sua vita e della sua storia. Ma questo lavoro di ricerca necessita dell’aiuto dello Spirito Santo il quale spiega all'uomo ciò che nelle Scritture parla del Padre e del Figlio (cfr. Gv 16,12-15). Secondo Paolo, la Scrittura ci può dire soltanto ciò che è necessario alla nostra sovraconoscenza (l'epignosis paolina), dandoci quella sapienza che conduce alla salvezza (2 Tm 3,14-17). Infatti, la lettura spirituale delle Scritture serve a farci incontrare con il Salvatore, Gesù Cristo, e ad aver fede in Lui (Gv 20,30-31). Dunque, secondo queste ed altre numerose intuizioni bibliche, è evidente che la lectio divina, condotta nello Spirito, riconosce Dio quale sua origine e suo obiettivo: è l'incontro con Dio lo scopo di una vera lectio; incontro che diventa possibile quando la Parola divina, nascosta nelle parole umane, diventa viva ed efficace (Eb 4,12) attraverso la ricerca perseverante di essa, nella fede, da parte dell'uomo.

Gesù, quale vero uomo [3], ha dovuto imparare ad accostarsi alle Scritture e per questo ha usato le vie umane. La sua "lectio”, così come ci viene dato di capire da vari brani evangelici, procede attraverso vari percorsi d'interpretazione: la lettura concordativa, per cui l'interpretazione di un termine o di un concetto di un brano viene fatta collegandosi ad un altro brano (Mc 12,28-34); la lettura avverativa (tipica dei profeti), per cui viene affermato l’avverarsi della parola ascoltata (Lc 4,16-21); la lettura rivelativa (espressione del livello ermeneutico prediletto da Gesù), per cui da una situazione reale ed attuale descritta si risale, nella Scrittura, alla ricerca del fondamento teologico che ne sta alla base (Mt 19,3-13); la lettura prefigurativa, per cui un evento biblico viene interpretato come "figura’’ di un altro evento pure esso biblico (Mt 12,39-41).

Il livello ermeneutico dell'ebraismo rabbinico dei primi tempi procede attraverso tre metodi principali: l’halakhà, lettura etica tesa a fornire al credente un orientamento comportamentale adeguato (da qui la nascita del Talmud, che riporta insegnamenti dei maestri d'Israele dal tempo di Gesù fino al V secolo); il pesher (commento), tipico della comunità di Qumran, per cui un brano viene spiegato da un altro brano indicandone l'avveramento; l’aggadà (narrazione), per cui, attraverso un lavoro di scavo del testo e di collegamento con altri brani, si cerca di trovare il senso teologico del brano in questione (da qui la nascita del Midrash - lett. ricerca, scavo - con cui si vuole cogliere la motivazione teologica che sta dietro a un determinato comportamento di Dio e dell’uomo). È soprattutto quest'ultimo il metodo che ha incontrato maggior favore presso i cristiani.

Sempre la sapienza rabbinica, relativamente al lavoro di discernimento delle Scritture, ha costruito una graziosa parabola attorno al termine Pardes (paradiso) per cui la conoscenza di Dio e della verità è possibile soltanto attraverso il superamento delle quattro fasi che vengono indicate dalle quattro consonanti della parola PaRDeS. Questi quattro livelli sono rappresentati dal Peshat, il primo livello, quello del dato obiettivo, del senso storico-letterale del brano, dal Remez, il secondo livello, quello del collegamento, del rimando, per cui si allena la memoria e cresce la conoscenza della Scrittura, dal Derashà, il terzo livello, quello della ricerca e dell'affidamento in vista di un orientamento etico per la propria vita, e dal Sod, l'ultimo livello, quello del mistero, della beatifica contemplazione di Dio, in cui il silenzio prende il posto della parola. Quest'ultimo livello, giudicato pericoloso per l’equilibrio psichico e spirituale da parte degli stessi rabbini, definito da Bernardo come il tempo delle “visite del Verbo”, consisterebbe in una tale profondità ed intimità di relazione con Dio che diventa praticamente impossibile definirlo e renderlo comprensibile con parole umane.

 

1.2. L’epoca antica: Origene e i Padri del deserto

Origene di Alessandria (ca. 185- ca. 253), padre della Chiesa, "uomo della Parola”, ha il merito di avere tracciato le basi e dato i fondamenti per la struttura della lectio divina nella forma con cui noi oggi la conosciamo e la pratichiamo. Per Origene, colui che si accosta alla lettura delle Scritture deve essere uomo di desideri, non di contestazioni, su quella via di conversione che lo porta a scrutare le Scritture in una dimensione di ascolto umile e di obbedienza fedele, di semplicità autentica e di perseveranza incondizionata, di piena disponibilità (Deo vacare) nei confronti di Dio. Attraverso gli Hexapla, prima edizione dell’Antico Testamento redatta secondo un criterio sinottico sviluppato mettendo a confronto le versioni bibliche presenti all'epoca, Origene intende dimostrare quella che è stata una delle sue più importanti intuizioni sul modo di approcciare i testi sacri, e cioè che la lettura delle Scritture deve essere onnicomprensiva di tutti i libri biblici e ciò in virtù della polivalenza della Sacra Scrittura; soltanto in questo modo è possibile la realizzazione di quell’evento di trasfigurazione che permette il passaggio dalla lettera allo spirito, dal fango della parola umana alla saliva di Cristo [4].

