ANTICO TESTAMENTO

Bruno Maggioni

Estratto da “Perché abbiamo visto parliamo” – PIMEdit 2001


 

Tutti stranieri,
tutti amati da Dio

Salmo 87 (86)

1 Dei figli di Core. Salmo. Canto. Le sue fondamenta sono sui monti santi;

2 il Signore ama le porte di Sion più di tutte le dimore di Giacobbe.

3 Di te si dicono cose stupende, città di Dio.

4Ricorderò Raab e Babilonia fra quelli che mi conoscono; ecco, Palestina, Tiro ed Etiopia: tutti là sono nati.

5 Si dirà di Sion: «L'uno e l'altro è nato in essa e l'Altissimo la tiene salda».

6 Il Signore scriverà nel libro dei popoli: «Là costui è nato».

7 E danzando canteranno: «Sono in te tutte le mie sorgenti».

 

Ci sono cristiani ancora oggi che pensano che l’universalismo sia una visione soltanto neotestamentaria. In realtà ci sono vistose aperture universalistiche già nell’Antico Testamento. Per esempio nel salmo 87, che probabilmente risale al periodo ellenistico. Si tratta di un canto a Gerusalemme, la città di Dio, madre di tutti i popoli. Il salmo inizia così: “Il Signore ama le porte di Gerusalemme... di te si dicono cose stupende, città di Dio”. Potrebbe sembrare un canto nazionalistico, uno di quei canti che dividono il mondo in due: i cittadini (i nostri) e gli stranieri (gli altri). E invece il salmista vede nella città di Dio il punto dell’incontro, tanto da poter dire: “Ecco, Palestina, Tiro ed Etiopia, tutti là sono nati... l’uno e l’altro è nato in essa. Il Signore scriverà nel libro dei popoli: là costui è nato”.

Un sogno che, però, non deve rimanere sogno, ma farsi realtà, farsi visibile nei comportamenti del popolo di Dio. Israele lo ha tentato, cercando addirittura di tradurlo in norme legislative. Nel codice dell’Alleanza - un’ampia raccolta di leggi che risalgono, almeno in parte, ai primi tempi dell’installazione di Israele in Palestina - si legge: “Non molesterai il forestiero né l’opprimerai, perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto” (Es 22, 21). Ancor più concreto il codice di Santità, che probabilmente risale al VI secolo avanti Cristo: qui si trovano direttive che invitano a lasciare nel campo parte del frutto per gli stranieri di passaggio e per i poveri nullatenenti. Si legge in Lev 19, 9-10: “Quando mieterete la messe della vostra terra, non mieterete fino ai margini del campo, né raccoglierete ciò che resta da spigolare della messe; ... quanto alla tua vigna, non coglierai i racimoli e non raccoglierai gli acini caduti; li lascerai per il povero e per il forestiero, lo sono il Signore, vostro Dio”. Nello stesso libro ci sono addirittura forti richiami che obbligano a proteggere lo straniero e a non discriminarlo: “Lo straniero che dimora in mezzo a voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi” (19, 33-34). Sembra un’applicazione concreta del salmo. E quando si insiste sull’obbligo di pagare un salario giusto e sollecito, si raccomanda di non fare distinzione fra un operaio di Israele e un operaio straniero (19, 10). Ci deve essere, in definitiva, un’unica legge per il nativo e per l’immigrato: “Vi sarà una sola legge per il nativo e per il forestiero, che è domiciliato in mezzo a voi”.

Non si faticherebbe a trovare nell’Antico Testamento altri passi altrettanto espliciti. Per esempio anche il passo che parla del giubileo (Lev 25), in cui si afferma che la terra è di Dio e, dunque, per tutti. Ma ciò che più mi interessa è la motivazione di queste affermazioni: “Perché anche voi foste stranieri in terra d’Egitto”. È una motivazione teologica. Non si tratta, infatti, di un semplice ricordo della propria schiavitù in terra d’Egitto, come se si dicesse: hai provato che cosa significa vivere da straniero senza diritti, hai visto come si sta male, ricordatene. È molto di più: un rinvio a ciò che Dio ha fatto e Israele ha sperimentato. Eri straniero e Dio si è accorto di te, è intervenuto e ti ha liberato. Hai dunque visto come Dio si comporta con gli stranieri: fai altrettanto. La conclusione è che l’accoglienza dello straniero non è altro che il concreto prolungamento dell’amore di Dio per ogni uomo. È così, e solo così, che il popolo di Dio diventa veramente di Dio: un popolo, cioè, che ridisegna una convivenza in cui Dio può mostrare il suo volto: “Il Signore nostro Dio non usa parzialità, ama il forestiero e gli dà pane e vestito: amate dunque il forestiero” (Dt 10, 17-19).

Ho già detto che Gesù ha fatto suo il sogno del salmista. In realtà ha anche fatto molto di più, addirittura identificandosi con lo straniero: “Ero straniero e mi avete ospitato” (Mt 25, 35). Non tutti gli uomini possono dire di essere nati a Gerusalemme, tutti però possono dire di essere amati da Dio e salvati da Gesù Cristo. Questo è il senso profondo dell’affermazione del salmo “tutti là sono nati”. Tutti raccolti in Cristo, tutti amati da Dio allo stesso modo: questo è ciò che importa. Questa è la radice della comune cittadinanza.

 

L'amore di Dio
e la pedagogia del perdono

 

Gen 1,1-31

1 In principio Dio creò il cielo e la terra. 2 Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque.

3 Dio disse: "Sia la luce!". E la luce fu. 4 Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre 5 e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: primo giorno.

