Cantico dei Cantici

COMMENTO AL CANTICO DEI CANTICI

di LUIS DE LÉON

 edizioni Città Nuova

 

Luis de Leon - Poeta ed ecclesiastico spagnolo (1527 – 1591). Studiò all'università di Salamanca, dove si occupò di ebraismo sostenendo la priorità del testo originale ebraico della Bibbia rispetto alla traduzione latina. Entrato nell'ordine agostiniano, nel 1565 divenne professore di Sacre Scritture a Salamanca. Fu denunciato all'Inquisizione per aver tradotto in spagnolo il Cantico dei Cantici (1560), incarcerato nel 1572, fu assolto e scarcerato quattro anni dopo, riprendendo l'insegnamento.

PROLOGO

 

Nulla è più divino dell’amore e l’amore non ha nulla di più naturale che mettere l’amato nella condizione dell’amato. Dell'uno e dell'altro abbiamo chiara esperienza.

È certo che Dio ama: chi non è cieco lo può riconoscere in sé dai benefici che continuamente riceve dalla sua mano, l’essere, la vita, la guida e la protezione che mai e in nessun luogo ci abbandonano. Che Dio si vanti più di ciò che di ogni altra cosa e che proprio l'amore emerga tra tutte le sue virtù, lo si vede dalle sue opere ordinate solo a questo fine, cioè ripartire e dare in possesso i suoi grandi beni alle creature, facendo sì che la somiglianza a lui risplenda in ciascuna come conviene e in rapporto a sé in modo da essere goduto come è proprio dell'amore.

Questo benevolo amore di Dio si riflette specialmente nell’uomo, che Egli creò in principio a sua immagine e somiglianza come un altro Dio, ma dopo si fece Egli stesso a immagine di lui, facendosi uomo per natura e, molto prima, per comportamento e lingua, come si vede nelle sacre Scritture, nelle quali sorprende la cura che ha lo Spirito Santo nel conformarsi al nostro stile e al nostro linguaggio, imitando tutti i caratteri del nostro ingegno: godere e rattristarsi; adirarsi e pentirsi; minacciare e dominarsi; non c’è sentimento né qualità umana estranea a lui; tutto perché non ci allontaniamo da Lui, dalla sua grazia e perché, vinti dalla simpatia o dalla vergogna, facciamo quello che Egli ci comanda, che è la nostra felicità.

Ne sono testimonianza i versi e i canti di Davide, le conversazioni e i sermoni dei santi Profeti, i consigli della Sapienza e, finalmente, tutta la vita e la dottrina di Gesù Cristo, luce e verità, nostro bene e nostra speranza.

Tra le altre Sacre Scritture, uno è il soavissimo canto di Salomone, re e poeta. In esso, sotto la forma di dialogo amoroso tra un pastore e una pastorella, più che in ogni altra Scrittura, Dio si mostra ferito dai nostri amori che esprime con passioni e sentimenti umani, come sentono i cuori più belli e più teneri: supplica e s’infiamma, è geloso e si dispera, ritorna e oscilla tra speranza e timore, tra allegria e tristezza; ora canta per gioia, ora si Iagna e chiama testimoni i monti e gli alberi, gli animali e le fonti, per la pena che soffre.

Sono descritte con vivacità le numerose passioni dei divini amanti, gli ardenti desideri, le continue ansie, le faticose angosce, che l’assenza e il timore causano in loro, insieme alle gelosie e ai sospetti. Si sente l ‘eco degli ardenti sospiri, messaggi del cuore, degli amorosi gemiti, dei dolci dialoghi, che alcune volte si rivestono di speranze e altre volte di timore. In sintesi tutti i sentimenti che gli amanti sogliono provare sono qui molto più acuti e delicati, perché l'amore divino è più vivo e più raffinato di quello mondano.

Per ciò la lettura di questo libro è difficile per i giovani e per tutti coloro che non sono ancora progrediti e saldi nella virtù; perché in nessun libro della Scrittura si manifesta la passione dell'amore con più forza e sensualità che in questo.

Quanto al rischio non c'è da dire altro; io cercherò di appianare con tutte le mie forze le difficoltà, che non sono poche. E’ certo e risaputo che in questi Cantici, nella persona di Salomone e della sua sposa, la figlia del re d’Egitto, sotto forma di amorosi dialoghi, lo Spirito Santo parla dell'lncarnazione di Cristo, dello sviscerato amore che Egli sempre ha avuto per la sua Chiesa e degli altri misteri segreti e profondi.

Di questo senso spirituale non debbo parlare perché di esso si trovano tanti libri scritti da persone santissime e dottissime che, ricche del medesimo Spirito che parlò in questo libro, capirono grande parte del suo segreto e lo descrissero con grande diletto dello spirito, sì che in questa parte non c'è nulla da dire, o perché è stato già detto o perché sarebbe lungo parlarne e la descrizione occuperebbe molto spazio.

Lavorerò soltanto per chiarire la forma letterale semplicemente, come se in questo libro non ci fosse altro segreto che quello espresso nei dialoghi tra Salomone e la sua sposa.

Chiarire solo il suono di queste parole è quanto è richiesto dalla forza del paragone e delle stesse parole, benché sia un lavoro meno faticoso del primo, non manca di grandi difficoltà, come fra poco vedremo. Perché bisogna capire che questo libro dapprima fu scritto in poesia ed è tutta un'egloga nella quale, con parole e nel linguaggio di pastori, parlano Salomone e la sua sposa e talvolta i loro compagni, come se fosse tutta gente contadina.