Una celebre affermazione di Origene: Scriptum sui ipsius interpres tende inoltre ad affermare che l'interpretazione di una parte della Scrittura è possibile solo mediante la ricerca ed il confronto con altre parti della Scrittura stessa; ciò al fine di raggiungere quella visione unitaria della pluralità dei libri biblici che sola permette di trovare e conoscere la Parola di Dio nascosta tra le parole dell’uomo. In tal senso, Origene attinge a piene mani dall'impostazione ermeneutica di Paolo che rappresenta per lui il modello del lettore in quanto lettore spirituale; pur avendo chiaro in sé il concetto che la Scrittura è suscettibile di una lettura svolta a vari livelli, tutti legittimi e vivificanti, Origene ritiene che la lettura spirituale, cioè quella esercitata in piena obbedienza e disponibilità all’ascolto della voce dello Spirito Santo di Dio, sia l'unica che permette di trovare il senso più nascosto e più vicino alla verità di Dio, alleggerendo così il fardello delle preoccupazioni e delle angosce del lettore e illuminando, sebbene sempre e solo in parte, la naturale oscurità della Scrittura. Scopo ultimo di questo tipo di lettura è quello di rendere il credente partecipe di quegli stessi misteri che i testi sacri nascondono e rivelano al contempo [5].

E evidente, da questa sintesi, come Origene rappresenti un grande padre della Chiesa e del metodo della lectio divina e pertanto vale la pena leggere le parole con cui un altro padre, Gregorio il Taumaturgo, suo allievo, ne ricorda la statura di uomo di Dio:

Egli aveva ricevuto il dono grandissimo da Dio e il privilegio eccezionale dal cielo di essere presso i mortali l’interprete della Parola del Creatore, di intendere i precetti del Signore quasi fosse Dio medesimo a parlargli, e di spiegarli agli uomini adeguandosi alla loro possibilità di percepire (Gregorio il Taumaturgo, Discorso a Origene, 181).

La lettura e l’ascolto delle Scritture ha molta importanza anche per i Padri del deserto (IV-V secolo) tra i quali comunque molto acceso è il dibattito relativo al valore della comunicazione orale rispetto a quella scritta; sono infatti i tempi in cui compaiono i primi libri, e molti padri, poiché consideravano la Parola una realtà divina estremamente vitale ed in continuo divenire, ritenevano che la fissazione di essa in un testo scritto si opponesse alle caratteristiche ed alle esigenze della Parola stessa. In ogni caso, come risalta dai "Detti”, la Parola assume un ruolo di centralità nel deserto ed i padri ne colgono il valore soprattutto in relazione ai risvolti pratici sulla loro vita riguardo alla salvezza ed al raggiungimento di quell’equilibrio interiore al cospetto di Dio che poi è l'obiettivo principale della loro scelta vocazionale. I padri più anziani solevano infatti rispondere ai più giovani citando passi scritturistici o tramite aneddoti di vita vissuta in cui risuonava forte l’eco della Parola di Dio ascoltata e messa in pratica. Padre Antonio, ad un fratello che gli domandava cosa fare per ottenere il favore di Dio, disse:

Dovunque tu vada, tieni sempre Dio davanti ai tuoi occhi e qualunque cosa tu faccia, appoggiati sempre sulla testimonianza delle Sante Scritture (Atanasio, Apoftegmi 3).

Nel deserto, la Scrittura viene letta pubblicamente, nelle synaxeis settimanali, e personalmente, in cella; essa viene letta, recitata, ascoltata, meditata, ruminata allo scopo di interiorizzare la Parola, forgiare e fortificare la memoria, unificare il cuore nella semplicità e nell’umiltà dell’abbandono in Dio.

Il richiamo alla perseveranza è infatti fondamentale per la vita nel deserto: solo la meditazione e la ruminazione continua, anche attraverso la ripetizione di semplici invocazioni o di frasi bibliche, potevano proteggere il monaco dalle tentazioni e dall'empietà.

In sostanza, la lettura e l'ascolto della Parola di Dio da parte dei padri del deserto viene praticata con la grande preoccupazione di conservarne intatte la vitalità e la forza innovatrice; c'è in essi una zelante e pronta sollecitudine a incarnare la Parola di Dio nella propria vita per evitare che essa venga imprigionata e mortificata dalle parole umane.

 

1.3. Verso il Medioevo

Per Giovanni Crisostomo (+407), la Scrittura rappresenta fondamentalmente lo strumento privilegiato ma imperfetto che l'uomo possiede per ascoltare la voce di Dio; in essa è contenuta la Parola di Dio quale frutto della synkatabasis intesa come disponibilità benevola di Dio che sottopone la perfezione e la grandezza del suo messaggio e della sua Parola all'imperfezione ed alla caducità della parola umana pur di comunicare all'uomo il suo piano salvifico [6]. La comprensione della Parola e del mistero di Dio è possibile soltanto attraverso quel percorso ermeneutico in cui ci si fa guidare dalla luce della fede, nell'umiltà del completo abbandono alla voce dello Spirito Santo. Il Crisostomo ritiene, infatti, che la fede sia la facoltà superiore con cui ci si può accostare alla Scrittura per trovare in essa la Parola di Dio, relegando il ragionamento e l'approccio intellettuale su un piano molto inferiore (ciò in opposizione al razionalismo pagano dilagante in quei tempi). A tal proposito, egli afferma:

Il proprio della fede sta nel lasciare tutta la logica della terra per aggrapparsi a quel che sta al di sopra della natura, nel respingere la debolezza dei ragionamenti per accogliere in noi tutto in virtù della potenza di Dio (Giovanni Crisostomo, Comm. In Epist. ad Rom. 17,2).