6 Dio disse: "Sia il firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque". 7 Dio fece il firmamento e separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque, che son sopra il firmamento. E così avvenne. 8 Dio chiamò il firmamento cielo. E fu sera e fu mattina: secondo giorno.

9 Dio disse: "Le acque che sono sotto il cielo, si raccolgano in un solo luogo e appaia l'asciutto". E così avvenne. 10 Dio chiamò l'asciutto terra e la massa delle acque mare. E Dio vide che era cosa buona.

11 E Dio disse: "La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, che facciano sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo la sua specie". E così avvenne: 12 la terra produsse germogli, erbe che producono seme, ciascuna secondo la propria specie e alberi che fanno ciascuno frutto con il seme, secondo la propria specie. Dio vide che era cosa buona.  13 E fu sera e fu mattina: terzo giorno.

14 Dio disse: "Ci siano luci nel firmamento del cielo, per distinguere il giorno dalla notte; servano da segni per le stagioni, per i giorni e per gli anni 15 e servano da luci nel firmamento del cielo per illuminare la terra". E così avvenne: 16 Dio fece le due luci grandi, la luce maggiore per regolare il giorno e la luce minore per regolare la notte, e le stelle.  17 Dio le pose nel firmamento del cielo per illuminare la terra 18 e per regolare giorno e notte e per separare la luce dalle tenebre. E Dio vide che era cosa buona.  19 E fu sera e fu mattina: quarto giorno.

20 Dio disse: "Le acque brulichino di esseri viventi e uccelli volino sopra la terra, davanti al firmamento del cielo". 21 Dio creò i grandi mostri marini e tutti gli esseri viventi che guizzano e brulicano nelle acque, secondo la loro specie, e tutti gli uccelli alati secondo la loro specie. E Dio vide che era cosa buona. 22 Dio li benedisse: "Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari; gli uccelli si moltiplichino sulla terra". 23 E fu sera e fu mattina: quinto giorno.

24 Dio disse: "La terra produca esseri viventi secondo la loro specie: bestiame, rettili e bestie selvatiche secondo la loro specie". E così avvenne: 25 Dio fece le bestie selvatiche secondo la loro specie e il bestiame secondo la propria specie e tutti i rettili del suolo secondo la loro specie. E Dio vide che era cosa buona.

26 E Dio disse: "Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra". 27 Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. 28 Dio li benedisse e disse loro: "Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra". 29 Poi Dio disse: "Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo. 30 A tutte le bestie selvatiche, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde". E così avvenne. 31 Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona. E fu sera e fu mattina: sesto giorno

 

Nella concezione biblica la creazione non è la costruzione del teatro su cui si reciterà poi la storia di Dio e dell’uomo, ma è il primo gesto di questa storia: gesto primo e fondamentale, archetipo e paradigma di tutti gli altri. Il racconto della creazione si trova all’inizio dell’intera Bibbia, non semplicemente in forza di un’esigenza che possiamo dire cronologica, ma in forza di una vera e propria esigenza teologica. Ecco perché il verbo “creare” (bara) - riferito in esclusiva a Dio - e usato per tutti i grandi gesti divini: la creazione del mondo e dell’uomo, la liberazione del popolo dall’Egitto, la creazione dei cieli nuovi e della terra nuova, la creazione nell’uomo di un cuore nuovo.

Gratuità e radicalità sono le prime caratteristiche che si scorgono nel gesto creativo di Dio. Egli ha creato tutto liberamente e per amore, soltanto per amore. E ha creato dal nulla. Una trasformazione, dunque, del tutto radicale: dal nulla all’esistenza. Invece della parola gratuità potremmo anche usare il termine novità. L’azione di Dio fa essere cose nuove. La novità è il contrassegno di tutti i gesti di Dio, dalla creazione in poi.

Ma nella creazione si scorge anche - ed è forse questa la cosa che a noi interessa maggiormente l’universalità dell’amore di Dio: un amore che abbraccia tutte le creature, mondo e umanità, e di tutte si dice che erano belle. Non esistono ambiti o cose estranee all’ammirazione di Dio. Come si vede, l’universalità è già inscritta nella creazione. Gesù è morto per tutti perché trasparenza di un amore di Dio che è per tutti. La radice dell’universalità sta proprio nella creazione. Qualsiasi gesto di Dio non può essere, alla fine, che universale. E così ogni gesto della sua Chiesa e del suo discepolo. Chiesa e discepolo devono essere i testimoni di un amore di Dio che si riversa su tutta la creazione e la salva.

Dio crea a sua immagine, come è espressamente detto dell’uomo. Immagine non dice soltanto dignità, ma anche rivelazione e appello. Ogni uomo è una struttura, già di per sé, ordinata a Dio.

La creazione è un gesto di alleanza, se vogliamo usare questa parola: un patto, un “sì” di Dio a tutte le creature e all’intera umanità. Certo bisogna prendere in seria considerazione anche la libertà dell’uomo e, quindi, il peccato, tanto grande che - dice Genesi nel racconto del diluvio - il Signore “si pentì d’aver creato l’uomo”. Nella prima pagina della Bibbia si legge che “Dio vide che ciò era buono”. Nella pagina del diluvio invece si legge che “Dio vide che la malvagità era grande e che tutti i disegni e i pensieri del cuore dell’uomo erano costantemente rivolti al male”. La Bibbia pensa soprattutto alla violenza e alla sopraffazione dell’uomo sull’uomo: “la terra era corrotta davanti a Dio e piena di violenza”. L’uomo ha rovinato ciò che Dio ha fatto. A partire dal primo peccato il male si è propagato come una valanga. E con uno spostamento: dalla rivolta contro Dio (il primo peccato) alla violenza dell’uomo sull’uomo (da Caino al diluvio). E così si legge che “Dio si pentì di aver creato l’uomo e se ne addolorò in cuor suo”. Ma subito, nella stessa pagina, “Dio si ricordò di Noè” e questo “si ricordò” imprime agli avvenimenti una svolta. E in forza di quel “si ricordò” che tutto ritorna alla vita: le acque si ritirano, riappare l’asciutto e inizia un nuovo mondo. È certamente questo l’insegnamento più importante: Dio ama il mondo ostinatamente e per sempre.

