COME LEGGERE LA LETTERA AI ROMANI
L’articolo è tratto da “Parole
di Vita”,
Rivista bimestrale dell'Associazione Biblica Italiana
1/2006, pp. 4-9. Edizioni
Messaggero Padova
C’è un doppio, fondamentale consiglio da dare a chi si accinge alla lettura
di questo scritto: prepararsi a qualcosa di impegnativo e poi non
scoraggiarsi! Se questo vale in generale per tutte le lettere di Paolo,
tanto più è vero per questa lettera in particolare. Ma una cosa è certa: la
pazienza sarà abbondantemente premiata, perché ci si accorgerà che ne valeva
davvero la pena. Infatti, siamo davanti allo scritto più importante
dell’Apostolo, quello in cui egli impegna maggiormente se stesso
nell’interpretazione di ciò che significa l’evangelo per l’uomo, per ogni
uomo.
D’altronde, la lettera ai Romani ha avuto nella storia della Chiesa e della
teologia cristiana un influsso non minore di quello che hanno avuto,
poniamo, Platone o Aristotele sulla filosofia occidentale. Quindi, chi non
si stancherà di misurarsi con l’argomentazione qui dispiegata da Paolo
meriterà la promessa che leggiamo nell’Apocalisse: «Al vincitore che
persevera fino alla fine… darò autorità sopra le nazioni» (Ap 2,26); oppure,
il che è lo stesso, verificherà di persona quanto siano vere le parole di
Lutero nel suo commento: «Fu come se per me si aprissero le porte del
paradiso»; o ancora, se la cosa non appare troppo banale, ci si accorgerà
quanto abbia un reale riscontro concreto, almeno in questo caso, il motto
dello spot pubblicitario «Gratta e Vinci!».
Le circostanze della composizione
Se la lettera ai Romani è importante per noi, bisogna dire che prima lo è
stata già per Paolo stesso. Infatti, quando egli la scrive si trova in un
momento significativo e delicato della sua biografia apostolica. È ormai
verso la fine del suo terzo viaggio missionario e sta soggiornando a Corinto
(probabilmente al termine dell’anno 54 o all’inizio del 55), appena a un
quarto di secolo dopo la morte di Gesù e dopo aver scritto già un certo
blocco di lettere, cioè: almeno una ai cristiani di Tessalonica, due a
quelli di Corinto, una a quelli di Filippi, una a Filemone (un cristiano
della città di Colosse, nell’entroterra di Efeso), e una ai cristiani della
Galazia.
Soprattutto ciò che si verificò nelle Chiese di quest’ultima regione aveva
rappresentato per lui un’esperienza drammatica: l’infiltrazione di alcuni
predicatori cristiani ma giudaizzanti aveva rischiato di imporre ai Galati
un’ermeneutica dell’evangelo assai diversa, se non contraria a quella da lui
predicata. Essi infatti pretendevano di coniugare l’adesione a Cristo con la
necessità di osservare la legge mosaica, sicché per essere giusti davanti a
Dio non sarebbe bastata la fede ma si doveva contare anche sulle opere
religiose e morali compiute dall’uomo. Nella lettera indirizzata appunto a
quelle Chiese, Paolo aveva affrontato di petto la questione trattandola in
termini molto forti, energici nei toni e radicali nella sostanza. Egli vi
aveva difeso a spada tratta «la verità dell’evangelo» (Gal 2,14), cioè la
libertà del cristiano da ogni vincolo esterno che non sia la pura grazia di
Dio manifestatasi in Gesù Cristo e accolta con nient’altro che non sia la
fede.
Inoltre, quando scrive ai romani, Paolo si trova di fronte a un’altra sfida,
che questa volta egli fa a se stesso. Le regioni e le città fino ad allora
interessate dalla sua attività evangelizzatrice, tenendo conto anche del
racconto fattoci da Luca negli Atti, erano state davvero molte: in Siria, la
città di Antiochia; a Cipro, quelle di Salamina e Pafo; in Anatolia, alcune
città delle zone centro-meridionali della Panfilia (Perge), della Pisidia
(Antiochia, Iconio) e della Licaonia (Listra, Derbe), e in più la zona
anatolica centro-settentrionale della Galazia; in Asia, la costa dell’Egeo
(Efeso, Colosse); in Grecia, la Macedonia (Filippi, Tessalonica) e l’Acaia
(Atene, Corinto). In ciascuna di queste località aveva suscitato delle
Chiese, cioè dei gruppi (anche se piccoli) di credenti in Cristo provenienti
sia dal giudaismo sia dal paganesimo.
