III

VITA DEL SANTO ABATE EUGENDO

(Libera traduzione)

 

118. Nella misura in cui ho già sciolto con l'aiuto del Signore, beati fratelli, una parte del mio debito per soddisfare il vostro appassionato desiderio, mi sento certamente in parte rassicurato, considerando il numero di parole (già scritte). Ma, davanti alla mia coscienza e davanti al giudizio altrui, rimango dubbioso nel proseguire il compito che mi imponete, non per ignorante presunzione ma, come vedete, per obbedienza alla Regola. [1] La debolezza umana è abbastanza propensa alla critica, mentre si diletta nell’udire un canto o una musica e ammira le grazie di un discorso rimarcandone la proprietà dei termini e dei tempi; pertanto che la Divinità, favorevole alla nostra impresa, conceda che il nostro umile stile non venga in nessun modo calpestato dall’arroganza di superbi giudici, gonfiati di parole inutili. [2] 119. D’altra parte, come abbiamo già detto nella prefazione, è proprio a voi che abbiamo dedicato questi libricini e sappiamo che voi non siete discepoli di oratori, ma di pescatori. Voi cercate il Regno di Dio non nello stile del discorso, ma nella sua qualità (cfr. 1 Cor 4,20) e preferite implorare il Signore con puro e continuo rispetto piuttosto che perorarlo con una vana e deperibile verbosità. [3] Possa quindi essere questa la nostra premessa alla narrazione della vita del beato uomo.

120. Il santo servo di Cristo, Eugendo, discepolo in religione dei beati Padri Romano e Lupicino, fu anche, per la sua provincia di nascita, un loro compatriota e concittadino. Infatti nacque non lontano dal borgo (d’Izernore) che l'antico paganesimo, a causa della fama e delle solidissime mura di un santuario dove fioriva la superstizione, chiamò nella lingua dei Galli «Isarnodurum», cioè «Porta di Ferro». [4] Oggi in quel luogo il santuario è in parte distrutto, [5] ma vi risplende il santissimo edificio del Regno celeste, dedicato ai devoti di Cristo. È là che il padre di un figlio così santo, con decisione episcopale ed approvazione del popolo, fu elevato alla dignità sacerdotale e costituito sacerdote. [6]

121. Il bimbo benedetto cresceva, mosso quasi fin dalla culla da un istinto interno verso la felicità e la luce, ed una forza divina, come credo, gli presagiva un sicuro avvenire. [7] Ma una notte, perché questo degno padre e il suo santo figlio non rimanessero nell'incertezza quanto alla delizia ed alle promesse della futura beatitudine, il santo bambino, in una visione, fu portato via da due religiosi. Fu posto davanti all'entrata della casa paterna, in modo da potere contemplare con uno sguardo attento le regioni orientali del cielo e le loro stelle, come un tempo il patriarca Abramo guardò alla numerosa discendenza. Ed anche a lui fu detto, con linguaggio figurato: «Tale sarà la tua discendenza» (Gn 15,5). 122. Poco tempo dopo iniziarono ad apparire qui un personaggio, là un altro, poi un altro ancora, fino a che la loro crescente moltitudine divenne innumerevole, e circondano ed avvolgono il beato bambino ed i santi Padri come un enorme sciame di api, [8] simile ad un grappolo dolce come il miele - senza alcun dubbio i santi padri erano Romano e Lupicino che lo avevano spiritualmente tolto dal fango della casa paterna. [9] 123. Ed all’improvviso, dalla parte dove è rivolto il suo sguardo, Eugendo vide aprirsi nelle altezze celesti come una larga porta. E vide venire fino a lui e ai suoi compagni dei cori di angeli, vestiti di bianco e splendenti come neve, che scendevano dal sommo del cielo lungo una strada in dolce discesa, circondata di luce e simile ad una scala lievemente inclinata, coi gradini di cristallo, ed esultavano di gioia nell'elogio di Cristo. Tuttavia, nonostante il numero sempre crescente dei personaggi, nessuno di loro disse una parola o mosse un muscolo, colpiti come erano dal sacro timore della divinità. Poco a poco, con precauzione, la truppa angelica si mescola ai mortali; gli angeli raccolsero queste creature terrestri, le unirono a loro e, cantando tutti uno stesso canto, risalirono verso le sacre dimore del Cielo, così come ne erano venuti. (Cfr. Gn 28,12). [10]

124. Fra le melodie dell’inno il santo fanciullo comprese soltanto una frase che, circa un anno dopo, quando entrò nel monastero apprese essere una frase del Vangelo: ecco infatti ciò che diceva, come antifona, il coro alternato della folla di angeli e che io ricordo molto bene, poiché Eugendo stesso ebbe la bontà di riferirmelo: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). [11] Quindi la folla immensa si ritirò; la volta celeste, riempita di stelle e a lungo contemplata da Eugendo, si richiuse anch’essa ed il bambino, vedendosi solo in quel luogo, si svegliò di soprassalto. Terrorizzato da questa visione raccontò subito dell’evento a suo padre. Il santo presbitero capì immediatamente a chi doveva in primo luogo essere consacrato un figlio così santo.

125. Immediatamente gli insegna i fondamenti del sapere e dopo un anno Eugendo fu offerto al santo Padre Romano come lo fu un tempo Samuele, ma non per garantire la guardia di un tempio simbolico, ma piuttosto per diventare lui stesso il tempio di Cristo. [12] In lui confluì veramente la duplice abbondanza di grazie accordata ai beati Abati che lo avevano spiritualmente fatto uscire dalla sua residenza terrestre, tanto che la generazione che seguì (quella di questi Abati) non sapeva decidere se in Eugendo si dovesse contemplare l'immagine di Lupicino o quella di Romano. [13] 126. Osserviamo soltanto che, mentre i suoi due predecessori, per opere di misericordia, furono spesso obbligati ad uscire dal monastero e ad andare di qua e di là, lui, al contrario, una volta entrato non mise mai piede al di fuori, a partire dal settimo anno della sua vita fino a dopo il sessantesimo, età in cui morì. [14] Non appena eseguiti e portati a termine tutti gli incarichi affidatigli dal priore o dall’abate si dedicava di giorno e di notte alla lettura e si impegnava a tal punto che acquisì una solida conoscenza, non solo delle opere latine, ma anche dell'eloquenza greca. [15]

127. Quanto al vestirsi non utilizzò mai due tonache e la sola che egli possedeva non la cambiava per nessun motivo prima che non ne fosse consunta dalla vecchiaia. [16] La stessa regola osservava per la sua cocolla (cappuccio con mantello N.d.t.). La paglia del suo giaciglio era chiusa in un grezzo sacco e solo raramente veniva scossa. Qui dormiva coprendosi con una pelle di animale. Durante l'estate, utilizzava una lunga tunica con maniche (o caracalla) [17] e un vecchio scapolare in pelo di capra che gli aveva inviato l'abate Leoniano di Vienna, un uomo di rilevante santità, come pegno di fraterno amore. [18]

128. Un tempo, quando i Barbari si sparsero fino alla Gallia, il sant’uomo (Leoniano) era stato portato dalla Pannonia come prigioniero: visse molto a lungo nella clausura di una cella particolare, non soltanto a Vienna, ma anche ad Autun. Restò rinchiuso più di quaranta anni nell’una o nell’altra città, tanto che, dopo la sua segregazione, nessuno lo conobbe più di viso o di corpo, ma solo dal suo modo di parlare. Dirigeva una piccola comunità di monaci vicino alla sua cella; più lontano, all'interno della città, guidava più di sessanta monache di clausura, nutrendole nella vita religiosa con un’ammirevole saggezza: le più anziane le ha lasciate partire prima di lui (per il cielo), ma tuttavia non ha abbandonato spiritualmente le anziane che sopravvissero a lui. Ma ora torno al racconto originario. [19]

129. Il beato Eugendo portava scarpe resistenti e rustiche, al modo degli antichi Padri, e le sue gambe erano strette in gambali ed i suoi piedi in fasce. Ma per l'ufficio del mattutino e per quello delle lodi, non mise mai ai suoi piedi nudi altra cosa che zoccoli di legno all’uso gallico, anche con i più rigidi freddi ed anche quando c'era molta neve. In questo modo molto spesso nelle ore mattutine camminava a lungo nella per recarsi a pregare al cimitero dei fratelli. 130. E mai nessuno lo vide uscire prima della fine, durante la sinassi del giorno o della notte. Se durante la notte si recava nell'oratorio un bel po’ di tempo prima degli altri per pregare a lungo e nel segreto, così pure, quando tutti erano usciti, continuava ancora a nutrirsi spiritualmente con un lunga preghiera, appoggiato sul suo banco. E, qualunque fosse l'ora, usciva di là avvicinandosi ai fratelli con un’aria serena e lieta, allo stesso modo che gli uomini (del secolo) hanno un viso inondato di una spensierata allegria, una volta soddisfatta la loro ambizione. [20]

131. In tutte le stagioni prendeva un solo pasto al giorno. Durante l'estate alle volte a mezzogiorno con tutta la comunità, quando era stanco, ed alle volte alla sera, con i monaci che prendevano un secondo pasto. Tuttavia non gustò altro a tavola al di fuori di quello che era servito a tutti fratelli. [21] Ma riprendiamo il nostro racconto dai primi giorni della sua guida.

