Léo Moulin

 LA VITA QUOTIDIANA SECONDO SAN BENEDETTO

 

Capitolo quarto

L'IDEA BENEDETTINA

DELL'UOMO

E LA SUA ATTUALITA'

 

1. Come Benedetto vede gli uomini

 

Quanto finora ho detto è stato il più delle volte scritto all'imperfetto: questo perché la vita quotidiana dei monaci nel Medioevo mi è più familiare. Non se ne deve però dedurre che la vita che essi conducono oggi è radicalmente diversa né, soprattutto, che essa è solamente un anacronismo o una sopravvivenza. Le poche pagine che seguono vogliono appunto dimostrarlo.

Basta vivere qualche giorno in alcune abbazie benedettine per convincersi che i ritmi e i riti, gli usi e i costumi della vita monastica moderna sono rimasti in generale simili a quelli conosciuti dai predecessori dei monaci di oggi.

Una lettura moderna della regola può convincerci che il grande progetto nato dal genio di San Benedetto, padre dell'Europa (Pio XII, 18 settembre 1947), «messaggero di pace, artigiano di unità, maestro di civilizzazione» (Paolo VI, 24 ottobre 1964) è sempre presente, ed è vigorosamente valido oggi quanto nei secoli scorsi.

 

E' un fatto: San Benedetto non nutre alcuna illusione a proposito dei suoi monaci, a maggior ragione degli uomini in generale. Egli conosce per esperienza la loro doppiezza, vulnerabilità, fragilità radicale, la loro tendenza alla pigrizia e al lasciar correre, la loro profonda cattiveria. Sono dei vizi «congeniti alla natura umana», dice Molière, e i monaci non ne sono esenti. Non c'è quasi pagina della regola che non sottolinei, in un modo o nell'altro, questi limiti e queste debolezze: «noi, rilassati, pieni di difetti e trascurati» (c. 73,17-19), «tiepidi e parassiti» (c. 18,74), «Se qualche fratello è trovato ribelle» (c. 23), «se un fratello spesso è ripreso per qualche difetto...» (c. 28), ancora: «se un fratello arriva in ritardo all'opera di Dio..» (c. 43), «se un fratello si accompagna senza permesso agli scomunicati..» (c. 26), e così di seguito. Ripeto: non c'è, per così dire, pagina della regola dove non appaia la coscienza che il patriarca ha della debolezza intrinseca dell'uomo e della sua vulnerabilità. Ha appena detto, per esempio, quali devono essere le qualità dei cellerario (c. 31) - «saggio, maturo, di carattere sobrio, timoroso di Dio, eccetera» - , che si affretta a sottolineare i difetti che egli non deve avere: non mangione, non arrogante, non testa calda, non insolente, non indolente, non prodigo (c. 31,4-24), e così via. A prima vista la cosa sembra così ovvia che non si immagina un padrone nell'atto di assumere un contabile pronto a raccomandargli di non attingere alla cassa.

San Benedetto nutre così poche illusioni sugli uomini che egli prova il bisogno di dire ciò che essi non devono fare o essere.

Se ne vuole un altro esempio? Lo prendo dal capitolo 36 dal titolo De infirmis fratribus. Dopo aver raccomandato i malati alla benevolenza e allo zelo di coloro che li curano, ante omnia et super omnia (c. 36,1), Benedetto aggiunge che, a loro volta, i malati non dovranno «contristare, con le loro esigenze superflue (superfluitate), i fratelli che li curano» (c. 36,5-8).

Ancora un altro esempio: si tratta questa volta di coloro che ad Opus Dei... tarde occurrunt (c. 43). Il monaco arrivato in ritardo non occuperà il suo posto in coro; starà in disparte, all'ultimo posto, di modo che sia visto dall'abate e da tutti i fratelli nella speranza che l'umiliazione lo correggerà (pro ipsa verecundia, c. 43,17). Tutto questo rivela una eccellente pedagogia. Ma dove si rivela il genio di San Benedetto è quando egli spiega (c. 43,18-22) il motivo per cui non esclude i ritardatari: perché, egli scrive, «rimanendo fuori dall'oratorio, ci sarebbe probabilmente qualcuno che se ne tornerebbe a letto a dormire o almeno se ne starebbe comodamente seduto fuori, oppure si metterebbe a chiacchierare».

