IL TESTAMENTO DI MOSÈ
Alberto Mello
Estratto da “Ricorda e cammina - Deuteronomio, una rilettura profetica”
Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose 2019
“Queste sono le parole”: non è solo
il titolo di un libro, ma l’incipit di un’opera, perché “queste parole” di Mosè
sono perfettamente contestualizzate geograficamente (“al di là del Giordano, nel
deserto, nell’Aravà, di fronte al mare dei Giunchi”) e non sfugge che il
narratore, dicendo “al di là del Giordano” si situa involontariamente già al di
qua, dove Mosè non è mai arrivato: quindi il narratore non è Mosè, anche se il
suo discorso sarà in prima persona.
Soprattutto, sono esplicitamente
datate “al quarantesimo anno (dall’uscita dall’Egitto), l’undicesimo mese, il
primo giorno del mese”. Tutto il libro del Deuteronomio si svolge in un unico
giorno, alle soglie della terra promessa, proprio alla vigilia della morte di
Mosè. Il Deuteronomio è il testamento di Mosè, e per testamento dobbiamo
intendere le sue ultime volontà, quelle che riassumono il significato di tutta
una vita.
Aristotele, nella sua
Poetica (quasi tutte le intuizioni
dell’analisi narrativa sono già presenti in questo trattato di retorica antica),
definisce così l’inizio di un’opera letteraria: “Principio è ciò che per se
stesso non viene necessariamente dopo altro, mentre dopo di lui si dà
naturalmente che sia o avvenga un’altra cosa”[1].
L’inizio del
Deuteronomio si qualifica espressamente come tale, perché non è determinato da
un antecedente per la sua comprensione. Se consideriamo i libri anteriori, non
sono dotati di un inizio in senso proprio: “Questi i nomi dei figli di Israele
entrati in Egitto” (Es 1,1) non si capirebbe se non ci fosse già stato un
antefatto, ossia la discesa in Egitto; “E chiamò Mosè” (Lv 1,1) senza neppure
indicazione esplicita del soggetto, continua un discorso già iniziato; “Il
Signore parlò a Mosè, nel deserto del Sinai, il primo giorno del secondo mese,
il secondo anno dalla loro uscita dalla terra d’Egitto” (Nm 1,1) segna già una
cesura maggiore, dal punto di vista narrativo, ma non ancora così originale come
un discorso tutto concentrato in un solo giorno.
In pratica, dopo il solenne inizio
della Genesi (“Quando Dio cominciò a creare il cielo e la terra”), solo con il
Deuteronomio siamo alle prese con un altro inizio assoluto, che comporta anche
una diversità di autore letterario o di narratore. Tant’è vero che la divisione
della Torà in cinque libri o “astucci” (Pentateuco) è secondaria, operata per
motivi pratici di lettura, ma il cosiddetto Tetrateuco (da Genesi a Numeri) era
probabilmente un’opera continua, che si leggeva tutta di seguito. Fino al
Deuteronomio, che è un’opera completamente diversa, per stile e contenuto, e che
narrativamente segna un nuovo inizio.
Questa singolarità del Deuteronomio
è stata sempre notata, e in effetti è la prima delle quattro fonti del
Pentateuco che sia stata identificata dall’esegesi storico-critica. Nel 1805
Wilhelm Martin Leberecht De Wette, pubblicò una “dissertazione critico-esegetica
in cui si dimostra che il Deuteronomio è diverso dai libri precedenti del
Pentateuco ed è opera di un altro autore più recente”, cioè non è attribuibile a
Mosè. Sempre il De Wette è stato anche il primo a mettere in relazione il codice
deuteronomico con il “libro della legge” ritrovato nel tempio dai sacerdoti di
Gerusalemme che sarà alla base della riforma di Giosia (2Re 22-23). Per la sua
impronta teologica, il Deuteronomio riflette una provenienza settentrionale
(levitica o profetica), quindi anteriore alla scomparsa del regno di Israele, ma
sarebbe stato “pubblicato” a Gerusalemme intorno al 621, un secolo più tardi, e
quindi “recepito” o riconosciuto come dotato di una sua autorità canonica.
