IL TESTAMENTO DI MOSÈ

Alberto Mello

Estratto da “Ricorda e cammina - Deuteronomio, una rilettura profetica”

Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose 2019

 

 

“Queste sono le parole”: non è solo il titolo di un libro, ma l’incipit di un’opera, perché “queste parole” di Mosè sono perfettamente contestualizzate geograficamente (“al di là del Giordano, nel deserto, nell’Aravà, di fronte al mare dei Giunchi”) e non sfugge che il narratore, dicendo “al di là del Giordano” si situa involontariamente già al di qua, dove Mosè non è mai arrivato: quindi il narratore non è Mosè, anche se il suo discorso sarà in prima persona.

Soprattutto, sono esplicitamente datate “al quarantesimo anno (dall’uscita dall’Egitto), l’undicesimo mese, il primo giorno del mese”. Tutto il libro del Deuteronomio si svolge in un unico giorno, alle soglie della terra promessa, proprio alla vigilia della morte di Mosè. Il Deuteronomio è il testamento di Mosè, e per testamento dobbiamo intendere le sue ultime volontà, quelle che riassumono il significato di tutta una vita.

Aristotele, nella sua Poetica (quasi tutte le intuizioni dell’analisi narrativa sono già presenti in questo trattato di retorica antica), definisce così l’inizio di un’opera letteraria: “Principio è ciò che per se stesso non viene necessariamente dopo altro, mentre dopo di lui si dà naturalmente che sia o avvenga un’altra cosa[1]. L’inizio del Deuteronomio si qualifica espressamente come tale, perché non è determinato da un antecedente per la sua comprensione. Se consideriamo i libri anteriori, non sono dotati di un inizio in senso proprio: “Questi i nomi dei figli di Israele entrati in Egitto” (Es 1,1) non si capirebbe se non ci fosse già stato un antefatto, ossia la discesa in Egitto; “E chiamò Mosè” (Lv 1,1) senza neppure indicazione esplicita del soggetto, continua un discorso già iniziato; “Il Signore parlò a Mosè, nel deserto del Sinai, il primo giorno del secondo mese, il secondo anno dalla loro uscita dalla terra d’Egitto” (Nm 1,1) segna già una cesura maggiore, dal punto di vista narrativo, ma non ancora così originale come un discorso tutto concentrato in un solo giorno.

In pratica, dopo il solenne inizio della Genesi (“Quando Dio cominciò a creare il cielo e la terra”), solo con il Deuteronomio siamo alle prese con un altro inizio assoluto, che comporta anche una diversità di autore letterario o di narratore. Tant’è vero che la divisione della Torà in cinque libri o “astucci” (Pentateuco) è secondaria, operata per motivi pratici di lettura, ma il cosiddetto Tetrateuco (da Genesi a Numeri) era probabilmente un’opera continua, che si leggeva tutta di seguito. Fino al Deuteronomio, che è un’opera completamente diversa, per stile e contenuto, e che narrativamente segna un nuovo inizio.

Questa singolarità del Deuteronomio è stata sempre notata, e in effetti è la prima delle quattro fonti del Pentateuco che sia stata identificata dall’esegesi storico-critica. Nel 1805 Wilhelm Martin Leberecht De Wette, pubblicò una “dissertazione critico-esegetica in cui si dimostra che il Deuteronomio è diverso dai libri precedenti del Pentateuco ed è opera di un altro autore più recente”, cioè non è attribuibile a Mosè. Sempre il De Wette è stato anche il primo a mettere in relazione il codice deuteronomico con il “libro della legge” ritrovato nel tempio dai sacerdoti di Gerusalemme che sarà alla base della riforma di Giosia (2Re 22-23). Per la sua impronta teologica, il Deuteronomio riflette una provenienza settentrionale (levitica o profetica), quindi anteriore alla scomparsa del regno di Israele, ma sarebbe stato “pubblicato” a Gerusalemme intorno al 621, un secolo più tardi, e quindi “recepito” o riconosciuto come dotato di una sua autorità canonica. Possiamo dire che il codice deuteronomico (in sostanza Dt 12-28, senza le cornici omiletiche e narrative) è un’opera da situare tra la fine dell’VIII secolo e la fine del VII. Perciò il nostro libro è il documento del Pentateuco più facilmente isolabile (mentre le altre fonti del Tetrateuco, sacerdotali o presacerdotali, sono intrecciate tra di loro o sovrapposte, in modi che non è sempre facile distinguere) e anche più sicuramente databile. Questa scoperta diventerà una sorta di “punto di Archimede” per l’individuazione anche delle altre fonti, che possono essere anteriori o posteriori al Deuteronomio, in particolare per quanto riguarda i luoghi di culto, che il Deuteronomio per primo centralizza a Gerusalemme.

