Il Vangelo secondo Matteo

Gianfranco Ravasi

Alcuni capitoli estratti da "I Vangeli" - EDB - Edizioni Dehoniane Bologna 2017

Dal sito "books google.it"

 

Il progetto di Matteo

 

Le fonti

Nell’affrontare il Vangelo di Matteo partiamo dal «reale», cioè dal testo dei 28 capitoli che sono il dato che noi possediamo, sapendo che esso nasce da una genealogia, ossia ha alle spalle una vera e propria storia, di cui da tempo gli studiosi si stanno occupando.

Paradossalmente l’esegesi più difficile non è quella dell’Antico Testamento o di Paolo, bensì è proprio quella dei vangeli, che spesso appare immediata e talvolta scontata. E ciò perché i vangeli sono il frutto terminale di un processo che conosce tappe complesse, momenti e situazioni differenti e difficili da ricostruire. Da qui, allora, quella sorta di processo di «identificazione radiografica», con il quale la pagina del Vangelo così come noi la possediamo viene fatta passare attraverso un filtro storico, letterario, teologico, alla riscoperta di ciò che la precede.

Per quanto concerne il Vangelo di Matteo, precisiamo subito che alle spalle del testo a noi pervenuto c’era probabilmente qualche testo già scritto.

Gli studiosi sono ormai quasi certi che Matteo abbia usato il Vangelo di Marco. Per cui Matteo non è più il primo Vangelo, come si diceva nella tradizione, ma sicuramente il secondo. Gli studiosi inoltre parlano spesso di una fonte comune a tutti i vangeli, la cosiddetta fonte «Q», indicando con questa lettera un’abbreviazione della parola tedesca Quelle (fonte): esisteva, quindi, una fonte documentaria che raccoglieva soprattutto i detti di Gesù e che era precedente ai vangeli canonici a noi giunti.

Matteo, dunque, non parte dal nulla: ha probabilmente alle spalle qualcosa di scritto; esistevano come delle «schede», già cristallizzate in un testo, simili a «proto-vangeli».

Andando a ritroso nel tempo, dobbiamo però risalire alla predicazione orale, ormai ampiamente riconosciuta all’interno delle fonti e degli stessi vangeli. Di questa predicazione siamo riusciti a identificare i temi, gli schemi e le modalità: si tratta del celebre kérygma, l’«annuncio» che veniva proclamato dalla comunità primitiva e affidato, in quel caso, non a parole scritte, ma alla pagina viva della memoria degli ascoltatori giudeo-cristiani e poi degli ascoltatori pagani.

Se risaliamo ancora più indietro, ci accorgiamo che quella tradizione non sboccia semplicemente il giorno di Pentecoste (tanto per usare il punto di partenza definito degli Atti), bensì è un’attestazione che racchiude, anche se in lontananza, soprattutto la voce di Gesù stesso.

Allora la genealogia a cui accennavamo all’inizio è la seguente: il Gesù storico che parla, la predicazione della Chiesa, i primi scritti (le fonti) e, infine, i vangeli canonici.

Ma il Vangelo di Matteo non è semplicemente un’eco, ossia non riflette soltanto i passaggi precedenti: è realmente anche un prodotto redazionale originale. Matteo è un autore che, avendo alle spalle queste sorgenti diverse, le ha volute organizzare. Per prima cosa occorre, allora, identificare il progetto nel quale Matteo ha strutturato il materiale di cui era in possesso e con cui ha composto la sua opera.

 

Il monte

Procediamo selezionando innanzitutto un elemento simbolico che si trova all’inizio e alla fine del Vangelo di Matteo: il «monte».

Quando Evangelista, ad esempio, descrive le tentazioni di Gesù, strutturandole in un trittico - Gesù è tentato in tre momenti diversi -, a differenza di Luca che mette, come punto terminale della tentazione, Gerusalemme, con il «pinnacolo del tempio», vertice della tentazione (Lc 4,1-13), egli invece pone come scena finale quella del «monte altissimo» (4,8). Il monte appare, quindi, proprio in apertura, quando Gesù entra in scena e compie la sua grande scelta messianica, scartando tutti i messianismi deteriori proposti dalla tentazione.