È questo l’unico modo che l'uomo possiede per giungere, attraverso le Scritture, ad un dialogo autentico con Dio nella dimensione della contemplazione.

Girolamo di Stridone (+ 419-420), che fu monaco a Betlemme, è ritenuto un padre e maestro del metodo della lectio divina; egli affermava che "cristiani si diventa, non si nasce” (Girolamo, Ep. 107,1) e pertanto, per essere autentici cristiani, bisogna, in primo luogo, accostarsi sapientemente alle Scritture. È per questa sua convinzione che egli definisce, quasi in forma di protocollo ben codificato, la struttura completa della lectio secondo un'articolazione complessa che, attraverso il succedersi di più momenti, porta ad una comprensione autentica della Parola di Dio.

La lectio, la fase della lettura, è considerata il "cibo dell'anima cristiana” (Girolamo, Ep. 5,2). È la fase in cui si prende coscienza dell’esistenza del messaggio di Dio ancora da scoprire. La lectio dà la forza per conoscere Cristo; al contrario, "l’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo” (Girolamo, In Esaiam. Prol.).

La meditatio assidua permette la penetrazione del mistero di Dio; questa fase viene paragonata da Girolamo a quella della consumazione del pane dell’eucaristia.

La contemplatio, frutto del raccoglimento silenzioso determinato dalle fasi precedenti, pone il credente in intima relazione con Dio, in una dimensione di meraviglia e di preghiera; è quella fase che esprime una conoscenza d'amore in cui Dio primeggia al centro del cuore e della vita del fedele.

La ruminatio, fase centrale della lectio divina, assiduamente praticata e raccomandata da Girolamo, ha lo scopo di far assimilare ed interiorizzare a tal punto la Parola di Dio da trasformare il cuore dell'uomo. Grande maestra di ruminatio è, secondo Girolamo, Maria che "conservava tutte queste parole confrontandole nel suo cuore” (Lc 2,19).

L'oratio costituisce la fase della lode perenne a Dio, alla sua verità perfetta e al suo mistero d’amore così come essi vengono intesi dall'intelligenza di fede del credente. Per Girolamo, infatti, è attraverso l’intelligenza che l’uomo diventa capace di confrontarsi con la verità di Dio in una dimensione di lode. In tal senso riprende e fa suo l’insegnamento paolino:

Pregherò con lo spirito, ma pregherò anche con l’intelligenza; canterò con lo spirito, ma canterò anche con l'intelligenza (1 Cor 14,15).

L’operatio costituisce, per Girolamo, il traguardo quasi obbligato del percorso della lectio divina: il credente, trasfigurato nel suo cuore e nella sua esistenza dalla frequentazione assidua della Parola di Dio letta, meditata, contemplata, ruminata e pregata, diventa uomo dell’amore divino attraverso cui la Parola stessa di Dio prende vita per dare i suoi frutti. È la fase in cui si diventa uomini e donne biblici, salmodie viventi così come esortava Girolamo stesso:

Salmeggiate con tutte le vostre membra. Salmeggi la mano nell’elemosina, salmeggi il piede andando all’opera buona (Girolamo, De Ps. 97,4).

Infine, per Girolamo assume grande importanza, al fine di rinnovare gli slanci spirituali del fedele, la peregrinatio, cioè la visita, per quanto possibile, dei luoghi della Terra Santa, testimoni dell’Incarnazione del Verbo. Questa fase, comunque, deve essere seguita continuamente nel senso che ogni cristiano non deve mai lasciare la propria segreta terra di peregrinatio costituita dalle Sacre Scritture [7].

Cassiano (360-435) ha il grande merito di essere stato il depositario della grande tradizione monastica dei padri orientali e di averla comunicata all’occidente. Le sue riflessioni sulla lectio hanno come destinatari prediletti i monaci, al fine di un continuo miglioramento della vita monastica. Egli rivolge la sua attenzione soprattutto alla meditazione della Scrittura, che deve essere continua e svolta con grande assiduità, assumendo uno spirito ascetico per la purificazione del cuore e per accostarsi alla Parola di Dio con umiltà, desiderio e capacità di discernimento. Questa ruminatio della Scrittura conduce al raggiungimento dello scopo principale della lectio: lasciarsi trasformare dalla Parola al punto da restare con lo sguardo costantemente rivolto a Dio in una contemplazione beatifica ed ininterrotta.