Abbiamo considerato l’inizio del libro, adesso consideriamo anche la fine, perché la storia non finisce con la morte di Mosè (Dt 34), ma conosce un seguito subito dopo, con l’incipit del libro di Giosuè che vi rimanda: “Dopo la morte di Mosè” (Gs 1,1). Quindi abbiamo un inizio che però rimanda a un antecedente, e questo procedimento non è isolato ma si ripete a catena: “Dopo la morte di Giosuè” (Gdc 1,1); “Dopo la morte di Saul” (2Sam 1,1); “Dopo la morte di Achab” (2Re 1,1). In pratica tutti i libri seguenti (Giosuè, Giudici, Samuele e Re) si collegano narrativamente al Deuteronomio e ne riflettono anche l’ideologia. Questa scoperta è stata fatta per la prima volta dal pioniere dell’esegesi storico-critica, l’ebreo olandese Baruch Spinoza, sul finire del Seicento: “Se ora facciamo attenzione alla connessione e all’argomento di tutti questi libri, facilmente trarremo la conclusione che furono scritti tutti da un solo e medesimo storico, il quale volle narrare le antichità dei giudei dalla loro prima origine fino alla prima distruzione della città” [2].

Perciò il Deuteronomio si presta a due diverse letture possibili: o come l’ultimo libro del Pentateuco o come il primo libro di un’altra opera storica, che va dall’ingresso nella terra di Canaan, la sua parziale conquista, l’istituzione della monarchia, la storia dei due regni divisi fino alla distruzione di Gerusalemme e l’esilio babilonese. Quest’altra opera storica, in seguito agli studi di Martin Noth, è stata soprannominata “deuteronomistica”, proprio in ragione dell’influsso che la teologia del Deuteronomio ha esercitato sulla sua concezione teorica come una storia di benedizione o di maledizione realizzate dall’obbedienza o dalla trasgressione del patto con Dio. Tuttavia non affrontiamo qui l’opera deuteronomistica, ci basti considerare il Deuteronomio come un libro della Torà, anzi come una “seconda” Torà.

 

Una seconda Torà

“Deuteronomio”, in greco, significa proprio questo: “Seconda legge”. L’origine di questo titolo è apparentemente accidentale. Deriva dal passo di Dt 17,18 dove si dice che anche il re è soggetto alla legge, e per tale motivo, accedendo al trono, dovrà procurarsi, scrivendola su un documento (sefer), una “copia di questa legge” (mishnè ha-torà ha-zo't), ossia ricopiarsi questo libro a suo uso personale. Questa “copia” a uso del re è diventata il titolo dell’intero libro, non solo in greco, ma anche in ebraico: Mishnè Torà, perché questa espressione può anche significare “ripetizione” della legge, o di un codice legale precedente. Questa è un’esatta definizione del codice deuteronomico, che di fatto ripropone o riattualizza il codice dell’alleanza di Esodo 20-23, a cominciare dal decalogo. E lo riattualizza profeticamente, non solo adeguando la legislazione antica a circostanze giuridiche ulteriori, ma spiegandone il senso teologico.

Il nostro libro si compone, infatti, di un codice legale (Dt 12-28), ma inquadrato in un contesto predicativo, di riflessione storico-teologica (Dt 1-11; 29-34) che ne dichiara tutta l’importanza, fino a postulare un rinnovamento dell’alleanza, “nella terra di Moab, oltre l’alleanza” del Sinai (che questo libro chiama sempre Horeb: Dt 28,69). Il titolo di “Seconda legge” è dunque pertinente e suggestivo: indica che l’ultimo libro della Torà è in qualche modo una “replica”, una ripresa, una sintesi teologicamente più matura dei codici legali contenuti nei libri precedenti. Si tratta, quindi, anche di un’altra legge, di una “legge predicata” (Gerhard Von Rad) o di una riflessione teologica sulla legge: secondo la definizione appropriata di Paolo De Benedetti, di “una legge mediata dalla profezia”.