Gesù, dunque, si rivela su un monte, ove delinea il suo progetto messianico autentico. La vera, ultima, fondamentale tentazione di Gesù (ed è quella radicale anche per noi) concerne, infatti, l’attrazione dell’orgoglio, del potere. È la tentazione di un messianismo trionfale: contemplare e desiderare «i regni della terra», cioè iniziare la grande avventura del trionfo, della conquista e del potere. È una strada che può essere pericolosa e ambigua e che Cristo subito accantona perché ben diversa è la via messianica che egli imboccherà.

Il monte di Gesù appare anche subito dopo:

«Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna» (5,1).

Comincia così il celebre «discorso della montagna», il monte delle Beatitudini - che è in Galilea, anche se non sappiamo esattamente dove - e il monte Sinai - che è lontano migliaia di chilometri - si intrecciano simbolicamente in Matteo, si sovrappongono e costituiscono l’«unico monte»: il monte della rivelazione, della nuova solenne manifestazione del Cristo con la sua legge, che non è la cancellazione della precedente, ma anzi è l’efflorescenza suprema di quella antica del Sinai:

«Non sono venuto per abolire, ma per dare compimento» (5,17).

Il monte è quindi un elemento significativo e rivela il senso del Vangelo di Matteo. Su quel monte il volto di Gesù riflette il volto di Mosè. Egli diviene il nuovo e perfetto Mosè e anche qualcosa di più, se è vero che afferma: «E stato detto agli antichi... ma io vi dico».

Alla fine del Vangelo matteano troviamo ancora un monte:

«Gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro fissato» (28,16).

Possiamo perciò dire che lo scritto di Matteo ci presenta un Cristo solenne, glorioso, pantokràtor (che domina tutto), trionfatore, non attraverso la via del successo politico o terreno ma attraverso la via della croce. Un Cristo Signore, solidamente assiso sul suo trono, cioè sul monte, che diventa una sintesi simbolica di tutta la storia della salvezza.

Alle spalle del Gesù di Matteo c’è tutto l’Antico Testamento. Il Vangelo di Luca ci offre un volto molto umano e molto dolce del Cristo. Il volto del Gesù di Matteo è invece serio, solenne, avvolto nella grandezza del Sinai, nella teofania, ossia nella manifestazione di Dio.

In questo senso dobbiamo dire che Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini (1964), anche se è stato criticato per aver presentato un Gesù con un profilo sempre severo, aveva colto un elemento effettivo del Vangelo di Matteo: un Cristo trascendente. Al di là di qualche interpretazione e di alcuni limiti, quello di Pasolini è uno dei più bei film «cristiani», anche se scritto da una persona forse misteriosamente in ricerca. Inoltre esso mostra chiaramente come un laico possa leggere il Vangelo di Matteo e coglierne l’anima, se ha il cuore aperto e si lascia coinvolgere dalla parola evangelica.

 

L'Antico Testamento

Una seconda componente fondamentale nella struttura tematica del Vangelo di Matteo è l’Antico Testamento. Tra gli evangelisti egli è il più preoccupato di mostrare la funzione di «asse», di elemento capitale che Cristo ha riguardo a tutto il «rotolo» della Bibbia.

Ci sono almeno settanta citazioni dell’Antico Testamento (allusioni o citazioni: quelle dirette sono quarantuno). Ventuno richiami poi sono preceduti da una famosa dichiarazione, segnata da un verbo importante e purtroppo malamente tradotto: pleroún, di solito reso con un «perché si adempisse» o «perché si compisse». Ma pleroún in greco significa molto di più: è il verbo della «pienezza». Se dico che la parola di Cristo è soltanto compimento, adempimento, vuol dire che il precedente era un annuncio vago e preparatorio che ora finalmente ha la sua attuazione. A cosa servirebbe, allora, l’Antico Testamento? Perché, invece, non deve passare neppure uno iota dell’Antico Testamento, se poi in Cristo abbiamo il compimento?