132. Dunque, quando il padre che i beati Romano e Lupicino avevano designato come successore per dirigere il monastero di Condat perse il vigore, [22] non soltanto per gli impegni e le preoccupazioni della comunità, ma anche per i disturbi di infermità fisiche, convocò presso di sé i fratelli ed associò sant’Eugendo alle preoccupazioni del suo incarico, [23] senza tuttavia allentare o rinunciare per niente alla sua paterna e superiore autorità. Questo stesso abate tentò anche di legare più strettamente lo stesso sant’Eugendo invitandolo ad unire alla fatica del governo l'onore del sacerdozio [24].

133. Ma, su questo punto, (Eugendo) non solo si limitò a resistere molto spesso e così molto santamente alla volontà del suo superiore, ma anche schivò con prudenza ed attenzione i venerabili pontefici che si erano riuniti in questo luogo per pregare, per la soggezione di un tale onore. [25] Del resto spesso mi confidava segretamente che è molto meglio per un abate, a causa dell'ambizione dei giovani, dirigere i fratelli essendo libero dal sacerdozio, senza essere legati da questa dignità, a cui non conviene per niente aspirare da parte di uomini rivolti alla rinuncia ed alla solitudine. 134. «Del resto, aggiungeva, noi sappiamo che, oltre a questa prima ragione che ho appena dato, anche molti padri, dopo avere praticato alla perfezione l'umiltà del loro stato, si sono profondamente e segretamente inorgogliti del ministero sacerdotale e si sono sentiti superiori ai fratelli che avrebbero dovuto precedere come esempio di umiltà». Dunque il santo di Dio ricevette il pesante impegno di sostituto e di collaboratore che gli era stato imposto senza la dignità sacerdotale, come già il Padre Lupicino; [26] trovava soprattutto la sua serenità nel fatto di poter contare sulla sollecitudine e la previdenza del padre. Ma ben presto fu sconvolto da una rivelazione molto chiara, affinché non avesse alcun dubbio sull'attribuzione dei pieni poteri e non rimanesse in lui alcuna incertezza.

135. Nella notte seguente, improvvisamente fu rapito da una visione: i beati Abati Romano e Lupicino si presentarono a lui come durante la sua infanzia, ma questa volta nella sagrestia situata alla destra della chiesa. Lì intorno insieme a loro vide anche gli anziani e i fratelli del monastero che erano sopravvissuti ai due fondatori e che portavano candele e lampade accese. Non appena i santi Padri gli diedero la benedizione ed il bacio della pace, vide entrare questo abate benedetto a cui ben presto egli sarebbe subentrato nell’incarico: vide che lungo il dorso e le spalle di questo abate cadeva un mantello bianco ornato di fasce di porpora. 136. Il beato Romano slegò la cintura di quest’uomo santo e, senza indugio, la passò attorno alle reni di Eugendo. Quindi tolse al medesimo il mantello che, come abbiamo detto, portava sopra gli altri suoi abiti e, posandolo sulle spalle di Eugendo, disse: «Sappi che questo incarico ti è fin d'ora attribuito per un certo tempo». Poi, afferrando con le dita la tunica dalmatica dello stesso predecessore, aggiunse: «Sappi che anche questo (ornamento) ti sarà conferito, per aver fatto buon uso di ciò che hai già ricevuto». I fratelli erano là in piedi con le candele ma, ben presto, su iniziativa di uno di loro, queste luci che spargevano luminosità e conforto vennero gettate contro il muro, furono schiacciate e si spensero. [27] 137. Soffocato dalle tenebre e colpito da stupore, il santo attendeva di vedere la conseguenza di quella visione, ma fu una voce che lo informò: «Non affliggerti, Eugendo, diceva (la voce), a causa dell’attuale mancanza di questa luce materiale; osserva all'Oriente di questa celletta e subito vedrai una luce divina che ti offre il suo aiuto, in mancanza del soccorso umano». E subito, girando lo sguardo da quella parte, vide un raggio di giorno e di luce che scendeva fino a lui mentre poco a poco si illuminava l'alba. Ritornato in se stesso, saltò giù felice dal suo letto. Questa visione non ritardò a realizzarsi.

138. Infatti, andatosene a Cristo il suo predecessore, Eugendo, volente o nolente, non poté sottrarsi al governo (del monastero) di cui aveva già ricevuto l’ipoteca. Ma gli stessi che nel corso della visione gli avevano sottratto il conforto della luce, dopo averglielo offerto, quelli stessi soccombettero alla cattiveria umana e, in preda alle passioni della gelosia, si gonfiarono di un ardente odio contro il beato uomo: disprezzandolo nel loro cuore, a volte anche lasciando il monastero e la vita religiosa, permettevano che monaci e laici calunniassero il santo Abate Eugendo come un novizio ed un ignorante. [28]

139. Ma l'amore divino che vegliava su di lui non permise che il suo servo fosse tormentato da prolungate sofferenze. Immediatamente, infatti, tende verso lui, con una straboccante abbondanza di segni, la sua destra potente ed efficace: grazie al suo servo, Dio concedeva visibilmente guarigioni e molti prodigi, tanto che, spesso, i più importanti e potenti personaggi del secolo lo supplicavano tramite le loro lettere di essere protetti e benedetti da lui. Costoro pensavano di non essersi riconciliati con la clemenza divina se prima non avessero acquisito, con una visita o con una lettera, gli speciali favori o intercessioni di questo amico di Cristo. 140. Persino vescovi e ammirevoli sacerdoti si mostravano in tutti i modi lusingati, se avessero avuto il privilegio di vedere fisicamente Eugendo o di ricevere da lui una lettera in cui egli si rivolgeva a loro con tono familiare. [29] Ed anche questi falsi fratelli che qualche tempo prima se ne erano andati gonfiati dall’arroganza dell’orgoglio, erano additati dai laici (e considerati) come infelici e degeneri, a meno che, ricusando il veleno dell’invidia, ritornassero al più presto dal santo servo di Cristo.

141. Mentre accadevano questi fatti, la cui fragrante fama (si diffondeva ovunque), una ragazza di non piccolo rango, secondo la considerazione del mondo, e che abitava vicino alla parrocchia di Secundiacum, [30] era posseduta da un terribile demonio: non solo era tenuta rinchiusa, ma la si teneva legata con catene di ferro. Secondo l'abitudine, molte persone legavano sulla nuca di questa ragazza delle formule d'esorcismo per guarirla. Essa, tuttavia, sotto l’influenza dallo spirito immondo e senza conoscerle, purtroppo offendeva le persone che avevano scritto queste formule, dicendo i loro nomi ed i loro vizi e affermando che lo stesso spirito immondo possedeva da tempo coloro che le avevano scritte, a causa di questo o quel peccato, pur rimanendo le prove nascoste agli uomini. [31] Allora, uno dei presenti sfidò la potenza maligna: 142. «Perché, dice, provi a spaventarci con questi vizi altrui, piuttosto che con i tuoi propri vizi, essere immondo? Per il nome di Cristo, non mi accontenterò degli esorcismi di cui screditi gli autori, ma chiamerò tutti i santi, se potrò, a redigere formule che legherò alla tua nuca, in modo che tu sia oppresso da una moltitudine di padroni che ti comandano, se rifiuti di ascoltare, e diffami questi pochi che sono qui». «Su di me, risponde il diavolo, se ti fa piacere puoi mettere un carico di papiri di Alessandria tutti scritti, [32] ma tuttavia non riuscirai mai ad espellermi dal vasetto che ho occupato, finché non mi porterai l'ordine imperativo di un solo uomo, Eugendo, monaco del Giura».

143. I (testimoni) più vicini afferrano immediatamente queste parole e corrono verso il beato con incondizionata fede. Gettandosi ai suoi piedi gli raccontano il fatto, affermando che non se ne andranno finché, mosso a pietà, non accorderà la misericordia di Cristo alla (ragazza) posseduta. Vinto dunque sia dalle loro spiegazioni che dalle loro preghiere, il padre agisce come un tempo Gregorio Magno nei confronti di Apollo: [33] dopo una lunga preghiera scrive una breve la lettera in questi termini. Poi la sigilla e la fa recapitare all’infame creatura: 144. «Io, Eugendo, servo di Cristo Gesù, in nome del nostro signore Gesù Cristo, del Padre e dello Spirito del nostro Dio, ti ordino con il presente scritto: Spirito di golosità e di rabbia e di fornicazione e d'amore, Demone della luna e di Diana e di mezzogiorno e del giorno e della notte, Spirito immondo, chiunque tu sia, esci dalla creatura umana che porta su di sé questo scritto. È per Lui, il vero Figlio del Dio vivente, che te ne scongiuro: esci in fretta e guardati dal rientrare in futuro dentro di lei. Amen. Alleluia». [34] Quindi prega, piega la lettera e la rende a coloro che lo supplicavano perché la portino a destinazione. Cosa (devo aggiungere) di più? I messaggeri non avevano ancora percorso la metà del cammino quand’ecco che il furfante, stridendo i denti e gemendo, uscì dalla ragazza posseduta prima ancora che gli stessi superassero la soglia della casa.