Fra le caratteristiche dell’alleanza rinnovata con Noè colpisce, anzitutto, l’universalità: e un’alleanza rivolta a tutta la terra e all’intera creazione. Ed è un’alleanza nuova, stipulata dopo che la terra fu ripiena di violenza: dunque un’alleanza di perdono e di misericordia. Dio non ama soltanto quel mondo pulito che uscì dalle sue mani. Continua ad amare questo mondo rovinato dagli uomini, questo mondo sfigurato che è il nostro. Lo giudica, certo, ma non lo dimentica: gli basta scorgere un “giusto” in mezzo alla malvagità, e subito riformula il suo patto, e la storia della salvezza riprende con nuovo slancio il suo cammino. Basta un giusto come Noè per salvare il futuro.

 

Amos, minacce e promesse

del profeta della giustizia

 

Am 2, 6-8

6 Così dice il Signore: "Per tre misfatti d'Israele e per quattro non revocherò il mio decreto, perché hanno venduto il giusto per denaro e il povero per un paio di sandali; 7 essi che calpestano come la polvere della terra la testa dei poveri e fanno deviare il cammino dei miseri; e padre e figlio vanno dalla stessa ragazza, profanando così il mio santo nome. 8 Su vesti prese come pegno si stendono presso ogni altare e bevono il vino confiscato come ammenda nella casa del loro Dio."

 

Il profeta è senza dubbio una delle figure bibliche più affascinanti. Ed è una figura sotto molti aspetti missionaria. Infatti lo sguardo del profeta biblico si volge costantemente in due direzioni: verso Israele e verso i popoli. Il profeta sa che il suo Dio si interessa anche a quelli di fuori.

La preoccupazione del profeta è sempre religiosa, tuttavia è anche - proprio perché religiosa - sociale. Quasi tutti i profeti hanno sentito il dovere di forti denunce. Ecco, per esempio, alcune denunce che il profeta Amos ha rivolto ai popoli stranieri: “Hanno trebbiato Galaad con trebbie ferrate” (1,3); “Hanno deportato popolazioni intere per consegnarle a Edom” (1, 6); “Hanno deportato popolazioni intere senza ricordare l’alleanza fraterna”.

Come si vede, il profeta non condanna le nazioni perché non praticano la religione di Israele, né perché combattono Israele, ma semplicemente perché commettono delitti contro l’uomo.

Le denunce del profeta non sono soltanto contro le nazioni, ma anche contro il suo popolo. Egli vede il male del mondo e al tempo stesso il male della sua comunità, e ha il coraggio di denunciare anche questo. Anzi, proprio in questa direzione le denunce di Amos sembrano essere ancora più forti e dettagliate (2, 6-8). Anzitutto, il profeta denuncia l’ingiustizia e l’avidità dei rapporti economici e sociali e l’ipocrisia nell’amministrazione della giustizia: “Vendono il giusto per poche monete e il povero per un paio di scarpe, calpestano la testa dei poveri”. Poi passa a denunciare la perdita del senso morale: figlio e padre frequentano la medesima donna profanando il nome del Signore. Infine, stigmatizza una pratica cultuale falsa e idolatra: bevono il vino dei multati nella casa del loro Dio. La traiettoria delle denunce è quanto mai interessante: dall’ingiustizia all’idolatria, dall’oppressione dell’uomo al disonore di Dio. La ricchezza - che qui è vista come accumulo e avidità - porta a preferire i soldi agli uomini (di qui l’ingiustizia e l’oppressione), fa perdere il senso morale e induce a instaurare un rapporto con Dio completamente distorto. Il ricco tende a costruirsi un Dio a propria immagine, cioè un Dio avido di doni, di lauti sacrifici e di offerte, e pronto a lasciar correre tutto il resto. In altre parole, l’avidità acceca: genera oppressione e crea, o favorisce, un falso rapporto con Dio. In nome del suo Dio, il profeta è contro un benessere sfacciato e mal distribuito, che porta a una vita lussuosa, incurante della miseria che sta accanto.

Il profeta non è politicamente schierato. È semplicemente e totalmente dalla parte di Dio. Non ha altri interessi. Non critica un sistema sociale e politico a partire da un altro. Il suo discorso è religioso, ma è un messaggio religioso che inevitabilmente esige un cambiamento sociale e politico. Il profeta non predica la politica, ma le esigenze di Dio sulla società e sulla politica.

Un altro tema ripetuto nel libro di Amos, continuamente variato nelle immagini, è la minaccia del giudizio: un giudizio incombente e meritato. I verbi sono all’indicativo, e questo significa che il giudizio è presentato come un fatto, come una certezza, non come un’ipotesi. Alcune espressioni hanno addirittura il tono dell’ineluttabilità: “Non gli perdonerò più” (7, 8); “Dio ha pazientato e ha perdonato, ma ora non perdona più” (7, 1 - 8, 9). Dunque rovina e distruzione sono una reale possibilità e questo in contrasto con chi diceva: “La rovina non giungerà fino a noi” (9, 10). È più che una possibilità: se si continua così, la distruzione è certa.