Il minimo che si possa dire è che San Benedetto non si fa affatto illusioni sullo zelo spontaneo dei suoi fratelli nel celebrare l'Opus Dei.

 

Si vuole un'ultima illustrazione dei modo di vedere coloro che pure aspirano a una vita di perfezione? Si tratta di un'annotazione molto breve di San Benedetto nel capitolo De hospitibus suscipiendis. Il patriarca raccomanda di ricevere i poveri e i pellegrini tamquam Christus (c. 53,11), cioè con il massimo di riguardo perché in ipsis magis Christus suscipitur (c. 53,31-33), quanto ai ricchi invece il timore che essi ispirano è sufficiente ad assicurare loro un trattamento onorevole, nam divitum terror ipse sibi exigit honorem.

Per il Patriarca, uomo del concreto, uomo del possibile e quindi uomo di governo, gli uomini non sono né naturalmente buoni, né naturalmente ragionevoli, né naturalmente dotati di fermezza. Grande lezione di saggezza politica: non si edifica una società giusta e duratura come l'ordine benedettino su una concezione ottimistica dell'uomo.

Questa visione realistica non suscita tuttavia in lui né rigido disprezzo, né animosità. San Benedetto è un maestro esigente: egli non ha niente a che vedere con il puritano cupo e rinsecchito, «dallo zelo cattivo e amaro» (c. 73,1).

Nella regola non si trova alcuna traccia dell'impietosa durezza, della lucidità gioiosamente crudele, dell'allegria intellettualmente cattiva che costituiscono il genio di Machiavelli: «Perché degli uomini si può dire questo generalmente: che siano ingrati, volubili, simulatori, fuggitori dei pericoli, cupidi di guadagno... E gli uomini hanno meno respetto a offendere uno che si facci amare, che uno che si facci temere». Avrete certamente conosciuto il tono (Principe, c. XVII). E' per questo che è preferibile essere temuti che amati. San Benedetto invece si sforza di essere amato anziché temuto (c. 64,73).

 

Benedetto, così duro con se stesso, si rivolge in effetti ai suoi monaci come «un tenero padre» (Prol. 3), come un medico delle anime (c. 28,8), un pastore attento a tutto ciò che riguarda coloro che egli ha il dovere di governare (c. 4), come un uomo che «odia i vizi ma ama gli uomini» (c. 64,28) e che «sempre antepone la misericordia alla giustizia» (c. 64,27).

Egli è indulgente e lo è precisamente perché sa che l'uomo è, per natura, debole e cattivo. «I disegni dei cuore dell'uomo sono cattivi fin dall'infanzia» (Gn 8,21). E' per questo che Benedetto perdona così volentieri (contrariamente a coloro che hanno una visione ottimistica della vita).

 

2. Necessità delle istituzioni

 

Senza voler assolutamente ridurre la prodigiosa avventura benedettina alle sue sole dimensioni umane, può essere interessante, e fecondo, domandarsi se e in quale misura taluni aspetti puramente funzionali e istituzionali dell'organizzazione benedettina possano spiegare il suo enorme e duplice successo; quindi, superata questa prima tappa, se e in quale misura, il pensiero dei fondatore, la sua visione dei mondo, la sua percezione dell'uomo, in quel che hanno di più semplicemente e strettamente umano, spieghino il successo e la perennità della sua azione. L'approccio è rischioso, non si può negarlo, trattandosi di un uomo come San Benedetto, la cui caratteristica prima è un'estrema religiosità; ma vale la pena, mi sembra, di tentarlo, se non altro nel senso di un rilettura moderna della Regola.

Perché, accanto a quell'intensa vita spirituale che fa vibrare uomini della statura di Benedetto da Norcia o di Bernardo di Chiaravalle, o, più esattamente, nel seno stesso di questa vita spirituale, a proteggerla, a organizzarla, a favorirla anche, e insieme a nutrirsene, troviamo -per forza dì cose, giacché si tratta di «governare gli uomini» e di «amministrare le cose»- delle strutture e un'organizzazione costituzionali che si collocano, si voglia o no, su di un piano puramente umano.