Stilisticamente, il Deuteronomio è uno dei libri più omogenei, più coerenti, di tutta la Bibbia ebraica. Presenta uno stile proprio, altamente teologico, con ripetizioni caratteristiche a cui ogni lettore si abitua facilmente. Da tempo gli studiosi riconoscono la presenza di questo stile teologico anche in altri libri della Bibbia, non soltanto in quella che abbiamo chiamato “opera storica deuteronomistica”, da Giosuè a Re, ma anche nella redazione finale del libro di Geremia e, oggi, probabilmente anche in quegli stessi racconti del Pentateuco che un tempo si attribuivano ad altre fonti presacerdotali, in particolare alla fonte cosiddetta elohista. Tuttavia, proprio in ragione di questa sua estensione, è difficile attribuire questo stile a un unico autore. Si deve piuttosto ammettere l’esistenza di una “scuola deuteronomica” attiva per almeno tre o quattro secoli, dalle sue origini settentrionali fino al tempo dell’esilio. Perciò la storia editoriale di questo libro, e della letteratura che ne dipende, si presenta come piuttosto complessa. Qui mi limito a indicare qualche tappa sommaria, e per di più ipotetica.

- Il Deuteronomio può aver avuto origine nella celebrazione levitica del patto tra Dio e Israele in un santuario del nord, probabilmente Sichem, visto che nel capitolo 27 sono nominati i monti Ebal e Garizim, che circondano questa città, come i monti su cui vengono pronunciate le maledizioni e le benedizioni. A questa attualizzazione del patto con Dio si rifà, sostanzialmente, il codice deuteronomico (capitoli 12-28), che è la parte centrale del libro.

- Nell’imminenza della conquista assira del regno del nord, nel 722, i documenti settentrionali passano al sud, da Samaria a Gerusalemme. Un secolo più tardi il codice deuteronomico diventa la base della riforma religiosa di Giosia, essendo, con ogni probabilità, il “libro della legge” rinvenuto dai sacerdoti nel tempio (2Re 22,3-13) [3] che ne ispirerà il programma, in particolare per quanto riguarda la centralizzazione di tutti i luoghi di culto nel tempio di Gerusalemme. Ma, emigrando a Gerusalemme, anche il Deuteronomio si arricchisce, integrando nella sua “teologia del patto” elementi teologici di provenienza regale, come quello dell’elezione, e quindi di una più accentuata gratuità dell’amore di Dio, che formano il nucleo della riflessione teologica dei capitoli da 5 a 11.

- Con l’esilio, nel VI secolo, la teologia deuteronomica diventa l’ispiratrice di un vasto affresco storico, che va dall’insediamento nella terra fino all’espulsione da essa. Probabilmente, è proprio l’esilio dalla terra che obbliga a questo ripensamento circa le condizioni per recuperarne il possesso. A quest’epoca, dunque, risalgono i capitoli “storici” da 1 a 4 e da 29 a 30: essi costituiscono una sorta di raccordo con l’opera storica cosiddetta deuteronomistica proprio per il suo stile e la sua parentela teologica con il Deuteronomio. Una storia del possesso della terra è anche una storia politica: descrive la conquista militare, il sorgere di una guida politica carismatica, poi l’istituzionalizzazione di una monarchia dinastica e infine il suo declino. Questa storia finisce (cf. 2Re 25) nell’“anno trentasette del re Jojaqin”, che è l’ultimo re di Giuda (562), e un’opera storica è databile dall’ultimo evento narrato. Jojaqin è in esilio, è un re vassallo, ma ha ancora il titolo di re (e gli anni si contano ancora in base al suo regno). La monarchia non è ancora scomparsa del tutto, la “lampada” del Messia è ancora accesa. Quest’opera finisce con il tenue barlume di una speranza che non si può dire ancora messianica, ma tiene in vita una possibile restaurazione nazionale.