Tuttavia non mancano spiragli aperti sul futuro. Il messaggio del profeta non è privo di speranza: inizia con la minaccia ma finisce con la promessa.

 

Giona, profeta
e missionario controvoglia

 

Gio 3, 5-10

 5 I cittadini di Ninive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, dal più grande al più piccolo.  6 Giunta la notizia fino al re di Ninive, egli si alzò dal trono, si tolse il manto, si coprì di sacco e si mise a sedere sulla cenere. 7 Poi fu proclamato in Ninive questo decreto, per ordine del re e dei suoi grandi: "Uomini e animali, grandi e piccoli, non gustino nulla, non pascolino, non bevano acqua.  8 Uomini e bestie si coprano di sacco e si invochi Dio con tutte le forze; ognuno si converta dalla sua condotta malvagia e dalla violenza che è nelle sue mani. 9 Chi sa che Dio non cambi, si impietosisca, deponga il suo ardente sdegno sì che noi non moriamo?".

10 Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si impietosì riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece.

 

Il libro di Giona è la storia di un profeta controvoglia, un racconto rapido, fresco e pieno di umorismo. Quattro brevi capitoli che il lettore deve leggere per intero. Non se ne pentirà.

Il racconto procede velocemente, in un rapido alternarsi di azioni e di dialoghi. Le descrizioni sono assenti: solo qualche raro aggettivo. È il Signore con la sua parola che dà inizio a tutta la vicenda e sarà lui a guidarla sino alla fine. Ma non la concluderà. Il racconto, infatti, si chiude con una domanda lasciata in sospeso. Al lettore rispondere.

Dio ordina a Giona di andare a Ninive, città famosa per le sue campagne militari, le sue deportazioni di popoli e la sua violenza. Ma anziché andare verso Ninive, Giona fugge lontano, verso Tarsis, all’altro capo del mondo. Durante una violenta tempesta, i marinai della nave lo gettano in mare. Giona è inghiottito da un pesce che lo porta a riva. Qui il profeta si trova di nuovo davanti al Signore. Il racconto ritorna da capo. Ma ora Giona è diverso e obbedisce: ha capito che è inutile fuggire. Il messaggio di Dio che egli deve portare a Ninive è inteso dal profeta non come un invito alla conversione, ma piuttosto come una sentenza di condanna: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta”. Ma questo è il desiderio del profeta, non di Dio.

Con sorpresa i niniviti credono al “Dio”. Non si dice che credono nel Dio di Israele, che cambiano religione. Si dice semplicemente che hanno ritenuta vera la minaccia del Signore. La prendono sul serio e si convertono. Alcune immagini sono belle. Per esempio quella del re che si alza dal trono e siede nella polvere. Il cambiamento è davvero radicale. Gli abitanti di Ninive non sono sicuri che la conversione otterrà effetto. Ma è pur sempre una possibilità e l’afferrano: “Forse Dio si pentirà, placherà l’incendio della sua ira e non periremo”. E difatti Dio “si pentì”. Se l’uomo cambia, anche Dio è pronto a cambiare.

È una prima lezione del libro. Con una precisazione: chiunque può cambiare, persino una città come Ninive. La storia potrebbe terminare qui, con la conversione dei niniviti e la misericordia di Dio. La lezione sarebbe chiara: Dio perdona chiunque, appena vede un sincero pentimento. Ma c’è una sorpresa. Il racconto continua. E questo perché al narratore non interessano soltanto la conversione di Ninive e il perdono di Dio, ma anche la conversione di Giona, cioè del “giusto”, cioè dei lettori che siamo noi.

Costatando il perdono di Dio, Giona ne è indispettito. “Non è giusto - pensa -. Dio perdona troppo facilmente”. Ed è anche deluso perché la sua parola è stata smentita. “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta”, ha proclamato. E invece non è stata distrutta. Il profeta è tanto deluso che esclama: “meglio per me morire che vivere”. Ed è a questo punto che Dio gli pone la domanda verso la quale tutta la narrazione tendeva: “Ti sembra giusto essere così sdegnato... Non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città, nella quale sono più di 120 mila persone che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?”.

Dio non risponde a questa domanda. Tocca a Giona rispondere e capire, tocca a ciascun lettore. La domanda non è rivolta a un singolo personaggio (non dimentichiamo che il racconto di Giona è una parabola), ma all’intera comunità giudaica, che la sconfitta, i molti disagi e le amarezze portano all’irrigidimento. Una scrupolosa osservanza religiosa e molta attenzione alla purezza razziale, ma anche una mentalità chiusa, nazionalista, schematica e irrigidita. Una comunità siffatta è certamente religiosa, ma finisce col non capire perché mai Dio conceda prosperità e perdono anche alle nazioni pagane. La bontà di Dio verso tutti gli uomini diventa un problema. E così il messaggio del libro di Giona va in due direzioni: la prima verso Ninive, per ricordarle che deve convertirsi, pena la catastrofe; la seconda verso Israele, per dire che occorre gioire, come Dio, della salvezza e del perdono. Il primo insegnamento è ovvio, il secondo è duro.

 

Tutta l'umanità è chiamata
a godere della stessa luce

 

Is 60,1-5

1 Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te.

2 Poiché, ecco, le tenebre ricoprono la terra, nebbia fitta avvolge le nazioni; ma su di te risplende il Signore, la sua gloria appare su di te.