In realtà il verbo pleroún dice soprattutto pienezza. Cristo si autopresenta - e Matteo lo delinea in questa luce — come colui che dà pienezza, che fa fiorire in tutte le sue potenzialità il lungo discorso che è partito con le pagine dell’Antico Testamento. Guai a scindere i due Testamenti e a penalizzare l’uno o l’altro!

C’è poi un altro elemento che procede nella stessa linea, un dato molto noto: i numeri. Tutti coloro che hanno seguito un corso sul Vangelo di Matteo o hanno sfogliato un’introduzione al testo matteano sanno che esso è scandito da cinque discorsi fondamentali: il discorso della montagna (cc. 5-7); il discorso missionario (c. 10); il discorso delle parabole (c. 13); il discorso ecclesiale o comunitario (c. 18); il discorso escatologico (cc. 24-25). Cinque discorsi attorno ai quali sembra quasi distribuirsi il resto del racconto.

Il numero cinque allude ai libri che costituiscono la Torah, il Pentateuco appunto, il cuore del giudaismo, sintesi e compendio di tutto l’Antico Testamento.

Inoltre, noi sappiamo che la tradizione giudaica aveva diviso il Salterio, che è la risposta alla parola di Dio - la Torah è la legge divina, il Salterio è la preghiera dell’uomo -, in cinque libri.

Inoltre, nella tradizione giudaica, all’interno della liturgia sinagogale, i libri che venivano usati maggiormente, ossia le meghillôt (i rotoli), erano cinque libri della Bibbia: Cantico dei cantici, Rut, Lamentazioni, Qoèlet, Ester.

Matteo, quindi, riprendendo la tradizione simbolica del cinque, la usa come una delle componenti strutturali del suo Vangelo.

Andando poi a cercare all’interno del testo, vediamo che questo cinque «sacro», che ricorda l’Antico Testamento, è seminato un po' dappertutto. Abbiamo, ad esempio, nel capitolo 5, cinque volte la formula: «Ma io vi dico». In queste cinque antitesi si mostra la «pienezza» dell’Antico Testamento in tutte le sue potenzialità. Il testo biblico, ancora imprigionato, viene fatto esplodere nel suo significato pieno. E alle soglie della fine della sua vita terrena Gesù, per cinque volte, è in controversia con il mondo giudaico ufficiale (cc. 21-22). Matteo poi è l’unico che ci ricorda che i pani moltiplicati sono cinque (14,17), mentre gli altri evangelisti danno numeri diversi. Le parabole amano tante volte giocare su questo numero: cinque vergini stolte e altrettante prudenti (25,1-13); e ancora, la parabola dei cinque talenti (25,14-30).

Si deve, poi, segnalare un altro numero biblico fondamentale, il sette, il numero della pienezza. Se cinque sono i discorsi del Vangelo matteano, bisogna ricordare però che all’inizio si ha il cosiddetto Vangelo dell’infanzia e in finale il racconto della passione e risurrezione. E allora quelle cinque componenti sono racchiuse all’interno di altre due, così da costituire il sette della perfezione.

Sette sono anche le domande del Padre nostro di Matteo (6,9-13), rispetto a quelle di Luca (11,2-4) che sono soltanto quattro. Sette sono le beatitudini (5,1-12), in quanto l’ottava è un’aggiunta redazionale posteriore. Sempre sette sono le parabole del capitolo 13 e sette sono i «guai» contro la religione ipocrita nel capitolo 23. Quattordici per tre volte (quattordici è un numero emblematico: due volte il sette della perfezione) sono gli anelli della genealogia di Gesù (1,1-17).

Questi meccanismi simbolico-numerici, a noi estranei, costituiscono il tentativo di raccordare il Cristo alla pienezza, secondo una prassi dell’Antico Testamento.

La simbologia dei numeri procede ulteriormente, perché Matteo, ad esempio, ama anche il numero tre, un altro numero di perfezione, quasi per riassumere nel suo testo tutta la geometria, l’armonia, l’architettura dell’Antico Testamento: tre tentazioni; tre esempi di carità ostentata o meno (6,1-4); tre atti di pietà (elemosina, preghiera, digiuno in 6,1-18); tre preghiere nel Getsemani; tre rinnegamenti di Pietro; quando si parla della «decima», si fanno tre esempi (la decima della menta, dell’aneto e del cumino).