Possiamo dire che il codice deuteronomico (in sostanza Dt 12-28, senza le
cornici omiletiche e narrative) è un’opera da situare tra la fine dell’VIII
secolo e la fine del VII. Perciò il nostro libro è il documento del Pentateuco
più facilmente isolabile (mentre le altre fonti del Tetrateuco, sacerdotali o
presacerdotali, sono intrecciate tra di loro o sovrapposte, in modi che non è
sempre facile distinguere) e anche più sicuramente databile. Questa scoperta
diventerà una sorta di “punto di Archimede” per l’individuazione anche delle
altre fonti, che possono essere anteriori o posteriori al Deuteronomio, in
particolare per quanto riguarda i luoghi di culto, che il Deuteronomio per primo
centralizza a Gerusalemme.
Abbiamo considerato l’inizio del
libro, adesso consideriamo anche la fine, perché la storia non finisce con la
morte di Mosè (Dt 34), ma conosce un seguito subito dopo, con l’incipit del
libro di Giosuè che vi rimanda: “Dopo la morte di Mosè” (Gs 1,1). Quindi abbiamo
un inizio che però rimanda a un antecedente, e questo procedimento non è isolato
ma si ripete a catena: “Dopo la morte di Giosuè” (Gdc 1,1); “Dopo la morte di
Saul” (2Sam 1,1); “Dopo la morte di Achab” (2Re 1,1). In pratica tutti i libri
seguenti (Giosuè, Giudici, Samuele e Re) si collegano narrativamente al
Deuteronomio e ne riflettono anche l’ideologia. Questa scoperta è stata fatta
per la prima volta dal pioniere dell’esegesi storico-critica, l’ebreo olandese
Baruch Spinoza, sul finire del Seicento: “Se ora facciamo attenzione alla
connessione e all’argomento di tutti questi libri, facilmente trarremo la
conclusione che furono scritti tutti da un solo e medesimo storico, il quale
volle narrare le antichità dei giudei dalla loro prima origine fino alla prima
distruzione della città”
[2].
Perciò il Deuteronomio si presta a
due diverse letture possibili: o come l’ultimo libro del Pentateuco o come il
primo libro di un’altra opera storica, che va dall’ingresso nella terra di
Canaan, la sua parziale conquista, l’istituzione della monarchia, la storia dei
due regni divisi fino alla distruzione di Gerusalemme e l’esilio babilonese.
Quest’altra opera storica, in seguito agli studi di Martin Noth, è stata
soprannominata “deuteronomistica”, proprio in ragione dell’influsso che la
teologia del Deuteronomio ha esercitato sulla sua concezione teorica come una
storia di benedizione o di maledizione realizzate dall’obbedienza o dalla
trasgressione del patto con Dio. Tuttavia non affrontiamo qui l’opera
deuteronomistica, ci basti considerare il Deuteronomio come un libro della Torà,
anzi come una “seconda” Torà.
Una seconda Torà
“Deuteronomio”, in greco, significa
proprio questo: “Seconda legge”. L’origine di questo titolo è apparentemente
accidentale. Deriva dal passo di Dt 17,18 dove si dice che anche il re è
soggetto alla legge, e per tale motivo, accedendo al trono, dovrà procurarsi,
scrivendola su un documento (sefer), una “copia di questa legge” (mishnè ha-torà ha-zo't), ossia ricopiarsi questo libro a suo
uso personale. Questa “copia” a uso del re è diventata il titolo dell’intero
libro, non solo in greco, ma anche in ebraico:
Mishnè Torà, perché questa espressione può
anche significare “ripetizione” della legge, o di un codice legale precedente.