3 Cammineranno i popoli alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere.

4 Alza gli occhi intorno e guarda: tutti costoro si sono radunati, vengono a te. I tuoi figli vengono da lontano, le tue figlie sono portate in braccio.

5 A quella vista sarai raggiante, palpiterà e si dilaterà il tuo cuore, perché le ricchezze del mare si riverseranno su di te, verranno a te i beni dei popoli.

 

Is 61,1-2

1 Lo spirito del Signore Dio è su di me perché il Signore mi ha consacrato con l'unzione; mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, 2 a promulgare l'anno di misericordia del Signore, un giorno di vendetta per il nostro Dio, per consolare tutti gli afflitti.

 

Due passi del libro del profeta Isaia meritano di essere presi in considerazione per la loro apertura missionaria. Li riporto soltanto per cenni, invitando il lettore a leggerli per intero.

“Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce... Nebbia fitta avvolge le nazioni, ma su di te risplende il Signore. Cammineranno i popoli nella tua luce. Volgi gli occhi intorno e guarda: tutti costoro vengono a te, proclamando le glorie del Signore”. Una lettura appena un po’ attenta di questo passo evidenzia i due imperativi: “Alzati e rivestiti di luce” e “Volgi gli occhi intorno e guarda”. Due imperativi che reggono l’intero discorso e gli imprimono un tono di diretto coinvolgimento: il profeta si rivolge direttamente con il “tu” al popolo che lo ascolta, e ora a ciascuno di noi che lo legge.

“Alzati” è un invito a smetterla con la stanchezza e con le lamentele, e “rivestiti di luce” è un invito alla gioia. “Volgi lo sguardo attorno e guarda” è un invito a uscire dal proprio angusto orizzonte, a rompere il cerchio delle proprie meschine preoccupazioni e a smetterla di ripiegarsi su se stessi. Se appena alzi lo sguardo, ti accorgi che c’è tutto un movimento. Un duplice movimento: la luce di Dio che viene verso Gerusalemme e l’intera comunità che si pone in cammino. Ci sono due cose da guardare, due cose grandiose, ma se non alzi lo sguardo - se non ti scuoti, se non esci da te stesso - rischi di non vederle: un contrasto, e cioè una città luminosa in un mondo immerso nella nebbia, e un’immensa carovana, cioè l’intera umanità in cammino, attratta dalla luce.

La luce non proviene dalla città, ma piove sulla città. Gerusalemme non brilla di luce propria, bensì di luce riflessa. Se il popolo di Dio è una luce in un mondo oscuro, questo non è per merito, ma per grazia. Ed è per questo che i popoli - attratti da quella luce - non lodano la città, ma il Signore: “Tutti verranno... proclamando le glorie del Signore”. Se poi osservi l’immensa carovana che si avvicina, ti accorgi che in essa ci sono come due colonne: quella dei figli di Israele che rimpatriano dall’esilio, e quella delle nazioni straniere attratte dalla luce: due tronconi di umanità accomunati nello stesso cammino e diretti verso lo stesso punto. E la visione di una umanità non più contrapposta, ma riunita e in cammino. L’intera umanità, senza distinzioni di sorta, e chiamata a godere della stessa luce.

Il secondo passo non è meno importante del primo: “Lo Spirito del Signore è su di me, il Signore mi ha consacrato, mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai poveri, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di misericordia del Signore, lo sono il Signore che amo il diritto e odio la rapina e l’ingiustizia”.

Nel secondo passo il profeta introduce se stesso, poi spiega lungamente il contenuto (e i destinatari) dell’annuncio che Dio gli ha affidato, e infine conclude riportando la risposta della comunità che lo ha ascoltato: “Gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio”. “Lo Spirito del Signore è su di me, mi ha consacrato, mi ha mandato”: con queste espressioni il profeta vuole attirare l’attenzione su Dio e intende mostrare l’unica ragione per cui le sue parole debbono essere ascoltate. La decisione di parlare non viene da lui ma da Dio, e il messaggio non è suo ma di Dio. Questa convinzione è talmente profonda che a un certo punto - nel momento culminante del messaggio - il profeta si mette da parte completamente e lascia parlare il Signore in prima persona: “lo sono il Signore che amo il diritto e odio la rapina e l’ingiustizia”. Destinatario dell’annunciò è un popolo sofferente: poveri, afflitti, prigionieri, schiavi e oppressi. Tutti o soltanto gli abitanti di Gerusalemme e della Giudea? Il discorso si apre con affermazioni universali ma poi sembra concentrarsi sulla Giudea e su Gerusalemme (“Tutti gli afflitti di Sion”). Il disegno di Dio avanza fra particolarismo e universalismo: il particolarismo, però, è a servizio dell’universalismo, non viceversa.

 

La compassione di Dio

e il vero pane della vita

 

Is 35,4. 2

4 Dite agli smarriti di cuore: "Coraggio! Non temete; ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi".

2 Come fiore di narciso fiorisca; sì, canti con gioia e con giubilo. Le è data la gloria del Libano, lo splendore del Carmelo e di Saròn. Essi vedranno la gloria del Signore, la magnificenza del nostro Dio.

 

Is 55,1-3

 

1 O voi tutti assetati venite all'acqua, chi non ha denaro venga ugualmente; comprate e mangiate senza denaro e, senza spesa, vino e latte.

2 Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro patrimonio per ciò che non sazia? Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti.

3 Porgete l'orecchio e venite a me, ascoltate e voi vivrete. Io stabilirò per voi un'alleanza eterna, i favori assicurati a Davide.

 

Due brevi passi di Isaia mi sorprendono per la loro attualità. Indicano ciò che il discepolo di ogni tempo deve testimoniare al mondo.