Facciamo un esempio, che servirà a chiarire quanto abbiamo detto. Parlando dell'elezione dell'Abate, Benedetto non scrive: E' evidente che Dio non permetterà mai che la comunità intera elegga una persona complice della sua sregolatezza.; forte della sua esperienza, scrive invece: «Se, per disgrazia (quod quidem absit) capitasse che la comunità intera, di comune accordo, eleggesse una persona complice della sua sregolatezza».... Su di un piano strettamente umano la cosa è possibile; dunque, Benedetto accetta la possibilità di una comunità depravata al punto di scegliere, coscientemente, un capo indegno.

Di fronte a un simile scandalo, Benedetto non prevede affatto l'intervento di un Dio corrucciato, si rimette invece al vescovo della diocesi, agli abati e ai cristiani dei dintorni, cioè a un intervento puramente umano, per riportare l'ordine.

Val la pena di ricordare un particolare, che rappresenta uno degli apporti fondamentali della civiltà monastica nel Medioevo: molto prima dei Comuni italiani e fiamminghi, e in modo ben altrimenti perfezionato rispetto ai Romani, la Chiesa, e in particolare gli ordini religiosi, hanno messo a punto le condizioni di un regime di diritto infinitamente meno sacralizzato di quanto non sarà l'ideologia democratica dei 1789, nel quale nessun potere assoluto, Assembleare o Superiore, può essere legalmente esercitato, certe forme di obiezioni di coscienza. sono riconosciute e un codice elettorale e deliberativo complesso e minuzioso assicura (in linea di principio!) un funzionamento pacifico e regolare (Il primo codice elettorale è quello di Lorenzo di Somercote: risale al 1254). Ancora, è previsto che l'organizzazione delle elezioni e delle deliberazioni si attenga a un livello del tutto «terreno» (per evitare le frodi, le pressioni, gli intrighi ... ). Concluse le preghiere e la messa che la precedono, la scelta dell'Abate è collocata su di un piano assolutamente secolarizzato.

 

Come abbiamo visto, Benedetto vede gli uomini, siano pure i suoi fratelli, così come sono, lucidamente, senza la minima illusione. Partendo da questa constatazione, mi sono dedicato a una rilettura della Regola, mettendomi nello stato d'animo di un uomo del nostro tempo, del capo di un'impresa ad esempio, che si domanda che cosa un documento tanto antico può ancora dargli.

Da un tale punto di vista, la rilettura di questo documento di non più di novemila parole, si è rivelata di una ricchezza insospettata e, soprattutto, di una sorprendente attualità. In tutta la Regola, praticamente ad ogni pagina, Benedetto parla degli «agitati», dei «ribelli», dei «cattivi», dei «caparbi», «degli orgogliosi», dei fratelli con scarsi meriti intellettuali o religiosi, che, insieme -comunque!- ai «dolci», ai «pazienti», agli «obbedienti», formano il «gregge turbolento e indocile» (c. 2,19), affidato alla sollecitudine pastorale dell'Abate. E, aggiunge, talvolta invano (ma è l'Abate che dovrà renderne conto a Dio).

Benedetto parla anche del priore, che può essere animato da un «cattivo spirito d'orgoglio», dei decani che «si gonfiano di superbia» (c. 21,12), dei monaci estranei all'abbazia, che rischiano «di turbare il monastero con le loro vane esigenze», dei preti ordinati che devono guardarsi dall'«alterigia» (elationem) e dall'«orgoglio» (superbiam) e così di seguito.

Che i malati non stanchino, scrive, «con le loro esigenze superflue» coloro che li curano. Benedetto conosce gli uomini. Che i poveri e i pellegrini siano bene accolti: «quanto ai ricchi... la paura del loro biasimo induce dì per sé a onorarli». Una constatazione fin troppo vera, senza dubbio, ma che non fa certo onore al Padre ospitaliere, non si può negarlo. Stiamo bene attenti: Benedetto non dice: «Il Frate ospitaliere si comporterà certamente in questo modo», si limita a notare che potrebbe farlo. Senza illusioni.