145. Proprio a partire da quel momento la notorietà del beato uomo si diffuse in lungo e in largo e il suo nome brillò tanto che, già considerato un santo dagli abitanti del paese, fu riconosciuta anche da genti lontane la sua autorevolezza ed il suo carattere da vero Apostolo. [35] Siagria, un tempo madre di famiglia, ed oggi anche madre delle chiese e dei monasteri per le sue elemosine, era in preda ad una grave malattia, ed i medici consideravano ormai il suo caso come disperato. [36] Ma ecco che prese dal suo armadietto una lettera che aveva ricevuto dal beato uomo, proprio a lei indirizzata, e la baciò come se fosse la mano del beato. 146. Afferratala la pone sui suoi occhi pregando, la bagna con le abbondanti lacrime che le cadono e poi la mette in bocca stringendola per un po’ di tempo tra i suoi denti senza cessare di pregare: [37] ed ecco che, tornata in buona salute, si alza. La felicità di questo miracolo non riempie soltanto lei ed i suoi, ma anche la molto nobile città dei Lionesi, rasserenata, si rallegra con straordinaria gioia.

147. Mentre la fama e la vita di Eugendo crescevano grazie al moltiplicarsi dei suoi miracoli, iniziò a correre in massa al monastero una tale ressa di infelici, che la folla dei secolari, o meglio degli afflitti, sembrava quasi superare in numero la schiera dei monaci. Intanto che nel monastero alcuni beneficiavano subito dei vantaggi sperati, altri dopo due o tre giorni, alcuni dopo mesi, il santo di Dio dispensava gli infelici dalla fatica, ricorrendo a mezzi di guarigione più convenienti. 148. Alle persone sane che venivano a supplicarlo per dei malati, dava da portare via, oltre ad una certa quantità di olio santo, [38] anche delle ingiunzioni scritte [39] contro i demoni e le malattie e che dovevano essere attaccate sul corpo dei pazienti; questi biglietti, con l'aiuto della fede, portavano fino alle lontane province il conforto che ottenevano coloro che si presentavano alla vista del santo nel suo monastero. [40] Ed il beato padre non era il solo nella comunità a beneficiare della potenza miracolosa, ma anche i sacerdoti e molti fratelli avevano questo privilegio. E, mettendo a tacere gli stimoli della gelosia, l'uomo di Dio preferiva delegare loro i suoi poteri di guaritore piuttosto che esercitarli lui stesso.

149. Egli tendeva in tutti i modi ad assegnare ad ogni monaco le mansioni o i compiti per i quali intuiva fosse particolarmente dotato per grazia dello Spirito Santo. [41] In questo modo un fratello moderato e mite si vedeva assegnato un servizio ed un posto dove i vantaggi della sua mansuetudine e della sua pazienza non fossero in alcun modo guastati dalla veemenza di un compagno irrequieto. Se, al contrario, notava altri che forse avevano il difetto dell'orgoglio o della vanità, non permetteva loro di vivere separati, per paura che, gonfiati di proposito dalla loro stessa meschina esaltazione, cadessero più in basso ed in difetti più gravi, non riconoscendo neppure più i loro peccati ed i loro vizi, nonostante i frequenti e pubblici rimproveri. 150. Se nel frattempo veniva a sapere che proprio alcuni fratelli che soffrivano la natura della fragilità umana ed erano in preda ai morsi di una tristezza divorante, appariva all'improvviso mostrando di proposito tanta gentilezza e gioia soprannaturali, riscaldava il cuore degli infelici con parole sante e delicate. Questi, purificati dal veleno molto pericoloso della tristezza, [42] si trovavano guariti dal loro esasperato pessimismo, come con l'unzione di un olio salutare. Ma l’Abate mostrò sempre più rigore e severità nei confronti di monaci troppo negligenti e frivoli. [43]

151. Quanto ai sacerdoti - abbiamo detto [44] che, a motivo dell'umiltà, non volle mai essere incaricato lui stesso di queste funzioni, nonostante le ripetute richieste dei vescovi -, (considerando che sono) i ministri del sacrificio salvatore, permise loro di tenersi in disparte per custodire la purezza della loro coscienza: in questo modo, se per caso il Padre si infiammasse nei confronti dell'autore di un colpa e si mostrasse, come succede spesso in questi casi, un po' brusco, i sacerdoti, loro che ignoravano sia il difetto che la penitenza inflitta, potevano distribuire all'altare il Corpo del Signore senza conoscere il peccato di questo fratello e senza nessuna compartecipazione: così in coscienza non dovevano rimproverarsi per una complicità nella colpa e neanche sembrava loro di sottrarre il colpevole alla severità del padre, prima che egli se ne fosse emendato, accordandogli per caso i sacramenti. [45]

152. Fu, o meglio è, beato presso Cristo, quest'uomo dalla cui bocca, Dio mi è testimone, non uscì mai un'ingiuria, le cui orecchie non si lasciarono mai sporcare dal distruttivo contagio di una bocca maldicente. Poiché egli odiava questo vizio, o meglio questa infamia, quanto si può odiare un serpente mortale: non solo si teme il suo veleno, ma si evita persino di incontrarlo e di vederlo. La sua anima, sgombra dai vizi, era talmente pura che fu capace di vedere e di conversare persino con i beati apostoli di Cristo Pietro e Paolo e sant’Andrea, [46] ed anche con quest'uomo apostolico e famoso che fu il vescovo Martino.

153. Infatti, un giorno d'estate, prima che incombesse su di lui il carico della direzione, egli dormiva fuori dal monastero, sotto un albero che gli era familiare, proprio vicino al cammino che conduce a Ginevra superando i monti: improvvisamente, durante il suo profondo sonno, tre uomini si avvicinano e si presentano a lui. Dopo l’orazione ed il bacio della pace Eugendo contempla, stupefatto, la loro stranezza, il loro aspetto, il loro abito, quindi chiede loro chi siano questi venerabili uomini, di cui ha meritato la visita come una benedizione. 154. Allora uno di loro: «Io sono Pietro, dice, quanto a lui, è mio fratello Andrea e quello è nostro fratello Paolo». Eugendo si inchina subito in spirito ai loro piedi e dice: «Come può essere, signori, che vi vedo in queste campagne, in mezzo alle foreste, voi i cui corpi, come leggiamo, sono seppelliti nelle grandi città di Roma e di Patras dopo il vostro santo martirio?» [47] «È vero, rispondono, noi siamo laggiù come tu dici e ora siamo venuti per dimorare qui nello stesso luogo». [48] Su queste parole la visione finisce ed anche il suo sonno.

155. Essendosi sfregato gli occhi per cacciare dal volto l'intorpidimento del sonno, scorge a distanza due fratelli che erano partiti (da Condat) da due anni circa. Essi si avvicinavano sulla stessa strada dove aveva visto arrivare i santi apostoli durante la sua visione. Subito si precipita loro incontro e, dopo averli salutati secondo l’uso, si informa da dove vengano questi carissimi fratelli che rientrano al monastero dopo una così lunga assenza. «Oltre ad altri luoghi, rispondono, noi siamo andati fino alla città di Roma e abbiamo ottenuto la protezione dei santi. Ma ora ritorniamo sotto una tripla intercessione di tre martiri, accordataci tardi ma affidabile. Infatti, oggi rientriamo al nostro vecchio ovile arricchiti dalle reliquie dei signori apostoli Pietro, Paolo e Andrea. [49] 156. Mentre (i due viaggiatori) rimangono sul luogo dell’incontro, secondo l'abitudine, santo Eugendo corre al monastero e lui stesso, che aveva appena contemplato i santi in una visione, diventa il messaggero del loro arrivo presso il padre (Abate) ed i fratelli. I monaci si slanciano subito loro incontro, salutano i fratelli e baciano i reliquiari che vengono esposti con gioia ed esultanza al canto dei salmi. [50] Infine sono posti sotto l'altare, accordando a coloro che li pregano la loro inesauribile e potente protezione: le lodi ed i meriti (di questi santi) non possono essere contenuti nei limiti di un luogo qualunque. [51]

157. Ma per parlare del santo e beato Martino, di cui Eugendo amava descrivermi con riservatezza il viso e l'aspetto, insieme a quelli dei santi di cui ho parlato, [52] non tiriamoci indietro di fronte ad una relazione un po' lunga. Un giorno, mentre si temevano i terribili e vicini attacchi degli Alemanni, [53] - che hanno l’abitudine di non attaccare di fronte i viaggiatori, ma di presentarsi all'improvviso e di gettarsi su loro come bestie - e che si cercava di evitare la morte o anche solo il timore della morte, poiché i colpi ripetuti dello spavento vi uccidono altrettante volte che avete paura -, si decide di andare a cercare il sale di cucina sulla riva del Mediterraneo [54] piuttosto che nel vicino paese degli “Eriensi”. [55] 158. Ma tutta l'impresa era stata intrapresa col consiglio e l’incoraggiamento del beato. Siccome al termine di due mesi (i monaci inviati laggiù) non davano alcun segno del loro ritorno, i fratelli fanno ricadere la colpa sul santo, dicendo che altri viaggiatori sono già ritornati illesi dalla temuta regione vicina e che (l’Abate), imponendo le sue decisioni, ha inflitto ai fratelli che ha designato non un esilio, ma la morte in un paese straniero. Benché non avesse la certezza di essere colpevole, poiché li aveva sottratti ad un rischio, (Eugendo,) che teme tuttavia questi ingiustificati rimproveri, implora ogni giorno ed ogni notte la misericordia di Cristo per la loro protezione.