Detto all’ingrosso e con le sue parole, egli ha ormai predicato l’evangelo
«da Gerusalemme e dintorni fino all’Illiria» (Rm 15,19), e a questo punto
pensa di non avere più un sufficiente campo d’azione in quelle regioni (cf.
Rm 15,23a). Da tempo egli coltivava già l’idea di recarsi finalmente a Roma
(cf. Rm 1,13; 15,23b), capitale dell’impero; e poiché questa per un uomo
dell’Oriente è comunque una città occidentale, Paolo progetta addirittura di
spingersi fino all’estremo Occidente dell’area mediterranea, puntando verso
la Spagna (cf. Rm 15,24.28).
Sappiamo, dunque che verso la metà degli anni ’50 Paolo non era ancora stato
di persona a Roma; quindi la Chiesa romana in quanto tale non aveva ancora
avuto contatti concreti con lui. Resta però il fatto che egli, non solo
aveva notizia della fede dei romani (cf. Rm 1,8; 16,19a), ma in più doveva
avere tra loro qualche punto d’appoggio, come risulta da almeno un paio di
indizi: uno è l’interessante serie di ben 24 persone salutate per nome al
termine dello scritto (cf. Rm 16,3-15: un lungo elenco non riscontrabile in
nessun’altra lettera); un altro è l’accorata richiesta di un sostegno nella
preghiera in vista del suo imminente viaggio verso Gerusalemme, dove egli
prevede che le cose non sarebbero andate bene per lui (cf. Rm 15,30-32),
come effettivamente avvenne (cf. At 21,17-39).
Certo non sappiamo se la Chiesa di Roma da parte sua avesse il desiderio che
egli vi si recasse a farle visita. Comunque, i cristiani della capitale
dovevano non solo aver sentito parlare di lui, ma anche essere venuti a
conoscenza di qualche sua tesi audace, come quella dell’assoluta preminenza
della grazia di Dio nei confronti di ogni comportamento morale dell’uomo:
mentre in alcuni ciò aveva suscitato un’adesione fin troppo entusiasta
spinta fino al travisamento (cf. Rm 3,8), nella maggior parte dei romani
aveva suscitato un’opposizione molto netta (cf. Rm 16,17-18).
L’intento formale dello scritto
In ogni caso, la nostra lettera secondo le intenzioni del mittente avrebbe
dovuto fungere da auto-presentazione e da credenziale. L’estensione e il
contenuto del testo epistolare pongono però un problema di rilievo. Infatti,
sapendo che la lettera è composta di ben 7.100 parole
[1], è inevitabile dedurne che non
abbiamo a che fare con un elaborato qualsiasi. Se già il breve biglietto a
Filemone (di sole 335 parole) coniuga il caso personale dello schiavo
Onesimo con la questione più generale della schiavitù dal punto di vista
cristiano, tanto più una lettera così ampia come la nostra non è
assolutamente riducibile a questioni di basso profilo.
In effetti, Paolo non ha scritto né soltanto per presentare la propria carta
d’identità, né soltanto per rintuzzare eventuali accuse, né soltanto per
raccomandarsi al supporto dei romani e tanto meno soltanto per condividere
con loro un patrimonio ideale dato già per scontato. Nella lettera, infatti,
i toni amichevoli si trovano solo nella sua cornice (cioè: all’inizio in Rm
1,1-14; e alla fine in Rm 15,14-16,27); d’altra parte, l’allocuzione diretta
ai destinatari con il «voi» della seconda persona plurale, dagli effetti
coinvolgenti, si trova raramente nel corpo del testo (cf. Rm 1,8-15;
6,1-7,6; 8,9-11.13; 11,13); è invece più frequente nei capitoli dedicati
all’esortazione morale (Rm 12,1-15,13), di cui perciò intere sezioni molto
importanti sono prive (cf. Rm 1,18-5,21; 7,7-8,8.14-39; quasi interamente i
cc. 9-11); la stessa interpellazione diretta dei destinatari con
l’appellativo di «fratelli», tenuto conto dell’estensione del discorso, è
ancora più rara (cf. Rm 7,1; 10,1; 11,25; 12,1; 15,14; 16,17).