 

1.4. Il Medioevo

Per Benedetto (ca.480-ca.555), la lectio divina costituisce una priorità assoluta, una pratica da promuovere e custodire; è quanto si evince dalla sua stessa Regola in cui, a più riprese, Benedetto afferma l'importanza e la necessità imprescindibile della lettura e della meditazione della Scrittura e dell'insegnamento dei padri. La lectio, secondo Benedetto, deve essere cursiva allo scopo di evitare ogni soggettivismo ed ogni "adattamento” della Parola di Dio al volere dell'uomo. Nei monasteri benedettini verrà sempre praticata con grande cura sia nella forma comunitaria che in quella personale. Benedetto cura molto anche gli aspetti pratici e formali della lectio, preoccupandosi della scelta dei momenti quotidiani e della custodia dei singoli monaci per proteggerli dal demone dell’acedia. Egli individua, quali obiettivi principali della lectio divina, la conoscenza di Dio e della sua volontà attraverso la relazione intima con Gesù Cristo, l’edificazione della Chiesa (soprattutto attraverso la lectio comunitaria), la contemplazione di Dio (soprattutto attraverso la lectio personale) con cuore dilatato (Benedetto, RB, Prol. 49). Inoltre, la lectio tempra il fedele fortificandolo contro ogni forma di ozio, nemico dell’anima. Ciò che più preme a Benedetto è che il monaco, attraverso la lettura assidua e attenta della Scrittura e attraverso l'ascolto meditato della Parola di Dio, giunga ad incarnarla nella sua vita ed a metterla in pratica per il bene del suo cammino di conversione; per questo raccomanda di osservare la taciturnitas nel senso di semplicità, discrezione ed attenzione nell'uso della Scrittura, ricerca del silenzio inteso non come rottura del dialogo e della comunicazione bensì nel senso dell'orientamento verso l’essenziale di Dio, per poter ascoltare il Suo amore, custodire la memoria Dei e scongiurare così il pericolo della mormorazione. Solo in questa dimensione di ascolto si può apprezzare la risposta di Dio all'uomo che lo cerca: la presenza costante del Signore che viene ogni giorno nel cuore dell'uomo che interiorizza perennemente e sempre più profondamente la Parola di Dio.

Gregorio Magno (ca. 540-604), monaco e pontefice, ci ha trasmesso i fondamenti della lectio biblica considerata nella sua dimensione comunitaria. L'aspetto ecclesiale della lectio è il punto su cui Gregorio Magno insisterà maggiormente: infatti, come dice B. Calati, per Gregorio la comunità nasce dalla Parola e cresce in rapporto all’obbedienza alla Parola ed è in tal senso che egli afferma che la comunità ecclesiale è la norma dell'intelligenza della Parola e della sua vitalità [8]. Dunque, la comunità ecclesiale, che si riconosce come corpo unico in Cristo, ritrova, per mezzo dell’ascolto della Parola di Dio, la sua identità e la sua unità. Ma per un giusto discernimento delle Scritture è necessaria quella umiltà di fede che permette di farsi guidare dallo Spirito Santo di Dio, lo stesso Spirito che ha già suscitato i profeti antichi e che ora tocca ed ispira l'animo dei nuovi eletti: Spiritus tangit! dice Gregorio, intendendo quell'azione dello Spirito per cui, attraverso una lettura spirituale, si forgia l’uomo spirituale e la Parola incarnata prende vita. In questo dinamismo, in cui lo Spirito Santo agisce liberamente, anche la Parola è libera, nel senso che essa cresce ed evolve insieme a colui che la legge e la ascolta: divina eloquia cum legente crescunt. Allora, la pratica della lectio divina diventa un atto essenziale che deve avere carattere di quotidianità per la stessa maturazione spirituale del credente; secondo Gregorio la lectio va praticata assiduamente ed instancabilmente: solo così si attua quel meccanismo di simbiosi tra la Parola ed il suo lettore per cui la Scrittura resta viva e cresce continuamente al pari del credente che si rinnova nello Spirito e cresce nella sua dimensione cristiana di uomo della carità nella Chiesa di Cristo.

Scriptura crescit cum legente: in questa dimensione di reciprocità e di vitalità matura il frutto più prelibato della lectio divina che consiste in quello stato di contemplazione di Dio e del suo progetto di salvezza che corrisponde al raggiungimento da parte del credente di quella maturità di fede che gli deriva dalla piena conoscenza esperienziale della Scrittura.

Per Isidoro (ca. 560-636), vescovo di Siviglia, la lectio divina rappresenta fondamentalmente un dialogo amoroso ed amichevole tra Dio che parla e l'uomo che, attraverso la lettura attenta delle Scritture, ascolta. Nelle Sentenze questo concetto viene espresso chiaramente in una formula che esalta il binomio lettura-preghiera:

Quando preghiamo, parliamo con Dio, quando leggiamo, Dio parla con noi (Isidoro, Sent. 3,8,2),

Con questa affermazione, Isidoro, oltre a dimostrare la sua grande attenzione e la sua grande fedeltà alla tradizione dei padri (Cipriano, Ambrogio, Agostino), esprime una verità di base della lecito: il legame intimo e necessario tra lettura e preghiera in cui, dalla Parola parlata da Dio attraverso la lettura dell'uomo, scaturisce la preghiera quale risposta e parola dell'uomo a Dio, Questo colloquio spirituale rappresenta, secondo Isidoro, il cuore della lectio.