159. Un giorno, dopo avere pianto, si era addormentato sfinito sul suo giaciglio, quando un chiarore improvviso circonda il suo giaciglio al punto che egli si vide inondato da una luce più viva di quanto un sole splendente lo avesse inondato coi suoi raggi. [56] Subito il beato Martino, essendogli accanto e vicino al suo letto, dopo averlo salutato gli chiese sue notizie. Ed egli rispose: «Starei bene se non fossi nell’incertezza riguardo alla vita di alcuni fratelli che mi si rimprovera di avere esiliato». 160. Il suo interlocutore riprese: «Non ti ricordi che alla loro partenza inviasti una preghiera a me, il tuo caro Martino, per raccomandarmeli in modo particolare? Ebbene! ecco che in nome di Cristo, proseguì, coloro che mi hai affidato sani e salvi nella tua preghiera, io te li rendo incolumi esaudendoti. Infatti questa notte la passeranno nella parrocchia di Poncin; [57] ma la prossima notte uno di loro arriverà qui fra noi per toglierci ogni apprensione». L'uomo di Cristo si svegliò e, come se avesse visto (sulla loro strada) i fratelli assenti e li mostrasse a tutta la Comunità, predisse il giorno e l'ora del loro arrivo: esattamente come il santo di Dio gli aveva annunciato e come effettivamente subito ritornarono.

161. Quanto al fatto che riporterò nel seguito del mio resoconto, nessuno sarà incerto nel collegarlo ai miracoli del beato Martino; ma non so chi sarebbe così ignorante e stupido da non capire che i doni dei miracoli sono specialmente evidenti in quei luoghi riconosciuti come il soggiorno della grazia, dove i favori divini si manifestano più facilmente perché gli uomini sono uniti nella loro fede. (Si sa infatti che) una notte il Signore permise che il santo di cui parliamo, Martino, fosse messo alla prova da un incendio in sagrestia, ma là fu messo alla prova positivamente. [58] La stessa cosa successe un tempo a Condat, dove tutto il monastero bruciò, senza che tuttavia l'olio di Martino fosse divorato dalle fiamme. [59] 162. Eugendo sopportò (questa disgrazia) con tanta pazienza e serenità che la divina Provvidenza non tardò a rendergli non solo due volte più di quello che aveva perso in prodotti alimentari e abiti, [60] ma anche dei locali tutti nuovi, costruiti in modo molto più pratico ed adatto di quanto non fossero quelli vecchi.

Come ho dunque detto, un certo giorno verso sera, bruciò tutto il monastero che era stato costruito in legno molto tempo prima. Esso era non solo costituito da un blocco di celle collegate tra di loro da una struttura, ma era stato raddoppiato di un piano ben strutturato. Fu in poco tempo così ridotto in cenere che, la mattina, non soltanto non restava più nulla della costruzione, ma persino il fuoco, alimentato da materiale secco, si era quasi interamente estinto.

163. Mentre i fratelli, disperdendo le braci, cercavano nel posto dove li avevano riposti, chi una zappa, chi un'ascia – ovviamente il ferro (di questi attrezzi), la sola parte non combustibile -, ecco che il santo sacerdote Antidiolo vede davanti a lui, sospesa come protezione sulla testata del suo letto, la piccola lampada contenente l'olio del beato Martino:[61] era restata piena e chiusa come prima e, nonostante l’impeto di un vasto incendio e il crollo dei locali del piano superiore che precipitavano in mezzo alle fiamme, era rimasta intatta e immobile in mezzo alle ceneri fumanti. Così un tempo, stando a ciò che leggiamo, i tre giovani, protetti dal vento di rugiada, si coprirono di gloria nel forno persiano. [62] (cfr. Dn 3,49-50) 164. Aggiungiamo che questa piccola lampada con il suo olio è conservata ancora oggi in questo stesso monastero, come prova di questi fatti miracolosi.[63] Così, io credo che sotto sant’Eugendo la sventura di un incendio non ebbe più potere di quanto non ne avesse avuto in passato quando, come abbiamo detto, era arretrata davanti al beato Martino; e anche in seguito noi ci ricordiamo che i monaci di Condat vi sfuggirono grazie all'olio ed alla potenza di Martino.

165. Oltre ad alcuni fatti che abbiamo brevemente raccontato come prova dei suoi meriti e dei suoi poteri miracolosi, (sant’Eugendo) ci ha lasciato esempi così straordinari di profezia, dove la sua purezza d’animo gli valse l'illuminazione divina, che, fin dalla sua vita terrestre, sembrava già partecipare in qualche modo alla gloria fra le potenze celesti. A tal punto che un giorno andò ad avvertire il venerabile Valentino, diacono nello stesso monastero, dicendogli in grande segreto: «È certo, fratello mio carissimo, che tra circa venti giorni tu lascerai questo secolo per raggiungere i premi che ti sono stati preparato. Inoltre, per quanto tu sia libero dai vincoli del peccato, pronto per andare presso il Signore, ti esorto tuttavia così: dato che ormai sei vicino al termine, essendoti rimasto ancora del tempo, arricchisciti realizzando nuovi progressi per potere essere preso sull'altare di Cristo, come già ho visto, come un degno ed ancora più gradevole sacrificio. 166. Infatti io questa notte ti ho visto, durante il canto dei salmi, vestito di lino bianco come neve e collocato dai santi Padri sull'altare del nostro oratorio. Inoltre, sebbene tu conosca i tuoi meriti e tu sappia di quale qualità sarà il tuo passaggio, io ti invito tuttavia durante l’attesa ad aggiungere ancora (tesori) che tu possa lassù possedere nella felicità immortale». [64] Terminata la conversazione con lacrime di gioia e nella preghiera, dopo circa dieci giorni il diacono è colpito da una leggera febbre, la malattia lo affligge lentamente ed il corso della sua vita terrestre si completa.

167. Inoltre, quando inoltre arrivava qualcuno (al monastero), (Eugendo), distingueva così bene i segni dei meriti della persona, dal soave profumo o dal ripugnante respiro che emanava, tanto da indovinare subito a quale virtù o a quale vizio fosse sottomessa. [65] Spesso predisse tanto l'arrivo di fratelli che la fede di postulanti venuti dal secolo, ancora prima che la Comunità si accorgesse del loro avvicinamento. Per quanto sovrabbondasse di grandi e notevoli benefici, non si giudicò mai migliore degli altri o superiore a loro, neanche per poco ma, colmo di devozione, meditava non sul suo valore presente, ma su quanto fosse ancora lontano dalla perfezione, come (se fosse) il più spregevole e il più piccolo di tutti.

168. Inoltre, portava sul suo viso una grande gioia, illuminato senza dubbio dall’Ospite che stava in lui; così nessuno lo vide mai triste, ma neppure qualcuno lo vide ridere. [66] Le belle azioni e la condotta dei beati Antonio e Martino non uscivano mai dal suo spirito. Mai in lui, come si riferisce di Antonio, in un accesso di ira si infranse la pazienza; mai si fece gloria dell’umiltà. [67] Mai si gonfiò per gli elogi, o perché era considerato beato; mai si scoraggiò o diventò triste per un rimprovero. 169. La lettura gli procurava un tale conforto, che gli capitava molto spesso, durante la lettura nel refettorio, di essere soggiogato dall'amore dei beni futuri e di entrare in una specie di estasi, al punto di dimenticare gli alimenti posti davanti a lui; infatti veniva preso da una gioia profonda e, disprezzando la peregrinazione della vita presente, aspirava al diritto di cittadinanza preparato nella patria celeste. [68] Del resto, è lui personalmente che prese l'iniziativa, sull’esempio dei vecchi Padri, di introdurre l'usanza della lettura (nel refettorio). [69]

170. È sempre lui che, rifiutando l'esempio degli archimandriti orientali, trovò più utile che tutti (i monaci) vivessero in comunità. [70] Dopo la distruzione delle piccole celle individuali, decise che tutti prendessero riposo con lui in un unico dormitorio: coloro che erano già riuniti in una sala comune per un pasto comune, volle riunirli anche in un dormitorio comune, essendo soli i letti separati; come nell'oratorio vi era una lampada ad olio che forniva la sua luce durante tutta la notte. [71] Aggiungo che il santo Abate non ebbe mai un suo proprio tavolino, come ho recentemente appreso che fanno alcuni [72] e non prese mai alimenti diversi da quelli dei fratelli; tutto, in tutto, apparteneva a tutti (At 4,32). [73] 171. Non insegnò mai nulla d'autorità che non avesse compiuto prima con il suo esempio o con il suo lavoro. Nei confronti dei monaci malati o molto anziani, pretese sempre che ci si comportasse con estrema dolcezza, ordinando inoltre che i malati fossero serviti nelle loro necessità da quei fratelli che loro stessi avrebbero scelto di preferenza; e non solo faceva loro preparare delle vivande convenienti al loro stato ma, inoltre, per evitare loro le fatiche dovute alla debolezza, permise loro di prendere i pasti separati e di restare in disparte fino al loro ristabilimento. [74]