Questo modo di parlare rende ardua la sua comprensione; ciò accade in tutti gli scritti dove si narra di alcune grandi passioni o affetti, maggiormente l'amore, che rendono il dialogo spezzato e disarmonico anche se, in verità, conosciuta la natura della passione, si colgono meravigliosamente gli affetti narrati che si susseguono in armonia.

Il motivo di questa apparente rottura va cercata nell’incapacità di esprimere a parole quanto c’è nel cuore: né si può dire quanto si sente; inoltre, di quello che si può dire non si dice tutto, ma a frammenti; alcune volte si riporta il principio del dialogo e altre volte la fine, poiché chi ama sente molto quello che dice e crede che, pur non esprimendolo, è inteso da tutti, che la passione, con la sua forza e con incredibile prontezza, porta la lingua e il cuore da un affetto all’altro, da qui deriva che i dialoghi vengano spezzati e risultino oscuri. Appaiono anche disarmonici tra loro, perché rispecchiano il moto della passione nell’anima di chi parla, sì che, chi non la sente o non la vede, la giudica male come giudicherebbe frutto di delirio o di cervello folle i movimenti di quelli che ballano solo vedendoli da lontano, senza percepire ii suono che essi seguono.

È questo un avvertimento che vale per questo libro e per tutti quelli simili.

Il secondo motivo di non chiarezza è che la lingua ebraica nella quale è scritto il testo, per sua struttura e condizione, è di poche parole e di corte argomentazioni e queste stesse si differenziano nel senso; inoltre va detto che lo stile e il modo di argomentare in quel tempo e tra quella gente era diverso da quello di oggi; questo il motivo per cui ci sembrano nuovi e stravaganti i paragoni che usa questo libro, quando lo sposo e la sposa cercano di lodare la bellezza dell'altro, per esempio quando si paragona il collo a una torre e i denti a un gregge di pecore. Così avviene per altri paragoni.

In verità ogni lingua e ogni popolo ha un linguaggio proprio, per cui le forme rendono delicato e gentile ciò che in altra lingua e presso altra gente sembra molto rozzo. Perciò bisogna pensare che quanto oggi, per la sua novità e per l'estraneità alle nostre usanze, ci urta, era ben detto per tutta la gente di quel tempo, Perché è chiaro che Salomone era non solo molto saggio, ma re e figlio di re, e quanto non possedeva per cultura gli veniva dato dall’ambiente nel quale viveva: la sua corte; è ovvio, quindi, che sapesse parlare la sua lingua meglio di nessun altro.

Ciò che faccio in questo lavoro è tradurre nella nostra lingua, parola per parola, il testo; inoltre, spiego brevemente non ogni parola a sé stante, ma i passaggi che risultano oscuri nel lessico; affinché resti chiaro il senso, pongo all’inizio la sintesi di tutto il capitolo, dopo il suo commento.

Quanto alla prima affermazione ho cercato di essere fedele all’originale ebraico, confrontando sinotticamente tutte le traduzioni greche e latine esistenti, e sono molte; inoltre ho preteso che questa interpretazione rispondesse all'originale, non solo nei detti e nelle parole, ma nella struttura e armonia, accostando le figure e modi di dire, per quanto è possibile, alla nostra lingua, che in verità corrisponde all'ebraico in molto. Potrà derivare che alcuni non accettino tutto ciò, che a loro in alcune parti il ragionamento sembri monco e dica di più il modo arcaico, sgrammaticato e senza nesso, che si potrà tradurre più facilmente mutando alcune parole e aggiungendone altre; quello che io non ho fatto, per il motivo che ho detto, è perché intendo che sia diverso il compito di chi traduce, specie Scritture di questo tipo, da quello di chi spiega e commenta.

Chi traduce deve essere fedele e preciso e, se possibile, deve contare le parole per farne corrispondere altrettante né più né meno della stessa qualità, condizione e varietà di senso che hanno gli originali, secondo il loro significato, perché il lettore possa capire tutta la varietà di senso che c’è nell’originale e restare libero di scegliere quello che trova più congeniale. Prolungarsi a dire, esplicitare minuziosamente il motivo-guida, definire quanto più conviene, giocare con le parole, aggiungendo e togliendo a piacere è compito del chiosatore; noi facciamo tutto ciò dopo ogni capitolo, nel commento.

E’ vero che, traducendo il testo, non possiamo andare di pari passo con l’originale; la qualità dei detti e la proprietà della nostra lingua ci obbliga ad aggiungere alcune parole senza le quali resterebbe oscuro il senso; ma queste sono poche e le inseriamo fra parentesi. Lei accetti il mio desiderio di accontentarla, il resto non mi soddisfa molto né mi interessa che soddisfaccia gli altri; mi basta aver fatto quanto mi è stato chiesto, che è quanto unicamente voglio e desidero. E’ proprio della lingua ebraica ripetere alcune parole per confermare in bene o in male. Così, dire “Cantico dei Cantici” è come dire “Canto tra i Canti” oppure “uomo tra uomini”; questo è segnalare e rendere eminente tra tutti, più eccellente di molti altri.

In questo caso concreto intendiamo che lo Spirito Santo mostrò la ricchezza del suo amore e del suo dono più in questo Cantico che in nessun altro.

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