Tale dialogo fortifica l'uomo e lo introduce sempre di più alla sapienza di Dio rappresentando il modo migliore che l’uomo possiede per conoscere Dio e accrescere la sua fede. Il vescovo sivigliano parla della lectio come di cibo prelibato per il nutrimento spirituale dell'anima, di maestra che istruisce il cuore illuminandolo, di rimedio medicinale necessario per la correzione dei peccati e la compunzione [9]. La lectio presuppone ed esige, inoltre, la disponibilità dell'uomo ad un cammino ascetico in cui è richiesto lavoro continuo, perseveranza e dedizione; per Isidoro, la lettura meditata delle Scritture deve essere assidua, sine intermissione (Sent. 3,19,5), quotidie (Sent. 3,11,6). Nella sua azione pastorale, egli insisterà sempre su questo concetto di perseveranza, indicandolo come valore imprescindibile al fine di penetrare le Scritture per lasciarci trasformare da esse; praticando il metodo della lectio con assiduità, infatti, si allena la memoria e si interiorizza il testo che, attraverso questa incessante opera di ricerca, viene compreso in profondità prendendo vita. Inoltre, per portare i frutti sperati, la lettura deve essere breve e silenziosa, soprattutto nella lectio personale. Nella lectio comunitaria, invece, diventa soprattutto importante la collatio, intesa quale colloquio edificante per la crescita spirituale dei fedeli: "è meglio conversare che leggere" (Isidoro, Sent. 3,14,1); attraverso una collatio sincera, autentica e semplice, guidata dall’abate, è più facile l’apprendimento delle Scritture e la conoscenza della volontà di Dio poiché nel confronto fraterno viene stimolato maggiormente l'ascolto, la compunzione e la preghiera.

Per Isidoro, sempre profondo ed attento conoscitore della tradizione patristica, nessun momento della lectio divina è superfluo. Egli raccomanda fortemente la meditatio, parlando addirittura di meditationibus, intendendo in tal modo quell'azione riflessiva reiterata, consistente in quell'esercizio di continua memorizzazione e frantumazione della Parola letta, di "mormorio interiore puramente spirituale” [10] volto alla degustazione ed all’apprendimento profondo della Parola, Secondo Isidoro

con la lettura apprendiamo le cose che ignoriamo. Con le meditazioni conserviamo quelle che abbiamo appreso (Isidoro, Sent. 3,0,3).

Quest'opera dì interiorizzazione ha luogo quando "la voce del lettore si attenua e la lingua si muove in silenzio" (Isidoro, Sent. 3,14,9).

Attraverso la lectio e la meditatio si giunge all’oratio che, come abbiamo visto, rappresenta per il Sivigliano quel momento fondamentale in cui, nel dialogo con Dio, è l'uomo che parla; la lettura che diventa preghiera aiuta l'uomo a vivere secondo la volontà di Dio introducendolo verso la via della contemplatio, fase in cui l'uomo, inebriato e trasfigurato dalla Parola letta, meditata e pregata, abbandonata ormai ogni preoccupazione terrena, vive in intima unione spirituale con Dio.

Gli effetti di una lectio siffatta sono, per Isidoro, l'istruzione illuminata del credente circa il volere di Dio e la purificazione del suo cuore attraverso quell’azione della Parola che disorienta il cuore, provocando quel pianto spirituale di compunzione tanto raccomandato dal vescovo Sivigliano. Da ciò è facile dedurre che gli scopi della lectio divina di Isidoro sono rappresentati da una sempre migliore intelligenza delle Scritture (volta alla crescita spirituale personale ed all'orientamento progressivo della propria vita verso Dio e la sua misericordia) e dalla testimonianza viva, resa anche e soprattutto attraverso una vita retta e conforme alla volontà di Dio.

Secondo Ugo di San Vittore (ca. 1095-1141), la lectio divina rappresenta, in generale, ma specialmente per il monaco, la forma di lettura più alta; egli raccomanda una lectio meditata e continua, in un'atmosfera di quiete (otium) e di abbandono in Dio. La lectio deve essere fatta con tutto se stesso, con la partecipazione reale di tutto il corpo e di tutti i sensi: in tal modo, ciò che viene letto e meditato finisce per incarnarsi nella vita stessa del lettore. La lectio [11] diventa così stile di vita per il monaco che deve affrontare questa lettura continua con lo spirito del vacare (liberarsi). Dunque, lettura e meditazione sono i cardini della lectio divina per Ugo:

L’inizio del sapere (principium doctrinae) si trova dunque nella lettura, ma il suo compimento perfetto si realizza nella meditazione (Ugo di San Vittore, Didascalicon 3,10).

Guglielmo di Saint-Thierry (+ 1148) considera la Scrittura come mezzo (usa proprio il termine di “imbarcazione”) donato da Dio all’uomo perché questi possa giungere a Dio.

Togli il velo ai miei occhi, Signore, e osserverò queste meraviglie della tua legge, della legge del tuo amore (Guglielmo di Saint-Thierry, Meditativae orationes 12,15).

Immerso in questa dimensione di preghiera, Guglielmo, con cuore attento alla voce dello Spirito ed obbediente alla volontà di Dio, scruta le Scritture al fine di trovare la Parola che è nascosta nelle parole umane; tutto ciò, egli lo sa bene, lo porterà a conoscere il vero volto di Dio, Gesù Cristo, e ad avere in sé gli stessi sentimenti di Gesù. Il percorso di discernimento delle Scritture si snoda attraverso tre itinerari: il primo ed il secondo risentono dell'influenza di Origene e consistono in un progredire della lettura che, da letterale, diventa etico-morale ed infine spirituale per cui il credente passa dallo stato di uomo animale a quello di uomo spirituale; il terzo itinerario si snoda attraverso i tre momenti della lectio, della meditatio e dell’oratio per condurre il fedele a conoscere e nutrirsi dell'amore di Dio. Dunque, come dice Cecilia Falchini, si compie in tal modo quel circolo ermeneutico per cui la lectio, partita da Dio tramite la lettura nello Spirito, meditata, pregata ed incarnata dal credente, ritorna a Dio per mezzo del Figlio che rivela, nella Scrittura stessa, il volto del Padre [12].