172. Inoltre, (nelle sue relazioni) con la gente del secolo, si rese sempre disponibile senza avere preferenze personali: [75] abbracciava i poveri come i ricchi [76] e tutti erano ammessi in sua presenza e potevano sedersi al suo fianco; conformemente alla Regola dei Padri, [77] egli vigilava accuratamente affinché nessun monaco si presentasse senza il suo ordine alla presenza degli ospiti laici, fossero anche vicini parenti. Se un fratello riceveva un regalo dai suoi parenti, lo portava subito all'Abate o all’economo e si asteneva dal toccarlo senza l'ordine del Padre. [78]

173. Nessuno in monastero ebbe mai per nessun motivo una cella, un armadio o una credenza (a sua personale disposizione). [79] A nessuno era data l'occasione di lavorare per soddisfare la purché minima necessità personale. Infatti, fino ad un semplice ago ed ai fili di lana necessari alla cucitura ed al rammendo, tutto era messo a disposizione di tutti, in modo che fosse tolta ai fratelli la più tenue occasione di allontanarsi (dalla Regola). [80] Fra tutte queste occupazioni soltanto due erano permesse a tutti per un profitto personale: la lettura e la preghiera. Tutti i fratelli sanno di cosa parlo: nella vita cenobitica non mancano mai le più forti cause d'errore o di colpa, quando non si eliminano anche le più piccole. [81]

174. La nostra conversazione ci ha portati ad evocare alcune caratteristiche delle istituzioni dei Padri e l'imitazione che ne ha fatto il beato Eugendo. In accordo con la promessa che ho fatto prima, che io avrei riservato questi fatti a questo terzo piccolo lavoro, facciamo ora conoscere in primo luogo i primi passi di coloro che rinunciano al mondo, intanto che l'ispirazione di Cristo ce li richiama in memoria. Noi non abbassiamo per niente, con sdegnosa presunzione, le istituzioni un tempo promulgate dall’eminente san Basilio, vescovo della capitale della Cappadocia, [82] o quelle dei santi Padri di Lérins, [83] o quelle di san Pacomio, antico abate dei Siriani, [84] o quelle che formulò più recentemente il venerabile Cassiano ma, pur leggendo ogni giorno quelle Regole, è questa (del monastero di Condat) che ci preoccupiamo di seguire, perché fu senza dubbio introdotta in funzione del clima del paese e delle esigenze del lavoro e perché la naturale debolezza dei Galli la segue più efficacemente e più facilmente, piuttosto che quelle degli Orientali. [85]

………………………………………………………………………………………

175. Ed ora che il nostro modesto discorso, dopo avere contemplato il vasto mare di una (così grande) istituzione, come un tremante timoniere, voltando lo sguardo dovunque, gioisce per aver raggiunto il porto del silenzio, [86] riporterò brevemente i fatti riguardanti il transito del beato uomo.

Il Padre di cui abbiamo parlato prima, Eugendo, che aveva già superato la sessantina, da sei mesi circa soffriva di una malattia, senza tuttavia avere mai mancato neanche per un'ora agli uffici canonici e senza che si potesse indurlo a concedere al suo povero corpo esaurito qualche alimento oltre una volta al giorno; ed ecco che chiama a sé uno dei fratelli, [87] al quale aveva già in passato affidato in tutta libertà l’incarico di amministrare l'unzione ai malati e nel più grande segreto lo prega di fargli anche un'unzione sul petto, secondo l'uso. 176. Passata la notte e sul far del giorno gli chiedevamo come avesse riposato durante la notte ed egli scoppiò in lacrime ed in singhiozzi: «Che Dio onnipotente, disse, vi perdoni perché cercate di impedire che io sia in fretta liberato dalle catene del mio corpo, malato come sono».

Noi, tutti tremanti e versando abbondanti lacrime, scossi anche dai singhiozzi dei nostri cuori, tacevamo. «I miei signori Abati Romano e Lupicino, continuò, hanno portato sulle loro spalle e davanti a questo letto una barella; [88] dopo avermi abbracciato e dopo aver sistemato il mio corpo, mi hanno sollevato e messo sulla portantina per portarmi via. 177. Mentre costoro mi introducevano nell'oratorio tenendomi sulle loro spalle, voi siete accorsi sulla porta, mi avete strappato loro con violenza e mi avete riportato su questo letto. Dunque vi supplico, se avete qualche riguardo per un vecchio, o per un padre che vi ama, non trattenetemi qui più a lungo, ma lasciate infine che si compia il mio passaggio presso i Padri. Prego dunque e scongiuro tutti voi, miei piccoli figli, affinché osserviate la Regola dei Padri, inviolabile in qualsiasi punto, che avete ricevuto e che vi è stata trasmessa. In questo modo farete la mia gioia, farete quella di tutti i santi e la vostra, e vi condurrà fino alla palma della vittoria».

178. Aveva finito di parlare in mezzo ai nostri lamenti. Esattamente cinque giorni dopo si stendeva senza aiuto su quello stesso letto nel dormitorio quando, improvvisamente, sembrò addormentarsi e rese l'ultimo respiro. La sua spoglia santa e beata fu seppellita con grande rispetto e in nome di Cristo nel monastero stesso, in mezzo alla moltitudine dei suoi figli e dei suoi fratelli di Condat, dove i loro devoti discendenti continuano a servirlo. [89]

179. Saziate per il momento (a queste fonti), fratelli santissimi, la sete della vostra fede e del vostro entusiasmo, essendo per il momento soddisfatti i vostri desideri. Ma se le vostre anime, già piene di spregio per la filosofia, non possono soddisfarsi neppure di queste rozze chiacchiere, allora le Istituzioni che abbiamo redatto riguardo alla forma di vita del vostro monastero, cioè della Comunità di Agauno, su richiesta del santo sacerdote Marino, abate di Lérins, [90] colmeranno magnificamente, con l'aiuto di Cristo, tutti i vostri desideri - sia a causa dell’insigne carattere di questa istituzione, che a causa dell'autorità di colui che mi ha chiesto (questo lavoro). [91]

 


[1] Non è del tutto chiaro perché l'autore scrive qui di "obbedienza alla regola". In generale, si può pensare che il monaco debba restare in atteggiamento di obbedienza una volta iniziato il lavoro. Forse c'era anche un ordine diretto del suo attuale abate per completare la vita degli abati fondatori.

[2] Probabilmente qui troviamo l'indicazione dell’attività letteraria esistente tra i monaci a Condat. Nonostante tutte le affermazioni contrarie, il monaco si prende anche cura nel suo scritto dei "vocabula et tempora (i termini ed i tempi)". Tempora designa sia i tempi dei verbi, sia le quantità prosodiche, ovvero la durata delle vocali e delle sillabe.

[3] L’opposizione oratori (oratores)… pescatori (piscatores) è frequente nella letteratura patristica, specialmente nei commentari di 1 Cor 1: per esempio in sant’Agostino, Serm. XLIII, 6. In questo testo la fonte più prossima è il Prologo della Vita Martini dove questa opposizione è anche legata ad una citazione di 1 Cor 4,20. Così nella Vita Martini: “… poiché il regno di Dio si fonda non già sull’eloquenza bensì sulla fede. Rammentino anche che la salvezza fu predicata al mondo non già da oratori, bensì da pescatori”. La stessa opposizione la troviamo in testi agiografici come per esempio nel prologo della Vita Caesarii Arelatensis e nella lettera dedicatoria del De virtutibus sancti Martini di Gregorio di Tours.

[4] Questa spiegazione etimologica si applica difficilmente; piuttosto si deve ricordare che Isarnodurum deriva da un uomo di nome Isarnos e dalla parola gallica durum che significa mercato.

[5] Ancor oggi rimangono rovine importanti di questo tempio che, da un'iscrizione scoperta su di una pietra di reimpiego, era consacrato a Mercurio.

[6] A quell'epoca, un uomo sposato poteva essere ordinato sacerdote, a condizione di osservare la continenza. L'idea del celibato obbligatorio non si impone che poco a poco. Questo testimonium reso dal popolo al nuovo sacerdote è menzionato nelle formule dell'ordinazione nel rito gallico.

[7] I segni della santità "ab incunabulis" appartengono al modello agiografico come prova dell'elezione divina. Tuttavia l'autore è in grado di riprodurre le tematiche tradizionali in una stesura di testo originale e con ciò motiva la rapida entrata di Eugendo al Condat.

[8] Le api si posano sul volto del piccolo Ambrogio ed entrano ed escono dalla sua bocca (Vita Ambrogio 3). Mentre da Ambrogio le api sono come un segno dei suoi futuri lavori teologici, da Eugendo le api e le uve fanno riferimento alla folla di monaci del Condat.

[9] La dura espressione "de caeno paternae domus (dal fango della casa paterna)" deve essere compresa dalla giustapposizione tra "mondo e monastero" come è tradizionale nella letteratura ascetica.