Lo stesso Abate, come tutti quelli che esercitano il potere, o un frammento di potere, dev'essere ben consapevole di correre il rischio di essere lui pure consumato dalla «fiamma dell'invidia e della gelosia», o animato da un «eccesso di zelo pieno di acrimonia»; deve conoscere la sua, «fragilità», le sue debolezze e i suoi limiti, e sapere che, correggendo le debolezze dei suoi fratelli, in realtà si trova ad affrontare i suoi stessi difetti (ipse efficitur a vitiis emendatus c. 2; 112). Si ricordi soprattutto che non gode di un potere arbitrario (quasi libera ... potestate, c. 63,6).

E' sufficiente, d'altronde, dare una scorsa alle relazioni dei visitatori di Cluny o di Cîteaux per convincersi che questo pessimismo della percezione benedettina è lungi dall'essere eccessivo o ingiustificato: non c'è vizio o delitto, a volte addirittura crimine, che non vi compaia. A ben guardare, ne viene fuori l'immagine di una società monastica piuttosto simile alla nostra, con questa differenza -e non è da poco: la percentuale dei peccatori è, comunque, meno elevata e questi sono, il più delle volte, pentiti.

Ecco, in soldoni, come Benedetto vede i suoi fratelli (e, a fortiori, gli altri uomini): la loro debolezza è radicale. In loro il male, la tentazione del male, ha la meglio sul bene; l'inclinazione naturale a lasciarsi andare è più forte della loro volontà di agire bene.

Di qui, naturalmente, l'assoluta necessità di una guida, una regola, un codice, di leggi o di istituzioni, che sopperiscano alla sostanziale fragilità della natura umana.

Benedetto denuncia violentemente (c. 1) quei giovani «isolati o a piccoli gruppi», «senza un capo», che errano «per tutta la loro vita», «sempre in strada, mai tranquilli», «asserviti solo al proprio capriccio», che hanno come unica «legge il soddisfacimento dei loro desideri», cioè del piacere più immediato e decidono «d'autorità» quello che (secondo loro) è permesso e quello che non lo è, ciò che è bene e ciò che è male. Conosciamo l'antifona.

Tentativi di questo genere sono destinati all'insuccesso, la storia l'ha confermato più di una volta (la tentazione anarchica. è vecchia quanto il mondo e l'esistenza delle «libere comunità di base» e dei drappelli «senza Dio né capo», tenuti insieme dal solo amore umano, è di tutti i tempi).

Ma, dirà qualcuno, e gli eremiti? Gli eremiti non vivono anch'essi «senza capi», «soli o in piccoli gruppi»? Benedetto stesso non ha cominciato la sua vita con lunghi anni di eremitaggio? Che ne pensa lui, che ha messo insieme l'esperienza della solitudine più totale con quella della vita comunitaria? Egli stesso ci risponde, nel primo capitolo della sua Regola: ci sono dapprima, e soprattutto, «i cenobiti, quelli che vivono in comunità in un monastero e militano (militans) sotto una Regola o un Abate», dunque nel quadro delle istituzioni anteriori ed esterne ai monaci.

Seguono gli anacoreti o eremiti, che non sono dei novellini: non ci si improvvisa eremiti, sotto la spinta del «semplice fervore dell'esordio nella vita religiosa». Sono, al contrario, degli uomini «formati da una lunga prova», vissuta nel monastero, nel seno della «milizia fraterna» dei loro fratelli, degli uomini «ben esercitati», trascinati alla battaglia solitaria del deserto. che, «sicuri di loro stessi, possono condurre la lotta» contro i vizi della carne e dello spirito, «senza l'aiuto di nessuno», ma Deo auxiliante, «con l'aiuto di Dio».