Questa è un’esatta definizione del codice deuteronomico, che di fatto ripropone
o riattualizza il codice dell’alleanza di Esodo 20-23, a cominciare dal
decalogo. E lo riattualizza profeticamente, non solo adeguando la legislazione
antica a circostanze giuridiche ulteriori, ma spiegandone il senso teologico.
Il nostro libro si compone, infatti,
di un codice legale (Dt 12-28), ma inquadrato in un contesto predicativo, di
riflessione storico-teologica (Dt 1-11; 29-34) che ne dichiara tutta
l’importanza, fino a postulare un rinnovamento dell’alleanza, “nella terra di
Moab, oltre l’alleanza” del Sinai (che questo libro chiama sempre Horeb: Dt
28,69). Il titolo di “Seconda legge” è dunque pertinente e suggestivo: indica
che l’ultimo libro della Torà è in qualche modo una “replica”, una ripresa, una
sintesi teologicamente più matura dei codici legali contenuti nei libri
precedenti. Si tratta, quindi, anche di un’altra legge, di una “legge predicata”
(Gerhard Von Rad) o di una riflessione teologica sulla legge: secondo la
definizione appropriata di Paolo De Benedetti, di “una legge mediata dalla
profezia”.
Stilisticamente, il Deuteronomio è
uno dei libri più omogenei, più coerenti, di tutta la Bibbia ebraica. Presenta
uno stile proprio, altamente teologico, con ripetizioni caratteristiche a cui
ogni lettore si abitua facilmente. Da tempo gli studiosi riconoscono la presenza
di questo stile teologico anche in altri libri della Bibbia, non soltanto in
quella che abbiamo chiamato “opera storica deuteronomistica”, da Giosuè a Re, ma
anche nella redazione finale del libro di Geremia e, oggi, probabilmente anche
in quegli stessi racconti del Pentateuco che un tempo si attribuivano ad altre
fonti presacerdotali, in particolare alla fonte cosiddetta elohista. Tuttavia,
proprio in ragione di questa sua estensione, è difficile attribuire questo stile
a un unico autore. Si deve piuttosto ammettere l’esistenza di una “scuola
deuteronomica” attiva per almeno tre o quattro secoli, dalle sue origini
settentrionali fino al tempo dell’esilio. Perciò la storia editoriale di questo
libro, e della letteratura che ne dipende, si presenta come piuttosto complessa.
Qui mi limito a indicare qualche tappa sommaria, e per di più ipotetica.
- Il Deuteronomio può aver avuto
origine nella celebrazione levitica del patto tra Dio e Israele in un santuario
del nord, probabilmente Sichem, visto che nel capitolo 27 sono nominati i monti
Ebal e Garizim, che circondano questa città, come i monti su cui vengono
pronunciate le maledizioni e le benedizioni. A questa attualizzazione del patto
con Dio si rifà, sostanzialmente, il codice deuteronomico (capitoli 12-28), che
è la parte centrale del libro.
- Nell’imminenza
della conquista assira del regno del nord, nel 722, i documenti settentrionali
passano al sud, da Samaria a Gerusalemme. Un secolo più tardi il codice
deuteronomico diventa la base della riforma religiosa di Giosia, essendo, con
ogni probabilità, il “libro della legge” rinvenuto dai sacerdoti nel tempio (2Re
22,3-13)
[3] che ne ispirerà il programma, in
particolare per quanto riguarda la centralizzazione di tutti i luoghi di culto
nel tempio di Gerusalemme. Ma, emigrando a Gerusalemme, anche il Deuteronomio si
arricchisce, integrando nella sua “teologia del patto” elementi teologici di
provenienza regale, come quello dell’elezione, e quindi di una più accentuata
gratuità dell’amore di Dio, che formano il nucleo della riflessione teologica
dei capitoli da 5 a 11.