Il fondatore dell'ordine monastico dei cistercensi, Bernardo di Clairvaux (1091-1153), autore del Commentario sul Cantico dei Cantici, individua alcune regole fondamentali per poter condurre una vera lectio divina e giungere così alla comprensione autentica della Scrittura. Egli [13] considera fondamentali le seguenti indicazioni:

   non trascurare alcun dettaglio della lettera;

   non esitare a moltiplicare i sensi spirituali;

   illuminare la Bibbia con la Bibbia.

Per Bernardo, la lettura della Bibbia deve essere praticata con assiduità, pazienza, precisione, in maniera minuziosa, non tralasciando neppure uno iota (cfr. Mt 5,18); la meditatio e la ruminatio, la lettura continua e ripetuta dei brani biblici arricchiscono il testo rinnovandolo. Infatti, solo in tal modo si può raggiungere quella unità della Scrittura che permette al lettore di conoscere il vero volto di Cristo. La Scrittura (Cfr. ib., 258-260) è soggetta alla possibilità di sempre nuove interpretazioni ed il senso di ogni sua parte può essere esteso e diversificato all'infinito. In questa fatica incessante, il fedele procede gradualmente lungo un itinerario di unificazione che lo porta a superare, di volta in volta, vari livelli di comprensione: Bernardo identifica questi livelli come triadi (una famosa è quella "ragione, volontà, memoria"). Ma egli, consapevole del rischio cui poteva essere sottoposta la Scrittura in tal modo, il rischio cioè di una lettura troppo libera e soggettiva, incessantemente ricorda, riprendendo peraltro un concetto di Origene, che la Bibbia trova la sua chiave di interpretazione in se stessa, che solo Cristo può interpretare Cristo. In sostanza, ogni nuova interpretazione e comprensione della Scrittura non è altro che il frutto delle interpretazioni e dei sensi già dati in passato: l'integrazione di tutte le interpretazioni date nel tempo porta alla conoscenza di Cristo, dunque all’unità.

Il metodo individuato da Bernardo si prefigge lo scopo principale di alimentare ed arricchire sempre più quella memoria Dei di cui lui stesso era ricco; per lui, quest'opera di memorizzazione, attraverso la lettura continua e meditata, è fondamentale allo scopo di raggiungere il fine della lectio stessa: rendere viva e sempre attuale la Scrittura e al contempo rinnovare il lettore che vede la propria vita assumere nuove prospettive alla luce della Parola incarnata ed in obbedienza alla volontà di Dio. Tutta la vita di Bernardo è stata impregnata della Scrittura e ciò grazie al lungo ed incessante lavoro di memorizzazione biblica a cui egli si era sottoposto. Ma questo lavoro di memorizzazione (condotto attraverso l'osservazione attenta e completa, la divisione ed il raggruppamento in parti, la ricerca dei giusti collegamenti) è possibile solo se sostenuto da due presupposti necessari: il desiderio di conoscere Dio e l'umiltà dell'obbedienza alla Parola, in una dimensione di preghiera e di compunzione; dunque, lo sforzo mnemonico può essere praticato soltanto da colui che ama e comprende la Scrittura. È questo per Bernardo il senso della lectio divina, perché vivendo da uomini biblici, avendo acquisito la memoria cristiana, ogni realtà ed ogni momento della nostra vita può essere vissuto alla luce del piano salvifico di Dio: allora, in ogni dimensione della nostra vita incontreremo il volto splendente di Cristo e gusteremo l'amore di Dio.

Per Aelredo di Rievaulx (1110-1167), la lectio è parte integrante della sua vita: infatti, poiché Dio ha scelto questo mezzo per parlarci, è attraverso la lettura approfondita e reiterata delle Scritture (ma Aelredo considera e raccomanda anche la lettura dei padri quali Agostino, Gregorio, Ambrogio e altri) che si può conoscere il Padre facendo esperienza del suo amore misericordioso attraverso l'incontro col Figlio. Aelredo sa bene che questo lavoro è molto faticoso ed è per questo che raccomanda ai suoi monaci di essere sereni e perseveranti nella lettura, sapendo vigilare contro il demone dell'acedia e restando obbedienti al Signore. Nel suo ultimo sermone egli definisce la Scrittura come

un insieme di diverse affermazioni (sententiae) e precetti vari che, accordandosi in ragione della fede che è una, emettono un dolcissima melodia nel cuore dei fedeli, così come nelle loro orecchie (Aelredo di Rievaulx. De oneribus 31).