[10] La visione si basa sulla scala di Giacobbe (Gen 28,12), mescolata con l’idea della "Gerusalemme celeste" e vuole mostrare un quadro della santa Comunità di Condat. Se, nella Bibbia, questa immagine sembra rappresentare la Provvidenza divina e prefigurare l'Incarnazione, qui essa è l'annuncio della fecondità e della santità di Condat.

[11] Cfr. Gv 14,6; ma l'anonimo, che cerca l'originalità fino nelle citazioni, non teme di invertire l'ordine dei due ultimi termini: la sua disposizione dei tre nomi aumenta l'effetto dell'allitterazione offerta già dalla Vulgata e perfeziona il ritmo della frase.

[12] Cfr. 1 Sam 3,3 “Samuele dormiva nel tempio del Signore, dove si trovava l’arca di Dio”. La relazione tra Samuele nel tempio ed Eugendo è chiara; ma è superata, secondo lo schema dell’esegesi della Chiesa primitiva, dall’esempio e dalla realtà. Per "Tempio di Cristo" vedere inoltre sopra, al paragrafo 114.

[13] Il concetto di sequela fu particolarmente familiare nel primo monachesimo. L’anacoresi egiziana ha trovato particolare espressione nel rapporto maestro-discepolo. Un antico prototipo di tale sequela lo troviamo in Eliseo, “su cui si è posato lo Spirito di Elia” (2 Re 2,9-10; 15).

[14] Vedere il paragrafo 26, dove è stata espressa la stabilitas loci per il convento di monache di Balme. Il requisito è dunque richiesto anche per le comunità di monaci. - Eugendo entrò nel monastero verso i sette anni come puer oblatus, (RB 59; RM 91). La morte di Eugendo viene stabilita nell’anno 516 / 517 (Vita par. 175: con oltre 60 anni). Era dunque nato nel 456/457 ed entrato in monastero nel 462/463. Secondo altre fonti nacque nel 450 e morì nel 510.

[15] Il programma giornaliero monastico stabiliva per tutti il tempo per il lavoro manuale e quello per il lavoro intellettuale; ma lasciava al monaco un certo tempo disponibile da utilizzare anche per la lettura (studium). Quando Eugendo imparò anche il greco (e non solo su testi greci già tradotti), rappresentò un'eccezione per quel tempo. In un Breviario medievale di Besançon si narra che lo Spirito Santo lo istruì in entrambe le lingue.

[16] Riguardo all’usanza di indossare l’abito fino a quando non era più utilizzabile, si confronti la “vita di Germano” (vescovo di Auxerre tra il 420 e il 450 circa) di Costanzo di Lione, al paragrafo 2 “(Germano) utilizzava i due elementi del suo abbigliamento (la cocolla e la tonaca) fino a quando non fossero completamente fuori uso, a meno che non se ne sbarazzasse in favore dei poveri”.

[17] La caracalla non è mai menzionata nella letteratura monastica. Solitamente la si considera una veste di origine gallica formata da un cappuccio, fermato alla gola con una fibula, con mantello o con maniche. Dall’abitudine all’uso di questo indumento prese il nome l’imperatore Caracalla, che era nato nella Gallia Lugdunense (regione dove si trova l’odierna Lione).

[18] Riguardo l'abate Leoniano a Vienne non ci è noto nient'altro. Lo si ricorda solo in un sarcofago conservato nel museo di St. Pierre a Vienne. Riguardo all’offrire vestiti in regalo si veda per es. il mantello donato ad Antonio da Atanasio e richiesto da Paolo come sudario (Vita Pauli, 12) oppure i vestiti tramandati da Antonio (“Dividetevi le mie vesti”, Vita Antonii, 58).

[19] Leoniano, originario della Pannonia (oggi per la maggior parte è Ungheria) potrebbe essere stato rapito dagli Unni e rimasto poi in Gallia. Visse poi come un recluso. Palladio, nella Storia Lausiaca 29-30 racconta di Elia e Doroteo, che dirigevano monasteri di monache da reclusi. Si noti che anche san Martino era originario della Pannonia.

[20] L’” aria serena e lieta" come segno di vicinanza a Dio è sottolineata anche nella Vita di Sant’Antonio 67,6: “la gioia del cuore rendeva lieto il suo volto”. L’Anonimo insiste anche sulle lunghe meditazioni di san Romano e san Lupicino, ma non descrive l’espressione del loro viso all’uscita dall’oratorio poiché non ha mai potuto osservarla. Avendo invece conosciuto sant’Eugendo trova un felice confronto per suggerire la profonda soddisfazione che si legge sul suo volto.

[21] L’ascesi nell’alimentazione di Eugendo dimostra che a Condat erano possibili certe libertà che invece vietava il cenobitismo rigoroso. La descrizione dell'autore corrisponde circa a ciò dice Giovanni Cassiano, Istituzioni Cenobitiche III, 12, ed anche RM 26. Inoltre sant’Eugendo non ha un tavolo separato dai fratelli (cfr. par. 170).

[22] Minauso è stato già menzionato più volte, ma mai con il suo nome, perché l'Autore della Vita non lo nomina esplicitamente. Conosciamo il suo nome tramite la lista degli Abati di Saint Claude. Una possibile spiegazione del fatto che non sia mai nominato è che la storia di questo abate non entrava nel disegno di quest’opera. Il piano dell’autore è quello di riunire il suo abate e maestro Eugendo con i due fondatori di Condat. Inserire anche la storia di Minauso avrebbe voluto dire rovinare l’equilibrio della composizione letteraria, la trilogia, di cui parla nella prefazione.

[23] Anche in questo caso la scelta avviene per designazione. Secondo la RM 92, 73 e seguenti, l'abate riunisce insieme tutti i monaci per la nomina del suo successore.

[24] Questo passaggio offre un interessante parallelo con quello in cui Sulpicio Severo racconta il tentativo di sant’Ilario di ordinare diacono san Martino: “Ilario tentò, conferitagli la funzione di diacono, ... di legarlo al servizio di Dio; ma avendo egli rifiutato più volte ...” (Vita Martini, 5,2)

[25] Cfr. sopra la vita di Romano 18; 20; ed anche la vita di Martino 5,2, come riferito nella nota precedente.

[26] Qui si vede chiaramente espressa la riserva del primo monachesimo nei riguardi dei monaci sacerdoti (cfr. Anche RB 62, RM 83). E’ un’interpretazione puramente ascetica. Pacomio respinge i monaci sacerdoti, perché temeva che all'interno della comunità monastica sorgesse da tale posizione "controversia, invidia e gelosia" (Th. Lefort, Les vies coptes de S. Pachöme, Lovanio 1943, p 237, 10-13). Nel monastero di Condat vi furono effettivamente dei monaci sacerdoti. Vedere dopo al paragrafo 151.

[27] Eugendo intravede in una visione la sua imminente benedizione abbaziale. Mentre la Regula Benedicti non conosce un tale rito, questo è descritto in dettaglio nella Regula Magistri 93. L'insediamento del nuovo abate si svolge nell'Oratorio del monastero (anche nella Regula Magistri, ma in cui è coinvolto il vescovo locale), in presenza di tutti i fratelli. La consegna del pallio (mantello) è prevista in entrambi i testi. Forse questo rito si riferisce a 2 Re 2,13, dove Eliseo raccoglie il mantello di Elia. Il trasferimento della cintura (mancante nella Regula Magistri) appartiene allo stesso contesto simbolico. La tunica dalmatica, un importante indumento utilizzato a Roma fin dal II secolo (una tunica larga con maniche larghe), a partire dal IV secolo è stato un indumento liturgico dei diaconi romani e anche dei vescovi di Roma. Come un speciale onorificenza, la dalmatica veniva concessa ai vescovi e diaconi stranieri (ad esempio sotto papa Simmaco, 498-541, ai diaconi di Arles). Solo a partire dal IX secolo è solitamente l'abito liturgico dei diaconi. Minauso ha indossato la dalmatica non certo come diacono, altrimenti anche Eugendo sarebbe stato diacono, ciò che non è detto da nessuna parte. Probabilmente qui abbiamo a che fare con un costume proprio del monastero di Condat, dove l'abate indossava la dalmatica.

[28] Anche le due altre vite degli abati mostrano difficoltà con la comunità monastica del Giura. L’autore non ci comunica i motivi della ribellione nei confronti di Eugendo. Si possono sospettare questi motivi: a) la giovinezza dell’abate, che forse non aveva ancora 40 anni di età; tuttavia, se si situa l'ordinazione dal 480 (morte di Lupicino) al 490 (morte di Minauso?), aveva comunque vissuto almeno 20 anni nel monastero, e b) il fatto della designazione, che era comunque comune anche per i predecessori e che sicuramente era conforme alla "regola" di Condat. Tuttavia, mentre questo tipo di designazione era stato ben accettato quando si trattò dei fondatori, nel caso di Eugendo forse non fu ben accetta perché si trattava di un abate non prestigioso come i primi. Forse era già conosciuta l’usanza di elezione dell'abate da parte di tutta la comunità, come ad esempio prevede la Regola benedettina al cap. 64, e questa rivolta era una sollecitazione per modificare l'attuale legislazione. A. de Vogue, La communauté et l'abbé dans la Règle de S. Benoit, Bruges 1961, pp 352, considera in linea di principio la designazione come sistema arcaico; con il consolidamento della comunità ha luogo la transizione verso una libera elezione. Eugendo rappresenta nel Condat già la terza generazione di abati, motivo per cui potrebbe essersi verificato un cambiamento nella modalità dell’elezione.