- Dopo l’esilio, però, risulta impossibile ripristinare il regno davidico: Zorobabele, l’ultimo davidide pretendente al trono, è un governatore persiano, che gli stessi persiani vedono di malocchio, favorendo l’aristocrazia sacerdotale. Una volta che i sacerdoti prendono il potere, si scrive un’altra storia. Alle tradizioni storiche antiche, che coprono gli attuali libri della Genesi, dell’Esodo e dei Numeri, si riconduce anzitutto tutta la legislazione sacerdotale (da Es 25 a Nm 10, comprendendo l’intero libro del Levitico). Si ricostruisce l’intero ciclo fondatore: creazione, patriarchi, esodo, deserto. Il Deuteronomio riceve alcune aggiunte finali riguardanti la morte di Mosè (Dt 31-34). In questo modo si costituisce un altro arco narrativo, che va dalla nascita alla morte di Mosè. La funzione del libro è sensibilmente modificata: non è più un’introduzione ideologica alla storia successiva, ma diventa la conclusione teologica della storia antica di Israele, prima dell’ingresso nella terra. In altri termini, il Deuteronomio viene scorporato dall’opera deuteronomistica e diventa il quinto e ultimo “astuccio” (questo il significato del greco teûchos) del Pentateuco mosaico.

Sulla base di questa ricostruzione delle vicende editoriali del nostro libro, gli esegeti suppongono almeno due redazioni del Deuteronomio (e dei libri storici che vi si ispirano): Enzo Cortese qualifica la prima redazione come “giosiana” e promonarchica, e la seconda come esilica e antimonarchica[4]. Altri parlano più semplicemente di un Deuteronomio pregeremiaco e di un Deuteronomio postgeremiaco: vedi, in particolare, il tema della retribuzione individuale, dove non si può sapere con certezza se è il Deuteronomio a dipendere da Geremia, o viceversa (cf. Dt 7,10; 24,18 con Ger 31,29-30). In ogni caso, questo libro è tutto giocato su una sottile finzione narrativa. Il suo tempo reale, il suo “oggi” (ha-jom, parola costantemente ripetuta), è quello dell’esilio, ma il suo tempo fittizio, immaginario, è quello di Mosè. Perciò il Deuteronomio prevede come futuri eventi già passati, a cominciare dall’ingresso nella terra di Canaan. Più precisamente, esso immagina come futuro il dono della terra, quando in realtà Israele non solo l’ha già ricevuto, ma l’ha già anche perduto con l’esilio. In questo modo, la Torà deuteronomica sconfina nella profezia: rilancia la speranza di un ritorno nella terra, come se fosse la prima volta.

 

Teologia del patto

È di importanza decisiva riconoscere che nel libro del Deuteronomio abbiamo la voce di una tradizione in totale contrasto con la voce sacerdotale, che si è rivolta a noi finora nel Pentateuco. Di conseguenza, i primi cinque libri della Bibbia, la Torà, sono costituiti da due unità letterarie distinte: Genesi-Numeri come voce della tradizione sacerdotale e il Deuteronomio come voce della tradizione deuteronomista[5].

 

Possiamo dire che, mentre la preoccupazione teologica sacerdotale è la presenza di Dio in mezzo al suo popolo, che si realizza mediante il culto sacrificale, quella deuteronomista è il patto di Dio con il suo popolo, che si traduce in una legge orientata in senso politico-sociale.

In poche parole, la scuola deuteronomista è la più tipica espressione di una “teologia del patto” nell’Antico Testamento, a tal punto che questa si riflette nella sua stessa composizione letteraria. Abbiamo parlato dell’incipit del nostro libro, che ha un carattere assoluto rispetto a quanto precede. Ma in realtà gli incipit del nostro libro sono più di uno, anzi sono quattro, e hanno tutti una precisa funzione anche dal punto di vista strutturale:

 

Dt 1, 1: “Queste sono le parole che Mosè rivolse a tutto Israele”.

Dt 4,44: “Questa è la legge che Mosè espose ai figli di Israele”.

Dt 12,1: “Queste sono le leggi e le norme che osserverete nella terra”.

Dt 28,69: “Queste sono le parole dell’alleanza che il Signore ha ordinato a Mosè di sancire con i figli di Israele nella terra di Moab”.