A questo punto, dopo aver individuato il nesso molteplice e simbolico con l’Antico Testamento, possiamo ribadire che il Vangelo di Matteo pone il Cristo come perno, centro, coordinatore di una parola di Dio che si è aperta già nel passato, non solo nel presente. Per cui senza l’Antico Testamento Cristo è incomprensibile.

 

Il giudaismo

Un’altra domanda fondamentale che dobbiamo proporre al lettore è su chi sono i destinatari ai quali si rivolge Matteo.

È chiaro che si tratta di conoscitori della Bibbia: ormai da tempo la tradizione esegetica, anche se con qualche eccezione, è d’accordo nel riconoscere che Matteo ha scritto per giudeo-cristiani, per un pubblico che conosceva bene l’Antico Testamento. Nel 1928 lo studioso tedesco Ernst von Dobschütz ha scritto un libro in cui sosteneva che l’autore vero del Vangelo di Matteo, al di là dell’apostolo, punto di partenza come sempre della tradizione, era uno scriba ebreo convertito al cristianesimo. Questo perché il Vangelo è troppo marcatamente giudaico, anche se con aspetti polemici nei confronti del giudaismo (il che sarà effettivamente una componente costante: Chiesa e Sinagoga sono chiaramente in tensione nel Vangelo di Matteo).

Uno studioso scandinavo, Krister Stendahl, ha elaborato un saggio sulla «scuola» di Matteo: ha immaginato che il Vangelo matteano sia nato all’interno di una bet-hammidrash, cioè di una vera e propria scuola rabbinico-cristiana in cui si adottavano gli stessi metodi, gli stessi stilemi, le stesse forme di espressione proprie del mondo giudaico ma ormai trasferite per annunziare la nuova Parola, quella di Cristo.

Ne è derivata l’ipotesi, emersa anche nei secoli passati ma soprattutto nell’Ottocento e all’inizio del Novecento, di considerare il Vangelo di Matteo il primo fra tutti i vangeli. Non tanto il testo a noi pervenuto (che dipende troppo da Marco), quanto piuttosto un ipotetico scritto iniziale composto in aramaico.

Tutto nasce da una dichiarazione del vescovo Papìa di Gerapoli di Frigia, la città della Turchia celebre per la sue cascate bianche fissate nel calcare (attualmente Pamukkale, che in turco significa appunto «castello di cotone»). Questo vescovo, appartenente alle origini del cristianesimo, ha scritto:

«Matteo mise insieme in dialetto ebraico [probabilmente intende l’aramaico] i lóghia [in greco, i detti] di Gesù e ciascuno li tradusse secondo la propria capacità».

Matteo, perciò, avrebbe elaborato un Vangelo sulla base dei lóghia, cioè dei detti di Gesù che circolavano, che erano tramandati a memoria o forse già codificati in qualche scritto. Successivamente sarebbero avvenute probabili traduzioni in greco: «ciascuno li tradusse secondo la propria capacità» o anche ciascuno li interpretò secondo la propria capacità, determinando così la diffusione del Vangelo di Matteo.

Tuttavia, gli studiosi attuali - tranne qualche rara eccezione - sono molto scettici nei confronti dell’esistenza di un Vangelo aramaico iniziale di Matteo. La maggior parte di essi ritiene che quella di Papìa sia una descrizione per affermare un dato di cui siamo continuamente testimoni, ossia che il Vangelo di Matteo è profondamente giudaico nella sua matrice ideale. Non possiamo, però, sulla base dell’attuale testo greco, intravedere nel testo un originale ebraico o aramaico da cui si traduce in greco.

Lo studioso francese Jean Carmignac ha proposto questa ipotesi nel suo libro La nascita dei Vangeli sinottici, ma l’ha fatto in maniera insoddisfacente. Alla base, infatti, c’è il sogno di trovare il Vangelo più vicino a Gesù, quasi un’eco immediata, respiro delle stesse parole di Gesù. Questo non lo possiamo dimostrare esegeticamente in modo stretto, anche perché Matteo rivela l’uso del Vangelo di Marco come elemento fondamentale. Inoltre, come sappiamo, le parole e gli atti di Gesù sono giunti a noi attraverso una tradizione precedente ai vangeli scritti. E - cosa curiosa - quando Matteo cita l’Antico Testamento, anziché tradurlo dall’originale ebraico, usa i Settanta, cioè la traduzione greca.