Il profeta inizia con un imperativo (“coraggio, non temete”), poi annuncia un fatto presente (“ecco il vostro Dio, viene a salvarvi”) e si conclude con una promessa (“allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno le orecchie dei sordi”). L’imperativo è rivolto a uomini smarriti, scoraggiati nel constatare che la storia non va come dovrebbe: i disonesti applauditi e gli onesti derisi, i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. L’invito al coraggio risuona molte volte nella Bibbia. E a ragione: l’uomo ne ha sempre bisogno. Ne aveva bisogno, ad esempio, il popolo di Israele nel deserto, incamminato verso una terra e una libertà che sembravano sempre più allontanar-

si. Ne ha bisogno ogni uomo che, come Giobbe, si trova colpito dalla malattia e dall’abbandono e si interroga sul senso di Dio e della vita. E ne hanno bisogno i discepoli di Gesù perseguitati e smentiti nella loro missione. Per tutti questi motivi, e per tanti altri ancora, la Parola di Dio ripete continuamente: coraggio, non temete.

Ma è un incoraggiamento diverso dai molti banali incoraggiamenti che sono di moda fra gli uomini. Anzitutto, perché viene indicato il fondamento vero del coraggio, l’unica ragione in grado di giustificarlo: ecco il vostro Dio, viene a salvarvi. Non esiste una ragione più solida di questa. Se Dio è Dio, allora i conti devono tornare; se Dio è Dio, allora è certo che tutto, anche ciò che ora ci riesce incomprensibile e contraddittorio, deve avere un senso. Incoraggiamento diverso, poi, perché non illude, non attenua le difficoltà, né promette nulla subito e a poco prezzo. È esigente e impegnativo. Non promette di eliminare la fatica né di abbreviare il cammino. Assicura piuttosto che la fatica ha un senso. Dio non dice: coraggio, vengo a togliervi dalla fatica. Ma dice: coraggio, perché io sono con voi.

E qui si innesta la terza caratteristica dell’incoraggiamento di Dio, la più paradossale e sorprendente: Dio ci incoraggia dall’interno della nostra situazione, ci incoraggia condividendo. Troppe volte, fra noi, un incoraggiamento è invece fatto di molte parole e di pochissima partecipazione.

Il secondo passo non è meno importante: agli uomini delusi e affannosamente impegnati nella ricerca di un benessere inconcludente, il profeta Isaia chiede: “Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro patrimonio per ciò che non soddisfa?”. Un interrogativo, questo, che è contemporaneamente constatazione e rimprovero. Stupidamente gli uomini consumano tempo e vita in cerca di soluzioni che lasciano intatto il problema. È una fotografia degli ebrei esiliati, ma anche una descrizione degli uomini di ogni tempo.

Non si trascuri un’annotazione che il profeta considera importante, tanto che la ripete: il benessere che l’uomo cerca è legato al denaro, mentre la salvezza di Dio è gratuita. La ricerca di un senso della vita fondato sul denaro favorisce i più fortunati, i più ricchi, e trasforma l’esistenza in competizione. Non così la salvezza di Dio che invece è gratuita e per tutti, e non divide ma unisce. Per il profeta ascoltare Dio significa orientare con decisione il proprio spirito verso quei valori che, soli, sono in grado di dare un senso alla vita.

La ricerca del benessere si mantenga nelle debite proporzioni. Bastano le cose necessarie: il di più appesantisce, e anziché risolvere il problema dell’esistenza ne fa svanire il senso.

 

Missione ed elezione
del "Servo del Signore"

 

Is 42,1-8

1 Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni.

2Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, 3 non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta. Proclamerà il diritto con fermezza; 4 non verrà meno e non si abbatterà, finché non avrà stabilito il diritto sulla terra; e per la sua dottrina saranno in attesa le isole.

5 Così dice il Signore Dio che crea i cieli e li dispiega, distende la terra con ciò che vi nasce, d il respiro alla gente che la abita e l'alito a quanti camminano su di essa: 6 "Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano; ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni, 7perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre.

8 Io sono il Signore: questo è il mio nome; non cederò la mia gloria ad altri, né il mio onore agli idoli."

 

In questo passo molto noto, il profeta Isaia delinea la figura del “Servo del Signore”, una figura misteriosa che sembra radunare in sé tutti i tratti essenziali della missionarietà. Ma prima di leggere con attenzione questo brano assai denso, è necessaria una parola sul contesto storico. Siamo negli anni immediatamente successivi al ritorno in patria degli esiliati. L’esilio babilonese è terminato e molte speranze si sono accese: finalmente inizierà un’epoca nuova? In realtà alla speranza seguì ben presto la delusione. Gerusalemme è in uno stato miserevole, senza tempio, né mancano difficoltà di origine religiosa e morale. La parola di Dio è dunque inefficace? La speranza è un’illusione senza fondamento? E in questo contesto che si colloca il nostro canto, pervaso da grande speranza e slancio missionario.

“Ecco il mio servo”: queste parole reggono tutto il brano e già ne indicano sinteticamente il contenuto. Nella Bibbia, e particolarmente nel nostro profeta, servo indica sì obbedienza e sottomissione, ma anche, e soprattutto, amore e amicizia: designa sempre un uomo, o un popolo, scelti da Dio in vista di una missione. E difatti l’elezione e la missione sono le due principali caratteristiche del misterioso personaggio di cui qui si parla, personaggio di cui non ci viene detto il nome (è il popolo? Il messia? Ogni figlio di Israele?), ma di cui ci vengono descritti con molta cura i tratti interiori.