 

In base a questi quattro inizi, tutti in posizione strategica, il libro si lascia facilmente suddividere in quattro parti, grosso modo corrispondenti a Dt 1-4; 5-11; 12-28 e 29-34. Infatti le parti così individuate presentano caratteristiche diverse, molto chiaramente delineate. Eviterei, però, di parlare di un primo, secondo, o terzo “discorso” di Mosè. In realtà il discorso di Mosè è uno solo, che ha luogo in un solo giorno, come abbiamo già detto. Le quattro parti del libro rispondono a un’altra logica, che è la logica del patto o dell’alleanza. Iniziamo da questo chiarimento linguistico: si deve dire “patto” o “alleanza”? Nel vocabolario della lingua italiana, i due termini sono sinonimi. Con questa differenza, però, che “alleanza” è un patto tra due o più contraenti in vista di un fine comune, mentre “patto” è più vicino a un impegno reciproco tra due contraenti, con diritti e doveri codificati. Alleanza, quindi, ha un carattere meno giuridico, più finalizzato a un obiettivo da raggiungere, per esempio la promessa di una terra. Patto, invece, ha più a che fare con un trattato politico, per esempio è normativo degli impegni tra un re e il suo vassallo.

A proposito dell’autore sacerdotale, ho già precisato che il termine ebraico berit vale di solito come impegno o obbligo che un superiore si assume nei confronti di un inferiore, quindi è sinonimo di “promessa” o “giuramento”: perciò lo tradurrei con “alleanza” (“testamento”, in base al latino, anche se in italiano vuol dire altra cosa). Per quanto riguarda il Deuteronomio, invece, preferisco rendere berit con “patto”, primo perché il Deuteronomio lo enfatizza in modo particolare (vi ricorre venticinque volte), secondo perché il suo uso linguistico, come adesso vedremo, è strettamente dipendente dalla categoria politica dei trattati. La differenza è anche di destinatario, perché l’autore sacerdotale riserva il termine quasi soltanto all’alleanza patriarcale, mentre per quello deuteronomico il patto non è altro che quello sinaitico, eventualmente rinnovato in Moab, ma sempre con tutto Israele. Fatta questa premessa, cerchiamo di descrivere sommariamente le quattro parti in cui si articola il libro.

 

-     Prologo storico (Dt 1-4), che traccia l’itinerario dei figli di Israele dal monte Sinai fino alle steppe di Moab, riassumendo le indicazioni topografiche che si trovavano già nel libro dei Numeri. Una considerazione si impone: queste indicazioni sarebbero del tutto superflue se il Deuteronomio fosse una semplice continuazione del racconto precedente. Diventano indispensabili, invece, se introducono un’opera nuova. Vedremo, infatti, che il Deuteronomio introduce un nuovo inizio anche per la storia di Israele come popolo: non più l’uscita dall’Egitto ma il patto sinaitico stipulato sull’Horeb.

-     Predicazione teologica (Dt 5-11) sui temi fondamentali del patto tra Dio e Israele, a partire dal documento originario del decalogo, concentrandosi sull’adorazione esclusiva del Signore (Jhwh echad) e sulla corrispettiva elezione di Israele come sua proprietà privata (segullà). Questa è la parte più impegnativa del Deuteronomio, quella che più ne qualifica gli autori, leviti o profeti di origine settentrionale, come “teologi” nel senso proprio e consapevole del termine, e ne caratterizza l’opera come il “cuore” non solo del libro omonimo, e neppure soltanto della Torà, ma probabilmente di tutto l’Antico Testamento.

-     Codice del patto (Dt 12-28), che costituisce il nucleo centrale e forse più antico della legislazione deuteronomica, e si divide in tre parti: leggi religiose (luogo di culto, sacrifici, idolatria, decime, anno sabbatico, feste: Dt 12-16); figure giuridiche (giudici, leviti, re, profeti: Dt 17-18); codice civile e penale (Dt 19-25). Il codice legale, propriamente, finisce al capitolo 26; nei due capitoli seguenti vi è una serie di benedizioni e di maledizioni, conseguenti al rispetto o alla trasgressione delle norme costitutive del patto.

-     Aggiunte diverse (Dt 29-34). I capitoli 29-30 sconfinano nella profezia, infatti annunciano un nuovo patto, stabilito “oggi”, quindi non una semplice ripresa di quello antico, sancito con i padri, ma attualmente, con tutti quelli che oggi sono in vita. Segue il racconto degli ultimi gesti di Mosè, prima di morire sul monte Nebo: la scelta del successore, un cantico, ancora delle benedizioni, ma non più nell’ottica del patto, bensì in quella del testamento patriarcale. Mosè vi compare non solo come il più grande dei profeti, ma anche come il fondatore di Israele.