Prova terribile, avventura pericolosa, riservata soltanto a pochi, nella quale non è consigliabile arrischiarsi, senza essersi sottoposti, prima di tutto, ad un lungo e duro processo di socializzazione, che permette di interiorizzare le strutture e lo spirito della vita monastica, in modo che l'anacoreta non cessi di appoggiarsi alle istituzioni che la solitudine sembra aver cancellato. Mutatis mutandis, è, vissuta su di un piano religioso, e volontariamente, l'avventura di Robinson Crusoe, il più solitario e il più socializzato degli uomini, che trionfa sulle insidie e sui pericoli della solitudine perché, naufrago miserabile, è stato plasmato al cento per cento dalla società stessa, per poter fare a meno di lei. In un certo senso e provvisoriamente.

 

3. «Conoscere gli uomini e amarli lo stesso»

(Leone Tolstoj)

 

Benedetto dunque conosce gli uomini, le loro debolezze e i loro limiti. Non nutre alcuna illusione a loro riguardo. Tuttavia, ed è questo che lo distingue da un Machiavelli, ad esempio, o da un Hobbes, la sua visione disincantata e realistica non lo induce a pensare che i figli di Adamo siano irrimediabilmente perduti e che non ci sia nulla da fare o da sperare. In Benedetto non c'è traccia di disprezzo o acredine, non c'è ombra dello «zelo tetro e amaro» (c. 73,1), che anima tanti puritani o idealisti che vogliono fare la felicità della gente suo malgrado.

Benedetto ama gli uomini per quello che sono, e specialmente i deboli, i malati, i vecchi, i poveri, i giovani, i peccatori, i recidivi (c. 31). Per loro vuole essere un «tenero padre», che «sempre preferisce la misericordia alla giustizia» (c. 64,26), che «desidera farsi amare piuttosto che temere» (c. 64, 36). Machiavelli, e qui sta tutta la differenza, opta per la paura e il terrore (Il Principe, cap. XVII), Benedetto è il pastore di un gregge a cui non propone nulla di rigoroso e gravoso (nihil asperium, nihil grave, Prol. 107), in quella che, dopotutto, ai suoi occhi è soltanto una «piccola regola per nuovi adepti», (hanc minimam inchoationis regulam, c. 73, 23).

Di questa tenerezza, incessantemente e attivamente presente, si potrebbero moltiplicare gli esempi: ogni pagina della Regola ne offre a iosa. Notiamo, ad esempio, con quanta umanità Benedetto tratta i fratelli esclusi, per errori gravi, dalla comunità, gli scomunicati, i recidivi. Un problema sociale che ci è familiare anche oggi. Per lui costoro sono, anzitutto, dei malati (c. 27 e 28) ai quali la Comunità deve stare vicina con tutto il cuore, per evitare che affondino «in un abisso di tristezza» (abundantiori tristitia). Se tutti i rimedi falliscono, la Comunità deve ricorrere a «un mezzo più efficace», la preghiera, «affinché il Signore, che può tutto, renda la salute al fratello malato» (c. 28, 17), che verrà così a resipiscenza. La stupenda parola! Derivata da sapientia, etimologicamente significa «ritorno alla ragione», e solamente in seguito assumerà il significato di «pentirsi». Essere -infine- ragionevole, comprendere, conduce al pentimento (speriamo).

La sollecitudine di Benedetto non si applica solo ai casi estremi, come quelli di cui abbiamo appena parlato, ma si estende agli aspetti più umili del vivere quotidiano. Ne è testimonianza questo passaggio dei capitolo 22: «Levandosi... i fratelli si incoraggino dolcemente (sottolineo l'avverbio, L.M.), in modo da non offrire a quelli (ancora) assonnati il pretesto di reagire brutalmente». E altrove (c. 8): «Ci si leverà all'ora ottava della notte (cioè, tra le due o le tre dei mattino), in base a una valutazione ragionevole in modo che ci si alzi a digestione compiuta» (iam digesti surgant). E più avanti, questo passaggio, nel bel mezzo del capitolo relativo agli «uffici divini della notte», che tratta di un dettaglio assolutamente prosaico (ma Benedetto, padre del monastero, pastore del gregge, medico delle anime, Vicario di Cristo, pensa a tutto): «dopo un breve intervallo, durante il quale i fratelli potranno uscire per soddisfare i bisogni della natura. (ad necessaria naturae c. 8,12»...