Nei suoi sermoni, Isacco della Stella (ca. 1100-1169) afferma: “Tria sunt lectio, meditatio et oratio" (Isacco della Stella, Serm. 14,7 e 15,12), identificando queste tre attività della lectio come parte integrante della vita monastica; a queste egli aggiunge, rifacendosi alla regola di Benedetto, come momento della actio, quello del lavoro. Una lectio siffatta raggiungerà prima o poi il suo scopo, quello della conoscenza di Dio e del raggiungimento della relazione con Lui tramite Gesù Cristo. In tal senso, la lectio divina rappresenta una pratica fondamentale per l'esercizio ascetico della vigilanza e della lotta contro la tentazione: infatti, essa purifica il cuore del monaco rendendolo "trasparente come uno specchio o come acqua limpidissima" (Serm. 25,15). Ma la grande intuizione di Isacco [14] consiste soprattutto nella considerazione del fatto che l'approccio alla comprensione delle Scritture deve essere condotto attraverso l’uso delle facoltà naturali dell’uomo, la ragione, la memoria, l'intelligenza in una dimensione di libertà e di profondo discernimento spirituale. Comunque, Isacco raccomanda sempre l’adesione al testo biblico in semplicità e fedeltà, riconoscendo al contempo la pluralità dei sensi della Scrittura la quale è sempre suscettibile di nuove e autentiche interpretazioni. Dunque, attraverso l'uso combinato dell’intelligenza e del cuore nella comprensione delle Sacre Scritture, è possibile collaborare alla costruzione di quel regno di carità e d'amore che corrisponde esattamente a quella che è la volontà di Dio espressa nella Sua Parola.

La lectio divina ha sicuramente orientato e unificato la vita di Guigo II Certosino (+ 1188), nono priore della Comunità della Grande Certosa, il quale ha sapientemente inteso il senso dell’itinerario di conversione del credente quale cammino di conoscenza del Verbo incarnato e rivelato tramite le Sacre Scritture. Per definire i passi di questo percorso, Guigo usa il paragone della scala (la famosa Scala Claustralium), i cui gradini, se percorsi saldamente e con forza, portano all’incontro col Cristo-Verbo. Questi quattro gradini non sono altro che i quattro momenti fondamentali della lectio divina: lectio, meditatio, oratio, contemplatio. E così la lectio diventa un percorso, di apparente ascesa ma in effetti di umile e costruttiva discesa, che porta il credente all'incontro col Signore.

Il primo gradino è la lectio, la base della scala, intesa come lettura vera e propria, in cui si cerca ciò che è scritto e lo si comprende nel suo senso letterale e storico secondo un percorso esegetico teso a cercare tra le molteplici parole umane l’unica Parola di Dio. È il primo livello, il più superficiale, il più "esteriore", ma che è necessario affrontare per passare ai livelli successivi. Dalla lectio si passa alla meditatio intesa come attività di ricerca della verità nascosta attraverso l'uso della ragione; la meditatio fa masticare e ruminare ciò che si è assunto con la lectio. È quella fase di crescita che tende a far emergere il non-detto a partire dal detto del testo biblico [15]: inizia la discesa verso il basso, all’interno del mistero divino, secondo un cammino di approfondimento e di interiorizzazione della Parola letta.

A questo punto il credente è già proiettato verso il gradino dell’oratio, momento di elevazione e di desiderio, di fervore e di dolore, in cui il lettore sperimenta l'amarezza e la tristezza della propria incompiutezza ed imperfezione di fronte alla verità perfetta di Dio intravista, trovata, conosciuta, ma non ancora vissuta; è la fase dell'invocazione umile dell'anima che riconosce ormai il Signore come unico protagonista della sua vita. L’oratio così intesa consiste dunque in un cammino di abbassamento e di spoliazione di sé, nella fede e nell'obbedienza, in cui si realizza il vero dialogo con Dio, fatto di ascolto e di richiesta, teso specialmente ad ottenere quella purezza di cuore che Dio desidera e che Egli solo può donare. Questo dialogo, trovato nella preghiera, predispone già il credente alla contemplatio, momento finale e atteso della lectio. È la fase dell’abbandono totale in Dio, in una dimensione di apertura ed accoglienza dei doni dello Spirito che offre al credente la possibilità di entrare in intima comunione con Dio: è il gradino della conoscenza d'amore, livello estremo e beato cui tende ogni cammino di fede e di conversione percorso attraverso la ricerca e la comprensione della Parola di Dio.

Guigo parla anche di uno stadio successivo, quello della sequela, che rappresenta, in effetti, la necessità di custodire nella propria vita quella profondità del rapporto con Dio a cui si è giunti tramite i quattro gradini della lectio.

Dunque, la lectio è intesa da Guigo come cammino di "consumazione spirituale del corpo di Cristo” che, realizzato nella fede, si completa nell'amore ed in cui la lettura e l'ascolto della Parola si trasformano gradualmente in preghiera di invocazione e adorazione, in quella dimensione di "serena insoddisfazione” del fedele che vive nel desiderio e nell’attesa dei tempi escatologici la cui dolcezza ha già pregustato attraverso i frutti del discernimento della Parola di Dio. Infatti, Guigo così conclude: “Così velo tolga velo e colui che ascolta dica: Vieni!” (Guigo II Certosino, Sc. Cl. 15).

Il modo di far lectio di Francesco D’Assisi (1182-1226) si discosta notevolmente da quello del monachesimo medievale. Francesco, nella sua regola, non prescrive alcuna forma per la lectio divina. Eppure, come ben sappiamo, Francesco conosce estremamente bene ed in profondità la Scrittura al punto che la sua stessa vita è un tentativo di incarnare fedelmente la Scrittura ed in particolare l'Evangelo. Egli è un entusiasta della lettura biblica ed il suo approccio alle Scritture è immediato e letterale, fatto totalmente di ascolto e di obbedienza. La sua regola è la Scrittura evangelica stessa e la sua preoccupazione è rivolta, più che all'interpretazione, all'applicazione semplice e fedele di ogni parola di Cristo allo scopo di annunciarla a tutti. Questo modo di accostarsi alla Scrittura, del resto, era il più adatto all'ideale francescano di una vita apostolica di servizio e di predicazione della buona novella evangelica.