Evidentemente Paolo ha intenzione di trattare delle questioni che vanno
molto al di là della situazione propria dei suoi lettori immediati e che
investono le componenti fondamentali dell’identità cristiana in quanto tale.
La lettera perciò si avvicina al genere che oggi chiameremmo un saggio. È
come se Paolo, al punto in cui si trova della sua vita, volesse – una volta
per tutte – chiarire anche a se stesso che cosa significa in definitiva ciò
che da anni andava annunciando in giro per il mondo: si tratta di spiegare
non tanto il contenuto dell’evangelo, che è già chiaro per tutti (cioè:
l’identità personale di Cristo come figlio di Dio e la sua
morte-risurrezione per i nostri peccati), quanto piuttosto come vada
concepito l’impatto antropologico di questo annuncio (cioè: che cosa
significhi per l’uomo un evento del genere).
Questo, finora, non lo aveva ancora fatto; o meglio, lo aveva fatto solo
parzialmente nella lettera ai Galati. Ma là, come abbiamo accennato, il tono
del discorso era molto polemico, motivato com’era sia dall’attacco frontale
infertogli da alcuni intrusi giudaizzanti, sia dal fatto che i destinatari
della lettera erano cristiani suscitati e quasi generati da lui (cf. Gal
4,19), il che gli permetteva di esprimersi con una certa libertà di
linguaggio (cf. Gal 1,6; 3,1; 5,12). La nostra lettera, invece, è
indirizzata a dei lettori che Paolo per lo più non conosce personalmente e
con i quali perciò è – per così dire – obbligato a impiegare toni di
maggiore urbanità e comunque pacati, pur senza rinunciare per nulla ai
capisaldi del suo pensiero.
È questo dato contingente, insieme alle circostanze accennate più sopra, che
gli offre l’occasione di ripensare, ma anche lo induce a farlo, quale sia la
portata dell’evangelo a proposito di ciò che esso stimola e produce
nell’uomo. Non che egli offra una sistematizzazione del proprio pensiero.
Paolo non era nato con la vocazione dello scrittore, e altrettanto egli non
sa costruire la propria argomentazione sulla base della ferrea logica
aristotelica, benché provenga dalla diaspora di lingua greca e non sia
affatto digiuno delle regole che presiedono alla composizione di un
discorso.
Anche dopo l’evento della strada di Damasco, la sua matrice semitico-ebraica
è rimasta intatta, e soprattutto è rimasto intatto il suo temperamento
generoso e passionale, che lo portano all’accumulazione dei concetti,
all’iperbole, all’antitesi, e persino all’anacoluto, con cui una frase viene
interrotta per passare senza preavviso a un altro soggetto grammaticale (cf.
Rm 2,18-20.21; 5,12; 8,3). D’altra parte, l’annuncio evangelico non è
rinchiudibile negli schemi della logica umana; esso non è dimostrabile, ma
semmai persuasibile, e ciò del resto è conforme all’antica arte retorica dei
discorsi, che appunto tendeva non tanto a dimostrare quanto a convincere
[2]; e ciò avviene servendosi di tecniche
retorico-espositive particolari
[3].
In effetti, si vede bene che il linguaggio di cui Paolo dispone dal punto di
vista lessicale e sintattico non è sufficiente a contenere il messaggio che
deve trasmettere, e, viceversa, si percepisce altrettanto bene che in ultima
analisi l’annuncio evangelico e la riflessione su di esso eccedono
enormemente le possibilità di quel che è possibile dirne. C’è una sfasatura
tra la parola e il concetto e, se si eccettua il codice linguistico proprio
dell’Apocalisse di Giovanni, solo Paolo (o almeno Paolo più di altri)
all’interno delle origini cristiane dimostra quanto sproporzionato sia il
rapporto tra il messaggio e il linguaggio. Il pensiero deborda lo scritto,
il quale non è un argine bastevole per incanalarne la forza straripante.