- Con l’esilio, nel VI secolo,
la teologia deuteronomica diventa l’ispiratrice di un vasto affresco storico,
che va dall’insediamento nella terra fino all’espulsione da essa. Probabilmente,
è proprio l’esilio dalla terra che obbliga a questo ripensamento circa le
condizioni per recuperarne il possesso. A quest’epoca, dunque, risalgono i
capitoli “storici” da 1 a 4 e da 29 a 30: essi costituiscono una sorta di
raccordo con l’opera storica cosiddetta deuteronomistica proprio per il suo
stile e la sua parentela teologica con il Deuteronomio. Una storia del possesso
della terra è anche una storia politica: descrive la conquista militare, il
sorgere di una guida politica carismatica, poi l’istituzionalizzazione di una
monarchia dinastica e infine il suo declino. Questa storia finisce (cf. 2Re 25)
nell’“anno trentasette del re Jojaqin”, che è l’ultimo re di Giuda (562), e
un’opera storica è databile dall’ultimo evento narrato. Jojaqin è in esilio, è
un re vassallo, ma ha ancora il titolo di re (e gli anni si contano ancora in
base al suo regno). La monarchia non è ancora scomparsa del tutto, la “lampada”
del Messia è ancora accesa. Quest’opera finisce con il tenue barlume di una
speranza che non si può dire ancora messianica, ma tiene in vita una possibile
restaurazione nazionale.
- Dopo l’esilio, però, risulta
impossibile ripristinare il regno davidico: Zorobabele, l’ultimo davidide
pretendente al trono, è un governatore persiano, che gli stessi persiani vedono
di malocchio, favorendo l’aristocrazia sacerdotale. Una volta che i sacerdoti
prendono il potere, si scrive un’altra storia. Alle tradizioni storiche antiche,
che coprono gli attuali libri della Genesi, dell’Esodo e dei Numeri, si
riconduce anzitutto tutta la legislazione sacerdotale (da Es 25 a Nm 10,
comprendendo l’intero libro del Levitico). Si ricostruisce l’intero ciclo
fondatore: creazione, patriarchi, esodo, deserto. Il Deuteronomio riceve alcune
aggiunte finali riguardanti la morte di Mosè (Dt 31-34). In questo modo si
costituisce un altro arco narrativo, che va dalla nascita alla morte di Mosè. La
funzione del libro è sensibilmente modificata: non è più un’introduzione
ideologica alla storia successiva, ma diventa la conclusione teologica della
storia antica di Israele, prima dell’ingresso nella terra. In altri termini, il
Deuteronomio viene scorporato dall’opera deuteronomistica e diventa il quinto e
ultimo “astuccio” (questo il significato del greco
teûchos) del Pentateuco mosaico.
Sulla base di questa ricostruzione
delle vicende editoriali del nostro libro, gli esegeti suppongono almeno due
redazioni del Deuteronomio (e dei libri storici che vi si ispirano): Enzo
Cortese qualifica la prima redazione come “giosiana” e promonarchica, e la
seconda come esilica e antimonarchica[4].
Altri parlano
più
semplicemente di un Deuteronomio pregeremiaco e di un Deuteronomio
postgeremiaco: vedi, in particolare, il tema della retribuzione individuale,
dove non si può sapere con certezza se è il Deuteronomio a dipendere da Geremia,
o viceversa (cf. Dt 7,10; 24,18 con Ger 31,29-30). In ogni caso, questo libro è
tutto giocato su una sottile finzione narrativa. Il suo tempo reale, il suo
“oggi” (ha-jom, parola costantemente ripetuta), è
quello dell’esilio, ma il suo tempo fittizio, immaginario, è quello di Mosè.
Perciò il Deuteronomio prevede come futuri eventi già passati, a cominciare
dall’ingresso nella terra di Canaan. Più precisamente, esso immagina come futuro
il dono della terra, quando in realtà Israele non solo l’ha già ricevuto, ma
l’ha già anche perduto con l’esilio. In questo modo, la Torà deuteronomica
sconfina nella profezia: rilancia la speranza di un ritorno nella terra, come se
fosse la prima volta.