Isaia ovviamente non si accontenta di dirci che al Servo è affidata una missione: ne indica il contenuto, lo stile e il destinatario. L’orizzonte della missione è il più universale possibile: le nazioni, la terra, le isole, i ciechi e i prigionieri, coloro che abitano nelle tenebre. Un mondo in attesa, come i ciechi attendono la luce e i prigionieri la libertà.

Con pochi tratti significativi il profeta descrive poi lo stile con cui il Servo svolgerà la sua missione. Non farà strepito né ricorrerà alla violenza e non seguirà la dura legge del mondo che esalta ciò che è forte e abbatte ciò che è debole. E tuttavia la sua azione sarà ferma e coraggiosa: “Non verrà meno e non si abbatterà”. Queste ultime parole lasciano intendere che la missione del Servo comporterà sofferenza e persecuzione, ma accanto alla persecuzione ci sarà il sostegno di Dio.

Il compito del Servo è indicato a più riprese: stabilire il diritto sulla terra, essere alleanza del popolo e luce delle nazioni, aprire gli occhi ai ciechi e far uscire dal carcere i prigionieri. L’indicazione fondamentale è senza dubbio la prima, come appare dal fatto che la parola “diritto” o “giustizia” ritorna quattro volte in poche righe. Ma la radice della giustizia è ancora più indietro, la prima cosa da stabilire è un’altra: abbattere gli idoli e proclamare che solo Dio è Dio. È questa la prima rivendicazione, senza la quale non c’è più posto né per la verità né per la libertà.

È in questo senso profondo che il Servo è inviato a ristabilire il diritto sulla terra, a mettere cioè le cose al loro posto: prima Dio, poi l’uomo, poi i beni. Compito urgente, attualissimo, ma anche smisurato. Ed è per questo che il profeta sottolinea ripetutamente che dietro il servo c’è Dio, il vero protagonista: “che io sostengo”, “di cui mi compiaccio”, “ho posto il mio Spirito su di lui”, “ti ho chiamato”, “ti ho preso per mano, formato e stabilito”.

 

Sofonia e Malachia

profeti di salvezza

 

Sofonia e Malachia sono due dei così detti “profeti minori”, per molti cristiani certamente degli sconosciuti. La raccolta delle loro parole non occupa più di qualche pagina delle nostre Bibbie. Ma sono parole forti e provocatorie. Ovviamente non parlano direttamente della missione del missionario. Dicono però come dovrebbe essere una comunità nel mondo, se vuole essere un segno del vero Dio. Il libro di Sofonia si apre con parole tremende (1,2-3): “Tutto farò sparire dalla terra, dice il Signore; distruggerò uomini e bestie, sterminerò gli uccelli del cielo e i pesci del mare, sterminerò l’uomo dalla terra”. Sembra di leggere il racconto della creazione (Gn 1,1-31), ma alla rovescia. Là Dio che crea la terra, gli animali e l’uomo, e ne gioisce (“e vide che ciò era bello”). Qui Dio che sembra voler disfare ciò che ha costruito. Il motivo? Sofonia scrive verso il 640-630 a. C., città e campagne sono piene di poveri. Ma ci sono anche i ricchi e i prepotenti, che approfittano della loro posizione e rendono ancora più difficile la già difficile condizione del popolo. Appartengono a tutte le categorie (3,3-4): capi che commettono prepotenze, giudici avidi e corrotti, profeti boriosi e fraudolenti, sacerdoti che profanano le cose sacre. E c’è una cosa che li accomuna tutti: “Non cercano il Signore né si curano di Lui” (1,6). Sono uomini che non prendono Dio sul serio, ritenendolo una cosa inutile che neppure vale la pena di mettere in conto: “Dio non fa né bene né male”, essi pensano (1,2). È questa per il profeta la radice di ogni loro corruzione. Ed è a una generazione di uomini siffatti che egli predice (e come dargli torto?) la distruzione.

E tuttavia non tutto è perduto. C’è ancora una possibilità di rigenerazione, c’è ancora qualcuno sul quale Dio può contare: il piccolo gruppo degli umili e dei poveri che lo cercano. La speranza del mondo è nelle loro mani. Il profeta è convinto (una intuizione valida anche oggi?) che è su loro che bisogna puntare.

La povertà - che appare come il contrario dell’orgoglio, della dismisura, di quell’atteggiamento cioè che ti fa perdere il senso di Dio e degli altri - è per Sofonia un atteggiamento fatto insieme di umiltà e di fiducia. L’umile non è colui che si tira indietro, tanto meno lo sfiduciato, ma colui che conserva - qualsiasi posizione occupi - il senso della misura, e sa di avere doveri da compiere prima che diritti da vantare. Povero è colui che si sottomette interamente a Dio, nell’atteggiamento di chi chiede, non di chi pretende.

Malachia è l’ultimo scritto della serie dei profeti minori. Di questo profeta conosciamo quasi nulla. Possediamo soltanto il suo piccolo libro. Dalla lettura si ricava l’impressione che la comunità giudaica, ritornata dal lungo esilio babilonese (587- 538 a. C.), sia ormai pienamente ricostituita. Il tempio è stato ricostruito e il culto riorganizzato.

Ma se da un punto di vista organizzativo tutto è restaurato, non altrettanto può dirsi dei valori religiosi più profondi: ci sono segnali di stanchezza e di crisi nel sacerdozio e nel popolo, sia per quanto riguarda i rapporti con Dio (preghiera e culto), sia per quanto riguarda i rapporti sociali. E’ su questi secondi che il profeta attira l’attenzione.