[29] Le difficoltà interne al monastero sono risolte dalla reputazione dell’abate taumaturgo all’esterno del monastero.

[30] La parrocchia Secundiacum non ha un’identificazione certa, ma dal racconto sembra essere piuttosto distante dai monasteri del Giura. Riguardo alla descrizione dell'origine della ragazza: "Iuxta saeculi dignitatem non infima" (“i suoi genitori erano di rango non basso, secondo la valutazione del mondo”), si confronti la vita di Martino 2.1: "parentibus secundum saeculi dignitatem non infimis" (detto dei genitori di Martino).

[31] L'esorcismo popolare lavora con formule di esorcismo scritte, una mescolanza di testi magici e liturgici.

[32] L’epiteto Alexandrina precisa a meraviglia la parola carta, sinonimo allora di papiro. Si tratta di un’interessante testimonianza del commercio di papiri egiziani attraverso i porti del Mediterraneo fin da quel tempo.

[33] Secondo Rufino, Hist. Eccl. VII 25(28), Gregorio il Taumaturgo (morto nel 270 circa) ha evocato Apollo con una lettera e con quel segno ha convertito un sacerdote di Apollo. L’Anonimo cita Gregorio il Taumaturgo con l’appellativo “Magno” non per ignoranza, come si è sospettato, ma per un’usanza comune in quel tempo. Per esempio Gregorio di Nissa lo qualifica abitualmente come “Magno”.

[34] Un impressionante esempio di tali formule di esorcismo. Il modo di rivolgersi al demone è un misto di dottrina ascetica cristiana (spiritus gulae, irae etc.), in accordo col pensiero pagano (lunaticus, dianaticus).

[35] Trasposizione originale, ma quasi letterale, di una frase di Sulpicio Severo in conclusione della prima delle resurrezioni compiute da san Martino (vita di san Martino 7.7). “Vere apostolicus” è il più bel elogio riservato a sant’Eugendo, poiché l’epiteto era allora assegnato quasi solo a san Martino.

[36] Syagria, della famiglia dei Syagrii, era un pia, ricca vedova di Lione, la cui carità è anche testimoniata da Ennodio di Pavia, Vita Epiphanii 173. Restata presto vedova, si votò alle opere di carità e distribuì in elemosine una gran parte della sua fortuna.

[37] Qui non si tratta di un biglietto con scritta la formula dell’esorcismo, ma di un'altra lettera, che è stata considerata come una reliquia. Si veda anche la vita di Martino 19, dove la figlia di Arborio viene guarita tramite il contatto del corpo con una lettera ricevuta da san Martino

 

[38] L’olio santo, vale a dire l’olio consacrato da Eugendo, era probabilmente distribuito in piccole ampolle. L’olio santo riveste un grande ruolo nelle guarigioni riportate dagli agiografi del V e del VI secolo. Le più note ampolle di olio provenienti da luoghi di pellegrinaggio dell’antichità sono quelle che erano distribuite nei santuari di Abu Mena (sud-ovest di Alessandria).

[39] Olio e biglietti di esorcismo sono stati distribuiti come oggetti devozionali.

[40] La descrizione ci fa conoscere Condat, al tempo di Eugendo, come un luogo di pellegrinaggio, nel quale il sanatorio è collegato al santuario, come gli antichi santuari di Asclepio (o Esculapio, il dio della medicina) e come le famose città santuari della chiesa primitiva.

[41] Nella seguente esposizione l'autore torna su di un tema favorito delle sue tre Vite, ovvero l'alta qualità spirituale della guida degli abati.

[42] La "tristitia" è considerata da Giovanni Cassiano, Conl. 5, 9-11, come uno degli otto vizi capitali.

[43] Sant’Eugendo offre un eccellente esempio di questo “spirito pedagogico, che procura il suo fondamentale tema a tutto il cenobitismo antico”, come dice il De Vogüé (La communauté et l’Abbé, p.25).

[44] Cfr. il precedente paragrafo 133

[45] Come la Regula Magistri 83 (meno chiara la Regula Benedicli 62) la Vita Eugendi limita l'attività del sacerdote nella comunità monastica al solo servizio liturgico. E’ degna di considerazione l’importanza conferita all’isolamento, una specie di separazione dal resto della Comunità, che si giustifica con la pratica penitenziale monastica. Il metodo penitenziale è interamente nelle mani dell’abate, che è l'unico responsabile per il perdono e l'assoluzione.

[46] I tre santi sono menzionati nella stessa lista nell’embolismo del Padre Nostro della liturgia della Messa secondo il canone romano, ovvero nella preghiera, recitata dal sacerdote, che “si intercala” tra il Padre Nostro e la dossologia, ovvero nella risposta dei fedeli.

[47] Roma è considerata fin dal II secolo il luogo di sepoltura di Pietro e Paolo (Eusebio, Hist. Eccl. 11 25,5-7). Andrea è stato giustiziato secondo gli Atti di Andrea, un testo apocrifo cristiano in greco composto tra il 150 e il 200, a Patrasso. Le sue reliquie sono state trasferite a Costantinopoli nel 357.

[48] Secondo l'antico pensiero l'uomo morto "vive" nella sua tomba; ciò che può essere espresso anche dalle reliquie. La divisione delle reliquie è stata praticata fin dalla seconda metà del IV secolo - a dispetto di leggi imperiali. – Un’interessante giustificazione teologica la si trova in Basilio, I quaranta martiri di Sebaste 8 “Essi serbano sotto il loro patrocinio la nostra regione come torri poste l'una accanto all'altra ad offrirci sicura difesa dall'assalto degli avversari, perché non si rinchiusero in un solo luogo, bensì ospitati in molti siti adornarono molte città. Ed è straordinario che non separati vengono a chi li riceva, ma uniti fra loro insieme tripudiano”.

[49] Con l'arrivo delle reliquie si chiarisce la visione precedente. La difficoltà di ottenere le reliquie degli apostoli a Roma è spesso attestata a quei tempi; per esempio una lettera del principe ereditario Giustiniano a papa Ormisda (514-523) con una richiesta di reliquie di Pietro e Paolo, e cioè "sanctuaria (ovvero dei veli), che erano stati posti nella cavità della tomba dell’Apostolo". Anche Gregorio Magno (590-604) si rifiutò di inviare reliquie originali dell’Apostolo a Costantinopoli: "Questa non è una consuetudine romana," e riferisce del terribile destino di coloro che si erano troppo avvicinati alla tomba del martire san Lorenzo e che morirono nel giro di dieci giorni. Per questo motivo egli propose reliquie che erano entrate in contatto con le reliquie originali (Ep. IV 30 alla figlia dell’imperatore Tiberio Costantino). I due monaci di Condat hanno quindi portato solo reliquie di contatto. Durante il V secolo è attestata una vivace venerazione di sant’Andrea. Santuari romani dedicati al santo risalgono ai Papi Simplicio (468-483), Gelasio (492-496) e Simmaco (498-514).

[50] Nella solenne sepoltura delle reliquie nell’altare di una chiesa rivivono elementi dell'antico sfarzo delle sepolture.

[51] Un modesto tentativo di giustificare la venerazione delle reliquie; vedere le precedenti note al paragrafo 153.

[52] Anche Martino comunica al suo ascoltatore “volto e aspetto dei santi " che gli erano apparsi: Agnese, Tecla, Maria e spesso Pietro e Paolo; vedere Sulpicio Severo, Dial. II, 13.

[53] Probabilmente 15 o 20 anni prima della vittoria di Clodoveo sugli Alemanni nell’anno 496, quando furono respinti al di là del Reno.

[54] Si noti che il testo latino “Tyrreni maris” è stato tradotto in Mar Mediterraneo, come già intendeva Sidone Apollinare. Probabilmente nel VI secolo si è prodotta questa confusione poiché il Mar Mediterraneo veniva chiamato Mare Terrenum: da qui lo scambio tra quest’ultimo aggettivo e la parola Tyrrhenus.

[55] Il "Paese degli Eriensi" è la zona intorno a Salins, circa 60 km a nord di Saint Claude, dove per lungo tempo ci si è riforniti di sale.

[56] Il visionario fenomeno luminoso come segno della vicina misericordia divina compare anche nel paragrafo 137.

[57] Poncin si trova a sud ovest di Nantua, situata nel dipartimento dell'Ain della regione del Rodano-Alpi, situato a circa 70 km di strada da Saint Claude. Dato che è impossibile percorrere questo tragitto in un solo giorno, anche a cavallo, si può supporre che il messaggero fosse partito uno o due giorni prima.

[58] Sulpicio Severo, Ep. I, 10-15, racconta di San Martino che scampa miracolosamente ad un incendio scoppiato nella sagrestia dove era alloggiato. L’Anonimo utilizza nel suo racconto delle reminiscenze in parte letterali del testo di Sulpicio.