Teologia del patto
È di importanza decisiva riconoscere
che nel libro del Deuteronomio abbiamo la voce di una tradizione in totale
contrasto con la voce sacerdotale, che si è rivolta a noi finora nel Pentateuco.
Di conseguenza, i primi cinque libri della Bibbia, la Torà, sono costituiti da
due unità letterarie distinte: Genesi-Numeri come voce della tradizione
sacerdotale e il Deuteronomio come voce della tradizione deuteronomista[5].
Possiamo dire che, mentre la preoccupazione teologica sacerdotale è la presenza
di Dio in mezzo al suo popolo, che si realizza mediante il culto sacrificale,
quella deuteronomista è il patto di Dio con il suo popolo, che si traduce in una
legge orientata in senso politico-sociale.
In poche parole, la scuola
deuteronomista è la più tipica espressione di una “teologia del patto”
nell’Antico Testamento, a tal punto che questa si riflette nella sua stessa
composizione letteraria. Abbiamo parlato dell’incipit del nostro libro, che ha
un carattere assoluto rispetto a quanto precede. Ma in realtà gli incipit del
nostro libro sono più di uno, anzi sono quattro, e hanno tutti una precisa
funzione anche dal punto di vista strutturale:
Dt 1, 1: “Queste sono le parole che
Mosè rivolse a tutto Israele”.
Dt 4,44: “Questa è la legge che Mosè
espose ai figli di Israele”.
Dt
12,1: “Queste sono le leggi e le norme
che osserverete nella terra”.
Dt 28,69: “Queste sono le parole
dell’alleanza che il Signore ha ordinato a Mosè di sancire con i figli di
Israele nella terra di Moab”.
In base a questi quattro inizi,
tutti in posizione strategica, il libro si lascia facilmente suddividere in
quattro parti, grosso modo corrispondenti a Dt 1-4;
5-11; 12-28 e 29-34. Infatti le parti così
individuate presentano caratteristiche diverse, molto chiaramente delineate.
Eviterei, però, di parlare di un primo, secondo, o terzo “discorso” di Mosè. In
realtà il discorso di Mosè è uno solo, che ha luogo in un solo giorno, come
abbiamo già detto. Le quattro parti del libro rispondono a un’altra logica, che
è la logica del patto o dell’alleanza. Iniziamo da questo chiarimento
linguistico: si deve dire “patto” o “alleanza”? Nel vocabolario della lingua
italiana, i due termini sono sinonimi. Con questa differenza, però, che
“alleanza” è un patto tra due o più contraenti in vista di un fine comune,
mentre “patto” è più vicino a un impegno reciproco tra due contraenti, con
diritti e doveri codificati. Alleanza, quindi, ha un carattere meno giuridico,
più finalizzato a un obiettivo da raggiungere, per esempio la promessa di una
terra. Patto, invece, ha più a che fare con un trattato politico, per esempio è
normativo degli impegni tra un re e il suo vassallo.
A proposito dell’autore sacerdotale,
ho già precisato che il termine ebraico
berit vale di solito come impegno o
obbligo che un superiore si assume nei confronti di un inferiore, quindi è
sinonimo di “promessa” o “giuramento”: perciò lo tradurrei con “alleanza”
(“testamento”, in base al latino, anche se in italiano vuol dire altra cosa).
Per quanto riguarda il Deuteronomio, invece, preferisco rendere
berit con “patto”, primo perché il
Deuteronomio lo enfatizza in modo particolare (vi ricorre venticinque volte),
secondo perché il suo uso linguistico, come adesso vedremo, è strettamente
dipendente dalla categoria politica dei trattati. La differenza è anche di
destinatario, perché l’autore sacerdotale riserva il termine quasi soltanto
all’alleanza patriarcale, mentre per quello deuteronomico il patto non è altro
che quello sinaitico, eventualmente rinnovato in Moab, ma sempre con tutto
Israele. Fatta questa premessa, cerchiamo di descrivere sommariamente le quattro
parti in cui si articola il libro.