Ci sono altri elementi ancora più significativi che mostrano come l’originale del testo che abbiamo sia stato composto in greco e sia posteriore al Vangelo di Marco. Si tratta di parole che in aramaico non hanno un termine equivalente, come ad esempio paroúsia («presenza» e «venuta»), che non ha un parallelo nemmeno in ebraico; e palingenesi (nuova nascita), che non ha equivalente in aramaico. Anche elementi grammaticali come il genitivo assoluto, caratteristico del greco, non hanno un uso in aramaico.

Dobbiamo, però, riconoscere che il greco di Matteo è fortemente tipico di uno che parlava anche un’altra lingua, o che ne conosceva un’altra, o che veniva dal mondo semitico. Sarebbe qualcosa di simile al dettato dello scrittore Vladimir Nabokov (che però lo faceva in modo intenzionale), il cui inglese era infiltrato e ibridato continuamente dal russo, la lingua da cui partiva, che rimaneva un po’ il suo sottofondo.

Una curiosità filologica potrebbe far capire come siamo in presenza di un testo che è stato scritto in greco e che quindi non è una traduzione da un’altra lingua:

«Quando digiunate, non assumete aria malinconica come gli ipocriti, che si sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiunano» (6,16).

Questa frase in greco è costruita in modo tale da fare un gioco di parole possibile solo in greco, per cui si deduce che essa è stata scritta direttamente in greco. Infatti «sfigurano» in greco, è afanízousin, mentre «far vedere» è fanôsin; lo sfigurare diventa un’immagine dell’ipocrisia.

Il Vangelo di Matteo è, dunque, un testo per ebrei che hanno cominciato a seguire la via di Cristo. Ecco allora i moltissimi esempi di fedeltà al mondo giudaico da cui Matteo proviene: l’offerta sull’altare (la citazione è del solo Matteo al capitolo 5,23: «Se dunque presenti la tua offerta sull’altare...»); le frange rituali; i filattéri, cioè quelle famose teche con un rotolino pergamenaceo iscritto per la preghiera (tefillîn); la prassi per i giuramenti; le abluzioni prima dei pasti (Marco ne parla spiegandole: «Usano gli ebrei compiere...», cosa che Matteo non fa); la citata triade della spiritualità farisaica: l’elemosina, la preghiera, il digiuno; il lavoro permesso ai sacerdoti di sabato nel tempio (12,5, attestando la conoscenza di una tradizione giudaica); la decima per il tempio, evocata solo da Matteo; la discussione rabbinica sull’ordine dei precetti («Qual è il più grande comandamento della Legge?», mentre gli altri evangelisti dicono semplicemente: «Che cosa devo fare per avere la vita eterna?»); l’uso di imbiancare i sepolcri e così via.

Sono tutti riferimenti precisi al mondo giudaico. Siamo di fronte, quindi, a un Vangelo che suppone un orizzonte definito di destinatari.

 

Il cristianesimo

Date queste premesse, il Vangelo di Matteo si rivela, però, come uno scritto che non è semplicemente per giudei, ma per giudeo-cristiani. Non è tanto un annuncio fatto ai giudei perché si convertano al mondo cristiano; non è un Vangelo missionario in senso stretto, non è un Vangelo kerygmatico, come si usa dire, cioè destinato ad essere un annuncio missionario al mondo giudaico, come Marco lo è per i pagani. Si tratta, invece, di un Vangelo più catechetico, cioè di approfondimento per cristiani provenienti dal giudaismo.

E allora la terza componente del Vangelo di Matteo, dopo quella dell’Antico Testamento e del giudaismo, è il cristianesimo, ossia il messaggio specifico di Gesù Cristo. Questa prospettiva fondamentale è espressa attraverso una formula che ha dato il titolo anche a un saggio di teologia biblica dedicato al Vangelo di Matteo, un testo apparso nel 1964, opera del tedesco Wolfgang Trilling, dal titolo Il vero Israele.