 

Sotto forma di contratto

Paralleli extrabiblici, non solo quelli hittiti del II millennio, ma anche dell’epoca assira, e quindi contemporanei del Deuteronomio, mettono in evidenza una struttura abbastanza costante, di sei o sette elementi che costituiscono una berit, ossia il contratto politico tra un signore e il suo vassallo.

 

-     Titolo, in cui si presentano il nome e gli attributi del signore, sottolineando la sua iniziativa sovrana nel contrarre il patto: “Io sono N., il grande re, signore della terra di...”

-      Prologo storico, in cui si enumerano tutti i benefici passati del sovrano nei confronti del suo servo, fra i quali si ricorda soprattutto il dono di una terra o di una provincia da amministrare. “Una speciale caratteristica di questa sezione è la forma di allocuzione 'Io - Tu’”[6].

-      Comando principale o “dichiarazione di base”, che consiste nel divieto imposto al vassallo di contrarre altri patti con altri signori.

-      Stipulazioni secondarie, che precisano gli obblighi del vassallo nei confronti del sovrano e nei confronti della terra da amministrare.

-      Invocazione di testimoni, che nei trattati extrabiblici generalmente sono gli dèi delle rispettive nazioni.

Benedizioni e maledizioni, con cui si giura fedeltà al patto: chi lo rispetta viene benedetto, chi lo infrange dovrà subirne tutte le conseguenze.

-      Clausole finali, concernenti la preservazione del documento scritto del patto, e la sua lettura pubblica periodica.

 

Già lo stesso decalogo riproduce, almeno in parte, questa struttura contrattuale e si può considerare come il primo “documento del patto” tra Dio e Israele. Abbiamo, infatti, un titolo: “Io sono il Signore tuo Dio”, che afferma la relazione esclusiva tra Dio e il popolo da lui scelto. Segue un prologo storico: “che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto”, nel quale si ricorda il più grande beneficio reso dal Signore al suo popolo: la liberazione dalla schiavitù. Infine vengono delle stipulazioni, appunto quelli che chiamiamo i dieci comandamenti, fra cui si può facilmente isolare il primo come il comandamento principale: “Non avrai altri dèi accanto a me”. Ora, non per caso il decalogo di Esodo 20 viene riprodotto quasi identico in Dt 5 e costituisce la base delle riflessioni teologiche di questo libro. Ma molti altri indizi permettono di pensare che il Deuteronomio ha consapevolmente riprodotto lo schema contrattuale del patto, fino a rifletterlo nella sua stessa composizione letteraria. Questa sarà precisata nel corso del commento: qui indico solamente alcuni motivi che la richiamano.

 

-     Nel Deuteronomio, il Signore non è mai nominato da solo, ma è sempre “il tuo Dio” o “il vostro Dio”. Il titolo che lo individua come il Dio di Israele è costantemente ribadito, a differenza degli altri libri della Torà. Il titolo del documento del patto (“Io sono il Signore tuo Dio”) è diventato nel Deuteronomio l’attributo costante di Jhwh, quasi una formula di reciproca appartenenza.

-     Data l’adorazione esclusiva di Jhwh, Dio di Israele, dallo schema contrattuale del Deuteronomio è esclusa la presenza di altri dèi, dunque anche la loro invocazione come testimoni. Ma si ricorre a dei sostituti simbolici, per esempio le steli di testimonianza (cf. Dt 27,1-8) e soprattutto la formula: “Io chiamo oggi a testimoni il cielo e la terra” (Dt 4,26; 30,19; 31,28).

-     Tra le clausole del patto, va annoverato l’affidamento del documento che lo ratifica ai leviti, i quali dovranno custodirlo presso l’arca, chiamata anche “arca del patto” (aron ha-berit) per leggerlo periodicamente al popolo ogni sette anni, in occasione della festa autunnale delle Capanne (cf. Dt 31,9-13.24-26).