-
Prologo storico (Dt 1-4), che
traccia l’itinerario dei figli di Israele dal monte Sinai fino alle steppe di
Moab, riassumendo le indicazioni topografiche che si trovavano già nel libro dei
Numeri. Una considerazione si impone: queste indicazioni sarebbero del tutto
superflue se il Deuteronomio fosse una semplice continuazione del racconto
precedente. Diventano indispensabili, invece, se introducono un’opera nuova.
Vedremo, infatti, che il Deuteronomio introduce un nuovo inizio anche per la
storia di Israele come popolo: non più l’uscita dall’Egitto ma il patto
sinaitico stipulato sull’Horeb.
-
Predicazione teologica (Dt
5-11) sui temi fondamentali del patto tra
Dio e Israele, a partire dal documento originario del decalogo, concentrandosi
sull’adorazione esclusiva del Signore
(Jhwh
echad) e sulla corrispettiva elezione di
Israele come sua proprietà privata
(segullà). Questa è la parte più impegnativa
del Deuteronomio, quella che più ne qualifica gli autori, leviti o profeti di
origine settentrionale, come “teologi” nel senso proprio e consapevole del
termine, e ne caratterizza l’opera come il “cuore” non solo del libro omonimo, e
neppure soltanto della Torà, ma probabilmente di tutto l’Antico Testamento.
-
Codice del patto (Dt 12-28), che
costituisce il nucleo centrale e forse più antico della legislazione
deuteronomica, e si divide in tre parti: leggi religiose (luogo di culto,
sacrifici, idolatria, decime, anno sabbatico, feste: Dt
12-16); figure giuridiche (giudici, leviti,
re, profeti: Dt
17-18); codice civile e penale (Dt 19-25).
Il codice legale, propriamente, finisce al capitolo 26; nei due capitoli
seguenti vi è una serie di benedizioni e di maledizioni, conseguenti al rispetto
o alla trasgressione delle norme costitutive del patto.
-
Aggiunte diverse (Dt 29-34). I
capitoli 29-30 sconfinano nella profezia, infatti annunciano un nuovo patto,
stabilito “oggi”, quindi non una semplice ripresa di quello antico, sancito con
i padri, ma attualmente, con tutti quelli che oggi sono in vita. Segue il
racconto degli ultimi gesti di Mosè, prima di morire sul monte Nebo: la scelta
del successore, un cantico, ancora delle benedizioni, ma non più nell’ottica del
patto, bensì in quella del testamento patriarcale. Mosè vi compare non solo come
il più grande dei profeti, ma anche come il fondatore di Israele.
Sotto forma di contratto
Paralleli extrabiblici, non solo
quelli hittiti del II millennio, ma anche dell’epoca assira, e quindi
contemporanei del Deuteronomio, mettono in evidenza una struttura abbastanza
costante, di sei o sette elementi che costituiscono una
berit, ossia il contratto politico tra un
signore e il suo vassallo.
- Titolo,
in cui si presentano il nome e gli attributi del signore, sottolineando la sua
iniziativa sovrana nel contrarre il patto: “Io sono N., il grande re, signore
della terra
di...”
-
Prologo storico, in cui si enumerano tutti i
benefici passati del sovrano nei confronti del suo servo, fra i quali si ricorda
soprattutto il dono di una terra o di una provincia da amministrare. “Una
speciale caratteristica di questa sezione è la forma di allocuzione 'Io - Tu’”[6].
-
Comando principale o “dichiarazione di base”, che
consiste nel divieto imposto al vassallo di contrarre altri patti con altri
signori.
-
Stipulazioni secondarie, che precisano gli obblighi del
vassallo nei confronti del sovrano e nei confronti della terra da amministrare.