Non c’è tanto l’Antico e il Nuovo Israele, come spesso si dice, vale a dire da un lato il primo Israele, quello che ormai sarebbe concluso, e dall’altro il nuovo, che è la Chiesa. Per Matteo, invece, esiste già una sorta di «Chiesa» nell’Antico Testamento. Il «vero Israele» comincia già nell’Antico Testamento con l'Israele fedele dei profeti, con il «resto d’Israele», cioè con i giusti, con gli ‘anaiwîm. Noi ora siamo il vero Israele che continua quella linea riferendosi al Cristo. I fedeli autentici di Israele si riferivano al Messia nella speranza; noi ci riferiamo ormai a lui nella fede e nella certezza della sua presenza in mezzo a noi.

Nel Vangelo di Matteo appare in questa luce la figura della Chiesa, la comunità del vero Israele, che continua la linea del popolo fedele della prima alleanza. A essa sono da connettere due categorie teologiche fondamentali, il discepolato e il regno dei cieli.

 

Il discepolo

La parola mathetés (discepolo) compare in Matteo settantatré volte. Questo termine, e il verbo mathetéin (insegnare, fare discepoli), lo troviamo soltanto in Matteo, salvo una sola volta negli Atti degli apostoli, ed è assente nel resto del Nuovo Testamento.

Inoltre, il Vangelo di Matteo è l’unico tra tutti i vangeli che riporta la parola ekklêsía. Essa è citata tre volte:

«Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa [Ekklêsía] e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa» (16,18).

«Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all’assemblea [ekklêsía]-, e se non ascolterà neanche l’assemblea [ekklêsía], sia per te come un pagano e un pubblicano» (18,17).

La parola ekklêsía designa i convocati dal Cristo, come l’antico Israele era convocato dal Signore, e questa convocazione è in pratica la definizione del cristianesimo: noi siamo i chiamati e siamo in ascolto di Dio, siamo i suoi discepoli.

L’esegeta francese Béda Rigaux ha condotto un’analisi significativa: la parola «discepolo» compare tutte le volte in cui c’è un racconto parallelo in Marco e in Matteo perché, come sappiamo, Marco è la fonte di Matteo. Ebbene, è curioso vedere come Matteo corregga Marco. Mentre Marco mette spesso attorno a Gesù la folla, Matteo per sette o otto volte colloca invece i discepoli: è la Chiesa che è riunita attorno al Cristo e l’ascolta. Nel capitolo 16 Matteo presenta Pietro come la componente basilare di questa Chiesa e nel capitolo 18 offre idealmente la struttura di questa comunità.

 

Il Regno

La seconda categoria fondamentale per Matteo e per tutto il Nuovo Testamento, che è il cuore della predicazione di Gesù stesso, è quella del «regno dei cieli», o «regno di Dio», o «regno del Padre» (sono tutte le forme usate). In Matteo incontriamo questa locuzione cinquantaquattro volte: è un tema che viene reiterato con insistenza, come accadeva per il vocabolo «discepolo».

Il Regno è una categoria, un’immagine, un simbolo notissimo all’Antico Testamento. Molti salmi l’hanno per tema: il 47, dal 96 al 99 ad esempio, o come in questo altro inno:

«Il Signore regna, si ammanta di splendore;

il Signore si riveste, si cinge di forza;

rende saldo il mondo, non sarà mai scosso.

Saldo è il tuo trono fin dal principio,

da sempre tu sei» (Sal 93,1-2).

Segue una suggestiva descrizione coreografica delle forze ostili, i fiumi, il caos acquatico, segno del male, che si oppongono vanamente al Regno:

«Alzano i fiumi, Signore, alzano i fiumi la loro voce,

alzano i fiumi il loro fragore.

Ma più potente delle voci di grandi acque,

più potente dei flutti del mare,

potente nell’alto è il Signore» (Sal 93,3-4).

Mpan class="auto-style42" style="position: relative; top: 0pt;">al’ak Jhwh/«il Signore regna»: è questa la dichiarazione fondamentale che è spesso ripetuta nella Bibbia:

«Regna il tuo Dio» (Is 52,7).