 

Ora, questo schema contrattuale di matrice politica, secolare, che cosa viene a dire sul piano propriamente teologico? È precisamente quanto il Deuteronomio cercherà di “spiegarci” (be’er: Dt 1,5), e non cesserà di ripeterci in corso d’opera. Qui osservo soltanto che l’utilizzazione teologica di una categoria politica non va certo assunta in maniera meccanica, ma non è per nulla casuale o superficiale. In altre parole, non si tratta di un paragone soltanto formale, ma ha una precisa implicazione strutturale. Non è in gioco solamente una qualche analogia di dettagli, ma ha come senso ultimo una relazione esclusiva, in definitiva monoteistica. Questa coordinazione strutturale, per cui tutti gli elementi dello schema contrattuale sono interconnessi, in modo che se uno di essi venisse a mancare tutto l’insieme si modificherebbe, è stata ben sottolineata da Paul Beauchamp:

 

La sequenza titolo-prologo storico è comandata dall’interno: il passato è qualificato come un beneficio per suscitare la riconoscenza, che non è possibile se non sa a chi deve risalire. La sequenza beneficio-obbligazione ci dice che un imperativo non può porsi senza base: si appoggia sull’indicativo che stabilisce una qualità e degli atti. Tra l’obbligo di base e le stipulazioni si stabilisce il rapporto fra l’uno e il molteplice: gerarchicamente, la massa dei precetti è come sospesa all’obbligo invisibile, quasi tautologico, di rimanere nel patto, ed essa cade, senza di questo ... Il testo del patto comincia con il passato del prologo storico. Siccome vi è stato un passato di benefici, può ancora esserci un avvenire di benedizione: non come un dato garantito, perché tutto dipende dal presente, ma come una nuova attualizzazione dell’origine[7].

 

Il prestito politico non deve quindi fuorviarci. Non si tratta di una relazione di pura obbedienza o sottomissione al potere. Al contrario, il condensato di questa relazione si esprime in una formula che un tempo si chiamava di “alleanza”, anche se ora si preferisce chiamare di “reciproca appartenenza” (“Io sono tuo” e “Tu sei mio”). Il Deuteronomio ci insegna che lo schema del patto indica finalmente una relazione di appartenenza reciproca e questa “relazione di appartenenza si situa a un livello più profondo che la semplice obbedienza”[8]. Quindi, la lunga diatriba ebraico-cristiana che contrappone politica e mistica, obbedienza a una legge e giustificazione per fede, va per lo meno ridimensionata. Tant’è vero che dopo i Salmi (107 volte) e dopo Isaia (104 volte), anche il Deuteronomio (55 volte) è il libro biblico massimamente attualizzato nel Nuovo Testamento (analoga proporzione a Qumran: di tutta la Torà, è il libro più citato). Del resto, i profeti faranno ricorso, per esprimere la nozione di alleanza, alla stessa metafora nuziale o parentale, che ha un valore anche emozionale e non solo politico. Ma il significato teologico di un patto con Dio si chiarisce definitivamente con la riflessione profetica del nostro libro.



[1] Aristotele, Poetica 7,2, in Id., Dell’arte poetica, a cura di C. Gallavotti, Milano 1974, P- 27.

[2] B. Spinoza, Trattato teologico-politico 8,125, a cura di A. Dini, Milano 1999, p. 347. L’intuizione spinoziana di un racconto continuo da Genesi a Re viene ora riproposta, tra gli altri, da P. Sacchi, “Il più antico storico d’Israele: un’ipotesi di lavoro”, in Aa.Vv., Le origini d’sraele, Roma 1987, pp. 65-86.

[3] J.-P. Sonnet, “Le livre trouvé. 2Rois 22 dans sa finalité narrative”, in Nouvelle Revue Théologique 116/6 (1994), pp. 836-861, si interroga su questo capitolo, così utilizzato in sede storica, anche dal punto di vista narrativo.

[4] Cf. E. Cortese, Le tradizioni storiche d’Israele. Da Mosè a Esdra, Bologna 2001, p.

152.

[5] W. Brueggemann, Introduzione all’Antico Testamento, Torino 2005, pp. 101-102. Anche se nel corpo del Tetrateuco (Genesi-Numeri) esistono frammenti di tradizioni presacerdotali, questi sono stati integrati in un racconto teologico sacerdotale.

[6] G. E. Mendenhall, “Le forme del patto nella tradizione israelita”, in D. J. Mc- Carthy, G. E. Mendenhall, R. Smend, Per una teologia del patto nell'Antico Testamento, Genova 1972, p. 84.

[7] P. Beauchamp, “Proposition sur l’Alliance de l’Ancien Testament comme structure centrale”, in Id., Pages exégétiques, Paris 2005, p. 60.

[8] Ibid., p. 68.

------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Ritorno al testo del "Deuteronomio"

----------------------------------------------------------------------------------------------------------

Ritorno alla Bibbia