-
Invocazione di testimoni, che nei trattati extrabiblici
generalmente sono gli dèi delle rispettive nazioni.
-
Benedizioni e maledizioni, con cui si giura fedeltà al patto:
chi lo rispetta viene benedetto, chi lo infrange dovrà subirne tutte le
conseguenze.
-
Clausole finali, concernenti la preservazione del documento
scritto del patto, e la sua lettura pubblica periodica.
Già lo stesso decalogo riproduce, almeno in parte, questa struttura contrattuale
e si può considerare come il primo “documento del patto” tra Dio e Israele.
Abbiamo, infatti, un titolo: “Io sono il Signore tuo Dio”, che afferma la
relazione esclusiva tra Dio e il popolo da lui scelto. Segue un prologo storico:
“che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto”, nel quale si ricorda il più
grande beneficio reso dal Signore al suo popolo: la liberazione dalla schiavitù.
Infine vengono delle stipulazioni, appunto quelli che chiamiamo i dieci
comandamenti, fra cui si può facilmente isolare il primo come il comandamento
principale: “Non avrai altri dèi accanto a me”. Ora, non per caso il decalogo di
Esodo 20 viene riprodotto quasi identico in Dt 5 e costituisce la base delle
riflessioni teologiche di questo libro. Ma molti altri indizi permettono di
pensare che il Deuteronomio ha consapevolmente riprodotto lo schema contrattuale
del patto, fino a rifletterlo nella sua stessa composizione letteraria. Questa
sarà precisata nel corso del commento: qui indico solamente alcuni motivi che la
richiamano.
-
Nel Deuteronomio, il Signore non è
mai nominato da solo, ma è sempre “il tuo Dio” o “il vostro Dio”. Il titolo che
lo individua come il Dio di Israele è costantemente ribadito, a differenza degli
altri libri della Torà. Il titolo del documento del patto (“Io sono il Signore
tuo Dio”) è diventato nel Deuteronomio l’attributo costante di
Jhwh,
quasi una formula di reciproca appartenenza.
-
Data l’adorazione esclusiva di
Jhwh,
Dio di Israele, dallo schema contrattuale del Deuteronomio è esclusa la presenza
di altri dèi, dunque anche la loro invocazione come testimoni. Ma si ricorre a
dei sostituti simbolici, per esempio le steli di testimonianza (cf. Dt 27,1-8) e
soprattutto la formula: “Io chiamo oggi a testimoni il cielo e la terra” (Dt
4,26; 30,19; 31,28).
-
Tra le clausole del patto, va
annoverato l’affidamento del documento che lo ratifica ai leviti, i quali
dovranno custodirlo presso l’arca, chiamata anche “arca del patto”
(aron ha-berit)
per leggerlo periodicamente al popolo ogni sette anni, in occasione della festa
autunnale delle Capanne (cf. Dt 31,9-13.24-26).
Ora, questo schema contrattuale di matrice politica, secolare, che cosa viene a
dire sul piano propriamente teologico? È precisamente quanto il Deuteronomio
cercherà di “spiegarci”
(be’er:
Dt 1,5), e non cesserà di ripeterci in corso d’opera. Qui osservo soltanto che
l’utilizzazione teologica di una categoria politica non va certo assunta in
maniera meccanica, ma non è per nulla casuale o superficiale. In altre parole,
non si tratta di un paragone soltanto formale, ma ha una precisa implicazione
strutturale. Non è in gioco solamente una qualche analogia di dettagli, ma ha
come senso ultimo una relazione esclusiva, in definitiva monoteistica. Questa
coordinazione strutturale, per cui tutti gli elementi dello schema contrattuale
sono interconnessi, in modo che se uno di essi venisse a mancare tutto l’insieme
si modificherebbe, è stata ben sottolineata da Paul Beauchamp:
La sequenza titolo-prologo storico è comandata dall’interno: il passato è
qualificato come un beneficio per suscitare la riconoscenza, che non è possibile
se non sa a chi deve risalire. La sequenza beneficio-obbligazione ci dice che un
imperativo non può porsi senza base: si appoggia sull’indicativo che stabilisce
una qualità e degli atti. Tra l’obbligo di base e le stipulazioni si stabilisce
il rapporto fra l’uno e il molteplice: gerarchicamente, la massa dei precetti è
come sospesa all’obbligo invisibile, quasi tautologico, di rimanere nel patto,
ed essa cade, senza di questo ... Il testo del patto comincia con il passato del
prologo storico. Siccome vi è stato un passato di benefici, può ancora esserci
un avvenire di benedizione: non come un dato garantito, perché tutto dipende dal
presente, ma come una nuova attualizzazione dell’origine[7].