L’idea del regno di Dio suppone fondamentalmente due dimensioni.

Regnare è certamente un’azione divina e quindi il concetto non è identico a quello di Chiesa, perché il Signore, il pantokràtor divino, opera sia nella Chiesa sia nel cosmo. Quindi l’idea fondamentale del termine «Regno» è dinamica e dovremmo tradurla con l’inglese kingship o il francese règne, oppure con il tedesco Königtum o meglio ancora Herrschaft; dovremmo renderlo con qualcosa che è simile al nostro «signoria». È il regnare in senso attivo. Quando si annuncia il regno del Signore in mezzo a noi, si afferma che Dio agisce nella storia.

C’è anche una seconda dimensione, per la quale il concetto di regno di Dio coinvolge la Chiesa, il Regno è anche un’area concreta spaziale e storica, è un kingdom, un royaume, un Reich, qualcosa che è riconoscibile in quanto circoscritto da frontiere. Esistono, perciò, frontiere misteriose, che non si identificano completamente con la Chiesa visibile, ma passano anche all’interno e all’esterno di essa. La Chiesa è una porzione di questo Regno in cui opera la regalità, la signoria del Cristo.

InIn questo «luogo» dobbiamo entrare per la salvezza. Il Vangelo di Matteo lancia continuamente questa comparazione:

«Il regno dei cieli è simile a...».

La formula «regno dei cieli» è un’espressione che ancora una volta conferma l’ebraicità di fondo di Matteo. Il mondo giudaico, infatti, non ama pronunciare il nome di Dio. Invece di dire «regno di Dio», come farà Luca normalmente, Matteo usa un modo eufemistico: non si dice il nome di Dio, bensì il suo «luogo», «il regno dei cieli». In questa espressione gli studiosi intravedono l’espressione aramaica da cui parte Matteo: span class="auto-style42" style="position: relative; top: 0pt;"> malkut dishmajjà, cioè «il regno dei cieli», usato per indicare «il regno di Dio».

Matteo ci ha presentato allora un primo disegno, un primo progetto, che comprende tre esigenze: la prima è conoscere la Bibbia nella sua integralità, con l’Antico Testamento; la seconda è essere all’interno di una situazione storica concreta ben precisa con la quale ci sarà anche un confronto (il giudaismo); la terza è diventare discepoli del Regno.

 

Il volto di Matteo

In finale a questa nostra premessa generale tentiamo un ritratto del volto di Matteo, nome che in aramaico significa «dono di Dio». Il suo volto è sostanzialmente nelle sue pagine, ossia in quello che lui ha scritto o, secondo alcuni, ha predicato e che poi è stato scritto sulla sua parola.

Gli studiosi sono convinti che il suo Vangelo sia stato composto dopo il 70, dopo la distruzione di Gerusalemme, in ambito siro-palestinese.

Il volto di Matteo ci sfugge, ma amerei ricordarlo in quel punto preciso della sua storia che è ricordato da tutti i sinottici: la sua chiamata a Cafarnao mentre era al tavolo delle imposte. Cafarnao era un centro dal quale passava una strada che andava in Siria attraversando la Palestina. In quella cittadina Matteo era seduto alla dogana, espletando una funzione mai amata nella storia dell’umanità e non amata in particolare in quel momento storico, perché gli esattori rappresentavano un potere esterno dominante, quello di Roma. La vita di Matteo viene cambiata proprio da un incontro avvenuto durante il suo lavoro (Mt 9,9-13).

Pensiamo, allora, a quella celebre opera del Caravaggio presente a San Luigi dei Francesi nella Cappella Contarelli: la Vocazione di san Matteo. L’esperienza quotidiana di quell’uomo, avvolta nell’oscurità, è squarciata da una luce secondaria, quella di una finestra, ma soprattutto è illuminata dall’irruzione di un personaggio che ha cambiato la vita del gabelliere Matteo. E il volto di questo gabelliere è da cercare nelle pagine del suo Vangelo.

 


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31 gennaio 2025               a cura di Alberto "da Cormano"   Grazie dei suggerimenti  Bibbia@ora-et-labora.net