Il fatto è che Paolo non espone le cose didatticamente, come potrebbe fare
un freddo cattedratico, che separa la propria scienza dalla propria umanità.
È ben diverso dire che due più due fanno quattro e dire che in Gesù Cristo
Dio ha amato tutti gli uomini, me compreso, fino a definirlo un «Dio per
noi» (Rm 8,31). Ecco, Paolo è coinvolto in ciò che dice e scrive, perché ne
va della vita e del senso che ad essa può derivarne dall’evangelo, sicché in
gioco non c’è solo una visione oggettiva delle cose, ma una profonda
compromissione soggettiva ed esistenziale.
L’effettiva posta in gioco
Prima di incontrare personalmente i cristiani di Roma, dunque, Paolo espone
loro il proprio pensiero sulla natura e sulle implicanze dell’evangelo, così
che essi sappiano bene che cosa pensa colui del quale avrebbero dovuto poi
fare la conoscenza. L’Apostolo però sa che a Roma la fede cristiana è
vissuta secondo un’interpretazione che non è la sua.
Ciò sarà significativamente confermato nel sec. IV dal primo commentatore
romano della lettera paolina, noto sotto lo pseudonimo di Ambrosiaster
(vissuto al tempo di papa Damaso, 366-384):
I romani… pur non vedendo né segni né miracoli né alcuno degli apostoli,
avevano accolto la fede in Cristo sebbene in un senso falsato: infatti non
avevano sentito annunciare il mistero della croce di Cristo… L’Apostolo
impiega tutte le sue energie per toglierli dalla legge, perché «la legge e i
profeti vanno fino a Giovanni», e per fissarli nella sola fede in Cristo (in
sola fide Christi), e quasi contro la legge difende il vangelo, non
distruggendo la legge, ma anteponendo il cristianesimo (Prologo al
suo commento).
Come si vede da questa testimonianza, che esprime l’autocoscienza propria
della stessa Chiesa romana, sono in gioco i grandi concetti di legge e di
fede, tra i quali la croce di Cristo fa da relais e nello stesso
tempo da spartiacque. I cristiani di Roma, infatti, erano in realtà
pressoché tutti giudeo-cristiani, cioè facevano coesistere l’adesione a
Cristo con l’osservanza della Torà, sicché la morte di Cristo poteva
significare al massimo l’abolizione dei sacrifici templari (cf. Rm 3,25) ma
non l’accantonamento dei vari precetti legali (classificati successivamente
dai rabbini in numero di 613)
[4].
Da parte sua, invece, Paolo distingue nettamente i due termini: come
accennato, egli aveva già fatto questa operazione nella lettera ai Galati,
ma ora riprende quella tematica e la sviluppa più ampiamente. Perciò è
assolutamente importante rendersi conto di come proceda l’esposizione del
suo pensiero e come esso vada a strutturare il quadro generale della lettera
e segnatamente il suo corpo centrale (cioè Rm 1,16-15,13)
[5].
L’articolazione della lettera
La prima, fondamentale osservazione riguarda l’organizzazione bipartita
dell’intera argomentazione. L’indizio più importante del passaggio da una
parte espositiva a un’altra è l’uso del verbo «esortare» in Rm 12,1, mai
impiegato nelle pagine precedenti: con esso Paolo passa decisamente a un
discorso di genere morale, cioè alla richiesta di una condotta etica che
viene dettagliata fino a Rm 15,13 con ammonimenti vari, di carattere sia
generale (incentrati comunque tutti sulla necessità dell’agàpe/amore
vicendevole) sia particolari (come il rapporto all’esterno con le autorità
politiche [Rm 13,1-7] e all’interno con coloro che, essendo deboli nella
fede, praticano astinenze da cibi e bevande [Rm 14,1-15,13]).