[59] Secondo il paragrafo 163 si tratta di un’ampolla di olio che Eugendo aveva appeso come un filatterio sul suo letto. L'ampolla di olio poteva aver semplicemente toccato la tomba di San Martino (riguardo a tali “reliquie di contatto” ci informa Gregorio di Tours, In gloria Martyrum 27) oppure sarà stata riempita con l'olio delle lampade accese sulla tomba. Tali reliquie furono ricevute anche dalla regina Langobarda Teodolinda da parte di Gregorio Magno provenienti dalle tombe dei martiri romani (in parte conservate nel tesoro della cattedrale di Monza).

[60] Forse un'allusione a Giobbe 39,10, che viene ricompensato del doppio di quello che aveva.

[61] La lista degli abati di Condat nomina Antidiolo come successore di Eugendo, quindi al momento della scrittura della Vita. L'identificazione dell’Antidiolo qui menzionato con l'abate Antidiolo risulta difficile, anche a causa di ciò che ha detto l'autore a proposito del sacerdozio e dell’abate (vedere sopra ai paragrafi 133; 151).

[62] Cfr. Dan 3,49-50, anche se l’autore utilizza il testo biblico in modo non tanto letterale.

[63] L’ampolla poteva essere ammirata a Saint Claude ancora nel XVI secolo. L’uso dell’olio benedetto per la guarigione taumaturgica delle malattie è frequente (Si veda “Vita di Martino” 16, “Historia Monachorum” 1,12 e 21,17 con Giovanni di Licopoli e Macario che utilizzano l’olio per delle guarigioni. Così pure in Mc 6,13 e Gc 5,14). Infatti veniva chiamato “balsamo apportatore di salute”.

[64] La dote visionaria di Eugendo, che l'autore sottolinea notevolmente, si manifesta in modo simile anche nella prospettiva della sua morte; si vedano i paragrafi 176-177.

[65] A proposito di questa “fiuto spirituale” si confronti Vita Antonii 35, dove il santo sente la presenza di un posseduto nascosto in un battello. Eugendo sembra però avere delle capacità superiori a quelle di sant’Antonio.

[66] A proposito dell’atteggiamento gioioso di Eugendo, si confronti la vita di Martino 27,1: “Nessuno l’ha mai visto in collera, nessuno turbato, nessuno afflitto, nessuno in atto di ridere;….il volto raggiante d’una letizia per così dire celeste.

[67] Citazione quasi letterale di Vita Antonii 39. In queste affermazioni si trova l’ideale ascetico-monastico dell’apàtheia, ovvero uno stato di pace interiore che non viene più disturbata dagli affetti che pur rimangono nell’uomo (come dice Evagrio d’Antiochia).

[68] Testimonianze bibliche (Fil 3,20; Eb 13,14) si sono mescolate con il pensiero platonico per lungo tempo nella letteratura ascetica.

[69] Sull'origine della lettura monastica a tavola si veda Giovanni Cassiano, De Inst IV, 17. Cassiano precisa che l’uso della lettura a tavola, estranea ai monaci d’Egitto, è ststa introdotta dai Cappadoci, per esempio da san Basilio nelle Regole Brevi. Anche Cesario di Arles, Regula Monachorum 49 (Reg. Virginum 18), Regula Benedicti 38 e Regula Magistri 24 prescrivono che si legga a tavola. Eugendo, in questa occasione, ha così congiunto la sua comunità alla generale pratica monastica.

[70] La lezione "Archimandriti orientali" è attestata dai due più antichi manoscritti: Ci sono probabilmente, secondo l’autore, solo monasteri orientali di alto livello con stile di vita semi-cenobitico.

[71] Il dormitorio comune, illuminato da una lampada, è previsto anche da Regula Benedicti 22 e Regula Magistri 29.

[72] La Regula Benedicti 56 prevede che l'abate mangi con gli ospiti in una stanza separata, per evitare che i monaci siano disturbati dall'arrivo improvviso degli ospiti. La Regula Magistri 84 prevede una tavolo separato dell'abate (con gli anziani, gli ospiti e dei fratelli selezionati) nella sala da pranzo comune.

[73] Reminiscenza di At 4,32. L’Anonimo scrive col suo stile rafforzativo; “omnium omnino omnia erant” anziché “erant illis omnia communia”.

[74] La premura verso i malati si trova in tutte le regole monastiche, a partire da quella di san Pacomio. Sorprendente e insolita è la scelta degli infermieri da parte dei malati.

[75] Si confronti Rm 2,11: “Dio infatti non fa preferenza di persone”; Questo, e altri testi simili della Scrittura (Dt 10,17: Mt 22,16: Ef 6,9: ecc.), sono spesso citati nella letteratura monastica, come una massima per l'incontro con gli ospiti, così come all'interno del monastero.

[76] Osculum”, qui tradotto con “abbraccio” (seguendo la traduzione del Martine) può anche essere “bacio”. Si veda RB 53,5: ”Questo bacio di pace non dev'essere offerto prima della preghiera “. La preghiera ed il bacio della pace come gesti di augurio sono evidenti tradizioni monastiche già dai tempi dell’anacoresi egiziana.

[77] Questa "Regola dei Padri (Regula Patrum)" si trova ad esempio in Pacomio, Praecepta 51-53; Regula Magistri 79; Regula Benedicti 53, 23. Precetti analoghi si ritrovano anche nelle regole più antiche, come la Regola dei santi padri Serapione, Macario, Pafnuzio e un altro Macario.

[78] Anche qui è riportata una prassi monastica, per esempio, Pacomio, Praecepta 106; 113; Cesario di Arles, Regula Virginum 25 (che ha ripreso da Agostino), e Regula Benedicti 54 (con dipendenza da Cesario di Arles).

[79] Si confronti Cesario di Arles, Regula Virginum 9 (Regula Monachorum 3); Regula Magistri 16,57-61; Regula Benedicti 33.

[80] Vedere la vita di Martino 10,6: “Nessuno possedeva lì alcunché di proprio, tutto era messo in comune”; Regula Magistri 16,61: "Res monasterii omnium est et est nullius" “Il patrimonio del monastero è di tutti ed è di nessuno”.

[81] L'autore tratta in questa sezione della povertà monastica; invece di una regola schematica descrive il comportamento dell'abate, che mantiene la promessa dell’argomento della sua opera (Vita et Regula).

[82] Nella prefazione delle Istituzioni Cenobitiche, Giovanni Cassiano esprimeva già idee analoghe riguardo all’importanza delle Regole e degli insegnamenti dell’Oriente ed al necessario loro adattamento alle condizioni di vita del luogo dove vengono vissute.

[83] Tra i "Santi Padri di Lérins", l'autore può pensare a quegli scrittori monastici della Gallia meridionale che vivevano nel monastero dell'isola e che, con la loro vita ed il loro lavoro hanno propagato la pratica monastica di Lérins.

[84] Pacomio (morto nel 346) fu un monaco e abate egiziano, le cui regole furono tradotte da san Gerolamo. Di origine pagana, si convertì dopo avere ammirato la carità dei cristiani a Tebe, ove era tenuto prigioniero.

[85] Le righe mancanti sono una perdita insostituibile. Queste ci dovrebbero dare informazioni più dettagliate sulla osservanza monastica di Condat. L’autore, così come Giovanni Cassiano scrisse le sue Istituzioni, probabilmente voleva mostrare il particolare modo di vivere a Condat che, pur basandosi totalmente sulla tradizione monastica, ha trovato i propri adattamenti sulla base della "naturale debolezza dei Galli".

[86] Formulazioni simili si trovano in Giovanni Cassiano, Conl. 8,25; 22,16; 24,26. Si confronti anche Leandro di Siviglia, Regola per la sorella Florentina 31.

[87] Il Martine sospetta che questo fratello sia l'autore della Vita. Dal momento che è improbabile che sia stato un sacerdote, il testo è una prova della pratica ancora aperta dell’unzione ecclesiastica degli infermi.

[88] I due abati fondatori accompagnano tutta la vita di Eugendo, la cui fedeltà è manifestata dall’espressione "accepta ac tradita patrum instituta - la Regola dei Padri ricevuta e trasmessa ". Questa fedeltà sostiene il moribondo ed anche la sua comunità.

[89] Il giorno della morte: 1 Gennaio 512/14.

[90] Marino, attualmente l'autore delle Vite degli abati di Lerins, può essersi fatto spedire dall'anonimo gli "Instituta" di Agauno, probabilmente per rendere più fruttuosa l’osservanza del monastero dell'isola. Che il monaco di Condat compili questi “Instituta”, è ancora una volta una chiara indicazione del collegamento tra i monasteri di Condat e di Agaune-Saint-Maurice.

[91] In questo ultimo paragrafo si notano diverse reminiscenze di Cassiano. In particolare si riferiscono alla Prefazione delle Conferenze XI-XVII, indirizzate al vescovo Onorato ed al monaco Eucherio. “Se poi anche queste Conferenze non potranno saziare la santa sete delle vostre aspirazioni, sette ulteriori Conferenze, che io mi propongo di inviare ai santi confratelli che dimorano nelle isole Stecadi, appagheranno (latino: explebunt), come io suppongo, i vostri desideri. Explebunt è anche l’ultima parola della Vita dei Padri del Giura.


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7 aprile 2015                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net