Il prestito politico non deve quindi fuorviarci. Non si tratta di una relazione
di pura obbedienza o sottomissione al potere. Al contrario, il condensato di
questa relazione si esprime in una formula che un tempo si chiamava di
“alleanza”, anche se ora si preferisce chiamare di “reciproca appartenenza” (“Io
sono tuo” e “Tu sei mio”). Il Deuteronomio ci insegna che lo schema del patto
indica finalmente una relazione di appartenenza reciproca e questa “relazione di
appartenenza si situa a un livello più profondo che la semplice obbedienza”[8].
Quindi, la lunga diatriba ebraico-cristiana che contrappone politica e mistica,
obbedienza a una legge e giustificazione per fede, va per lo meno
ridimensionata. Tant’è vero che dopo i Salmi (107 volte) e dopo Isaia (104
volte), anche il Deuteronomio (55 volte) è il libro biblico massimamente
attualizzato nel Nuovo Testamento (analoga proporzione a Qumran: di tutta la
Torà, è il libro più citato). Del resto, i profeti faranno ricorso, per
esprimere la nozione di alleanza, alla stessa metafora nuziale o parentale, che
ha un valore anche emozionale e non solo politico. Ma il significato teologico
di un patto con Dio si chiarisce definitivamente con la riflessione profetica
del nostro libro.
[1] Aristotele,
Poetica 7,2, in Id.,
Dell’arte poetica, a cura di
C. Gallavotti, Milano
1974, P- 27.
[2] B. Spinoza,
Trattato teologico-politico
8,125, a cura di A. Dini, Milano 1999, p. 347. L’intuizione spinoziana
di un racconto continuo da Genesi a Re viene ora riproposta, tra gli
altri, da P. Sacchi, “Il più antico storico d’Israele: un’ipotesi di
lavoro”, in
Aa.Vv.,
Le origini d’sraele,
Roma 1987, pp. 65-86.
[3] J.-P. Sonnet, “Le livre trouvé.
2Rois 22 dans sa finalité narrative”, in Nouvelle Revue Théologique
116/6 (1994), pp. 836-861, si interroga su questo capitolo, così
utilizzato in sede storica, anche dal punto di vista narrativo.
[4] Cf. E. Cortese,
Le tradizioni
storiche d’Israele. Da Mosè a Esdra,
Bologna 2001, p.
152.
[5] W. Brueggemann,
Introduzione all’Antico Testamento,
Torino 2005, pp. 101-102. Anche se nel corpo del Tetrateuco
(Genesi-Numeri) esistono frammenti di tradizioni presacerdotali, questi
sono stati integrati in un racconto teologico sacerdotale.
[6] G. E. Mendenhall, “Le forme del
patto nella tradizione israelita”, in D. J. Mc- Carthy, G. E.
Mendenhall, R. Smend,
Per una teologia del patto
nell'Antico Testamento,
Genova 1972, p. 84.
[7] P.
Beauchamp, “Proposition sur l’Alliance de l’Ancien Testament comme
structure centrale”, in Id.,
Pages exégétiques, Paris
2005, p. 60.
[8]
Ibid.,
p. 68.
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