A questo indizio se ne aggiunge un altro complementare, quello della
dossologia con cui si conclude la sezione precedente in Rm 11,33-36: abbiamo
qui una sorta di inno, che canta l’insondabilità della sapienza di Dio e che
per le sue movenze celebrative rappresenta l’apice di quanto esposto prima.
Perciò l’ultima sezione epistolare, che si apre con uno stacco ben marcato
(Rm 12,1: «Vi esorto, dunque, fratelli»), si presenta come una deduzione di
comportamenti vissuti da intendersi come conseguenza di tutto ciò che
l’Apostolo ha precedentemente esposto da Rm 1,16 fino a Rm 11,36. Ciò che
appare sorprendente è il patente sbilanciamento quantitativo tra le due
parti: ai 71 versetti di quest’ultimo segmento epistolare si oppongono i ben
300 del segmento precedente!
Se dunque la lettera si divide in due parti, risulta evidente che la prima è
la più importante, poiché è qui che si trovano i princìpi e le basi della
condotta cristiana. Appare quindi chiaro che a Paolo interessa di più (e non
solo prima) fare un discorso sui fondamenti che non sulle sue
sovrastrutture, sulle radici che non sull’albero, sull’essere che non
sull’agire, in una parola sulle componenti pre-morali della condotta
cristiana. Ecco, la lettera ai Romani ci insegna proprio questo: a non
anteporre il dover fare al dover essere. Paolo sa che, se si chiariscono
bene gli elementi portanti, allora la vita cristiana crescerà da sola
producendo naturalmente frutti omogenei alle sue premesse costitutive.
Ebbene, detto in breve, la sezione Rm 1,16-11,36 si può strutturare nel modo
seguente.
Tutto si apre con un’enunciazione di principio, che definisce l’annuncio
cristiano nei suoi elementi formali (Rm 1,16-17).
Seguono tre ampie sotto-sezioni, che ricamano su questo tema e trattano
rispettivamente:
a) della situazione di tutti gli uomini, giudei e gentili, accomunati
davanti a Dio sia nel peccato (Rm 1,18-3,20) sia nella giustificazione per
fede (Rm 3,21-5,21);
b) della nuova esistenza dei battezzati in Cristo e nello Spirito;
qui alle categorie giuridiche della sezione precedente (giustizia,
assoluzione) subentrano altre di tipo mistico (comunione, filiazione): Rm
6,1-8,39;
c) dell’incredulità di Israele di fronte all’evangelo e della
persistente fedeltà di Dio alla propria promessa di salvezza: Rm 9,1-11,36.
Come si vede, il quadro è ampio e ricco. Non resta che immergervisi, sapendo
che limitarsi a guardarlo ne pregiudica l’esatta comprensione, poiché
ciascuno di noi ne fa comunque parte integrante.
[1]
Negli epistolari antichi, solo la lettera settima di Platone è più
estesa della nostra (con ca. 8.000 parole), mentre la più lunga tra
quelle di Seneca a Lucilio (la n° 95) non arriva a 5.000 parole; cf.
in merito R. Penna,
«La questione della dispositio rhetorica nella lettera di
Paolo ai Romani: confronto con la lettera 7 di Platone e la lettera
95 di Seneca», in Biblica 84 (2003) 61-88.
[2]
Questi sono già i termini esplicitamente impiegati da Platone nella
sua definizione (cf. Gorgia).
[3]
Cf. R. Penna,
Lettera ai Romani - I. Rm 1-5. Introduzione, versione,
commento, EDB, Bologna 2004, 39-43, 60-65.
[4]
Cf., per esempio, il Talmud babilonese, Makkôt 24a.
[5]
A questo proposito tralasciamo di mettere in evidenza le sezioni
cosiddette «di cornice» della lettera, cioè: il prescritto o
protocollo (Rm 1,1-7), a cui corrispondono, al termine, come
escatocollo, i saluti finali (Rm 16,1-27); e il ringraziamento
post-protocollare (Rm 1,8-15), a cui corrisponde, al termine, una
sezione di tono altrettanto colloquiale (Rm 15,14-32).