Il giorno del Signore - aggiunge subito il profeta - non è lontano, e allora tutto apparirà nella sua giusta luce. Di fronte al dilagare del peccato, il profeta parla del giorno del Signore che sarà giorno di condanna e di salvezza. Di condanna per gli empi, che saranno distrutti come la stoppia, che si brucia nei campi dopo i raccolti estivi. Chi siano gli empi è detto in 3,5: “Quelli che giurano il falso, chi trattiene la mercede agli operai, chi opprime vedove, orfani e forestieri, tutti costoro non mi temono, dice il Signore». Si tratta, come si vede, di peccati che noi, oggi, chiameremmo sociali. Empietà e timore di Dio si svelano in questo ambito di doveri. È qui che si distingue tra il giusto e l’empio, «chi serve Dio e chi non lo serve” (3,18).

Ma il giorno del Signore è anche giorno di salvezza (“per voi invece...”): una salvezza che Malachia descrive con due tratti, la giustizia (“sorgerà un sole di giustizia”) e la gioia (“uscirete saltellando come giovenchi dalla stalla”).

I diritti dell’uomo si fondano nell’amore di Dio.

Lo so che il centro della missione è il Vangelo, ma so anche che nel Vangelo è racchiusa - non come semplice conseguenza, ma al centro - la proclamazione dell’amore di Dio per ogni uomo: dunque la dignità di ogni uomo. Nella Scrittura Dio è direttamente chiamato in causa come fondamento e difensore della dignità dell’uomo. Si può dire che il discorso biblico discende da Dio, e l’impegno per i diritti prima è più che una risposta a una rivendicazione dal basso: è un prolungamento del moto di giustizia che scende da Lui.

Già nell’Antico Testamento i doveri e i diritti dei cittadini israeliti non emergono dalla posizione o dalla funzione che svolgono o in base al censo o alla classe, ma si determinano sulla base dell’alleanza di Dio, il quale “non fa differenza di persona”. Questa tendenza sottostà a tutta la legislazione biblica. Giustizia e diritti non sono concepiti come qualcosa di statico, ma sono affermati attivamente, dinamicamente. La parola di Dio non fa una teoria sui diritti dell’uomo, né si accontenta di annunciarli, ma afferma che Dio interviene concretamente a difenderli.

Quando si cerca nel discorso biblico il fondamento da cui i diritti dell’uomo scaturiscono, si è soliti richiamarsi alla prima pagina del libro della Genesi, dove l’uomo è definito “immagine e somiglianza di Dio”. Posta all’inizio della Bibbia a modo di introduzione generale, punto di partenza e chiave di lettura dell’intera storia successiva, in realtà è una pagina tardiva, scritta quando la riflessione sull’uomo era già molto progredita e, per quanto riguarda l’Antico Testamento, conclusa. In questo senso, più che aprire la riflessione, la chiude. Prima che nel gesto creatore di Dio, Israele ha trovato il fondamento della dignità dell’uomo nell’evento della liberazione dall’Egitto.

L’uomo biblico non deduce i diritti dell’uomo riflettendo sulla natura dell’uomo, ma su Dio e la sua azione liberatrice. Il fondamento non è qualcosa che l’uomo ha in sé. Naturalmente quest’idea non è negata nella Bibbia, che però ha un’altra prospettiva: coglie la dignità dell’uomo nell’atteggiamento di Dio verso di lui. Un atteggiamento che non soltanto fonda la dignità dell’uomo e la riconosce, ma interviene attivamente per difenderla. Di qui non solo il riconoscimento del valore dell’uomo, ma l’esigenza di un movimento di solidarietà per l’uomo. La Bibbia è convinta che i diritti dell’uomo sussistono soltanto in un movimento di attiva solidarietà.

Accanto al Dio salvatore che libera dall’Egitto, Israele ha progressivamente collocato anche la memoria del Dio creatore. L’esperienza del Dio salvatore e del Dio creatore insieme, costituisce il fondamento dei diritti dell’uomo e diventa il luogo della loro individuazione. Dall’esperienza del Dio salvatore discende un movimento di solidarietà attiva, l’esigenza/dovere di prendersi a carico i diritti di ogni uomo, del debole, dell’indifeso; dal Dio creatore l’universalità di questi diritti e del movimento di solidarietà di cui necessitano. Ma perché l’universalità sia davvero tale occorre l’approfondimento del Dio misericordioso, tipico del Nuovo Testamento. Dall’universalità del Dio salvatore non sono esclusi i peccatori.

Questo deciso ancoramento dei diritti dell’uomo nel comportamento di Dio verso l’uomo fa sì che i diritti vengano dedotti né da un’idea astratta e atemporale di uomo, né da un processo storico. Il loro riconoscimento può avvenire (e avviene) dentro un processo storico, ma il loro fondamento è altrove. L’esperienza religiosa biblica, correttamente intesa, non si accontenta di essere un luogo in cui i diritti, scoperti altrove, vengono proiettati. Esige di farsi profezia, luogo di riconoscimento della dignità di ogni uomo e dei suoi diritti. Il Vangelo non solo offre un fondamento ai diritti, ma deve diventare una luce per riconoscerli. Nell’esperienza ebraica e cristiana il riconoscimento dei diritti dell’uomo è parallelo all’approfondimento dell’esperienza religiosa originaria. La poca affezione ai diritti dell’uomo è sempre indicativa di una cattiva esperienza di Dio.

 


Ritorno alla Bibbia


05 luglio 2024               a cura di Alberto "da Cormano"   Grazie dei suggerimenti  Bibbia@ora-et-labora.net