 

1.5.   Oggi

Il metodo della lectio divina, ben definito, esaltato e largamente praticato in epoca medievale, conoscerà nei secoli successivi un periodo di oscurità in cui verrà declassato (e relegato praticamente alle sole realtà monastiche) a favore di altre pratiche, di sapore più intellettuale o devozionale, introspettivo e psicologico, che di fatto determineranno una vera e propria eclissi della lectio divina e, di conseguenza, della lettura meditata della Parola di Dio.

Dopo questo periodo di vero e proprio esilio della Parola, sarà il Concilio Vaticano II (1963-1965), con la Dei Verbum, a riproporre il metodo della lectio divina quale forma privilegiata di interpretazione della Scrittura. La Chiesa, in sostanza, riscopre la necessità di rimettere la Scrittura in una posizione di centralità nella sua stessa vita, individuando nella lectio divina l’unico modo per effettuare, ad ogni livello, una lettura della Scrittura secondo lo Spirito Santo. Nella D.V. 25, la lectio (articolata secondo i suoi momenti peculiari di lettura, meditazione e preghiera) viene raccomandata a tutti allo scopo di mantenere un contatto continuo con la Scrittura. Alla Scrittura viene riconosciuto il ruolo fondamentale di integrare i vari ambiti della vita della Chiesa - liturgico, pastorale, teologico, vita cristiana - unificandoli in Cristo, Verbo di Dio incarnato. La Chiesa ricorda che “l’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo'' e pertanto raccomanda la frequentazione assidua, quotidiana, meditata e orante delle Scritture ad ogni fedele nella sua vita (D.V. 25). Questa riscoperta della lectio divina quale strumento per la comprensione, l'interiorizzazione e la attualizzazione della Parola di Dio attraverso la Scrittura, frutto di una nuova e più matura presa di coscienza da parte della Chiesa della sua identità peculiare di corpo di Cristo, si prefigge lo scopo di riscoprire e riconoscere il volto di Cristo per entrare in intima comunione con Dio e lasciarsi trasformare dal Suo amore.

Oggi, la lectio divina entra nelle nostre case e con essa anche la Parola di Dio, suscettibile, sempre e ad ogni livello, di essere nuovamente interpretata e riscoperta alla luce delle grandi meditazioni dei padri e in vista della crescita spirituale del cristiano e di un’evangelizzazione sempre attuale, in obbedienza a quella persona trinitaria, lo Spirito Santo, che da sempre e per sempre suscita nel cuore dell'uomo la sua identità di figlio di Dio e la sua appartenenza, nella Chiesa, al Cristo Risorto, ispirando la sua vita in una dimensione orante e contemplativa di Dio e della Sua grazia.


NOTE 

[1] cfr. E. Bianchi, Pregare la Parola, Gribaudi, Torino 1990, 37-38.

[2] Per quanto riguarda la trattazione di questa parte storica si fa riferimento a E. Bianchi et Alii, La lectio divina nella vita religiosa, Qiqajon, Magnano 1994. Si tratta di un libro prezioso, cui si debbono le riflessioni e le citazioni patristiche della presente parte, che non ha altra pretesa se non quella di esserne un'umile sintesi, meditata personalmente.

[3] Cfr. E. Bianchi. Dalla Scrittura alla Parola, in E. Bianchi et Alii. La lectio divina nella vita religiosa, 361-366.

[4] Cfr. F. Cocchini, Origene, in E. Bianchi et Alii, La lectio divina nella vita religiosa, 33 34.

[5] Cfr. F. Cocchini, Origene, in E. Bianchi et Alii, La lectio divina nella vita religiosa, 47.

[6] Cfr. J.-M. Leroux. Giovanni Crisostomo, in E. Bianchi et Alii, La lectio divina nella vita religiosa, 102.

[7] Cfr. L. Mirri, Girolamo, in E. Bianchi et Alii, La lectio divina nella vita religiosa, 124.

[8] Cfr. B. Calati, Gregorio Magno, in E. Bianchi et Alii, La lectio divina nella vita religiosa, 168.

[9] Cfr. B. Recaredo Garcìa, Isidoro, in E. Bianchi et Alii, La lecito divina nella vita religiosa, 190-191

[10] J. Leclercq, Cultura umanistica, 19-20, cit. in E. Bianchi et Alii, La lecito divina nella vita religiosa 200-201.

[11] Cfr. I. Illich, Ugo di S. Vittore, in E. Bianchi et Alii, La lectio divina nella vita religiosa. 229.

[12] Cfr. C. Falchini, Guglielmo di Saint-Thierry, in E. Bianchi et Alii, La lectio divina nella vita religiosa, 242.

[13] Cfr. D. Poirel, Bernardo di Clairvaux, in E. Bianchi et Alii, La lectio divina nella vita religiosa, 263.

[14] Cfr. G. Dotti, Isacco della Stella, in E. Bianchi et Alii, La lectio divina nella vita religiosa, 299-300.

[15] Cfr. C. Falchisi, Guigo Certosino, in E. Bianchi et Alii, La lectio divina nella vita religiosa, 312.


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18 giugno 2017                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net