Bisogna prendere gli uomini come sono, nella piena coscienza della loro intima debolezza, della debolezza dei deboli., (infirmorum contuentes imbecillitatem, c. 40,6); organizzare, ad esempio, il lavoro con moderazione, tenendo conto di quelli che sono deboli (mensurate (...) propter pusillanimes) «infermi o delicati» (c. 48,57) e, soprattutto, è necessario non pretendere che siano conformi all'immagine astratta, idealizzata, che ci si è fatta dell'uomo.

 

Gli uomini bisogna accettarli per quello che sono, nella loro infinita diversità, nonostante le ineguaglianze nel sapere, nell'intelligenza, nella ricchezza spirituale, nella saggezza, nei meriti, nello zelo, nella resistenza fisica e morale, che li caratterizzano. Perché soltanto agli occhi di Dio esiste e può esistere uguaglianza: «noi serviamo, allo stesso titolo, nella milizia di un solo Signore» (c. 2,56). Sul piano del terreno e del quotidiano, gli uomini sono profondamente ineguali. Benedetto lo sa e lo dice.

L'Abate dovrà dunque «piegarsi alle disposizioni della maggioranza», «senza parzialità», «secondo il valore dell'intelligenza di ciascuno» (c. 2,92); «non turberà il gregge che gli è affidato» (c. 63,5) con decisioni arbitrarie o nocive all'armonia della Comunità. Non deve logorare le sue pecorelle con troppe pretese, ma guidarle con «discernimento e moderazione» (discernat et temperit, c. 63,42) -due parole-chiave del pensiero benedettino.

Dunque, niente gregari. Nessuna irreggimentazione, nessun livellamento alla base. Meno ancora egualitarismo, questo attentato alla dignità della persona umana, che mortifica i migliori, abbassandoli ingiustamente al livello della folla, e avvilisce gli umili, facendo loro credere, mendacemente, che non esistano differenze tra gli uomini. L'Abate deve rispettare le diversità tra un uomo e l'altro e dare ad ognuno la possibilità di far fruttare il talento (Matteo, 25,14-30) che Dio gli ha dato, e in questo modo di sbocciare.

L'età in sé non è un merito né un demerito: «in nessun momento, e in nessun caso, l'età saprebbe creare un prestigio o un'inferiorità» (c. 63,14): questo significherebbe l'introduzione di un elemento meccanico nel processo di giudizio e di scelta, e un attentato alle ricchezze potenziali della diversità. La frase è sconvolgente, per quell'era della gerontocrazia in cui fu scritta. Benedetto spiega: «spesso è proprio ai più giovani che Dio rivela la soluzione migliore» (c. 3,8).

L'Abate dunque verrà scelto «in base ai meriti della sua vita e alla saggezza della sua dottrina, anche se è l'ultimo (per la data della sua professione, L.M.) nella gerarchia della comunità» (c. 64,7-8). L'età non ha importanza; è (in linea di principio, perché gli uomini restano uomini) un sistema di selezione e di promozione che si basa su di un'amplissima gamma di scelte possibili.

Segue uno splendido quadretto di quel che deve essere il capo di un'impresa benedettina. L'Abate, «Vicario di Cristo», dalla cui volontà tutto dipende e deve dipendere, sarà, proprio per questo, moderato, riservato, indulgente; non sarà agitato o inquieto, eccessivo o ostinato, o geloso o troppo sospettoso (un po' è bene che lo sì: è il destino di tutti coloro che dirigono un'impresa). Che non finga, soprattutto, di ignorare gli errori nascenti; che vi porti rimedio, che li «recida alla radice», appena «cominciano ad avere un peso». Che non esiti dunque a punire, ma «con prudenza e carità», «senza nulla di eccessivo», dosando i suoi interventi a seconda delle circostanze (Miscens tempora temporibus, c. 21,13). (Questo vale.,per gli insegnanti, per gli ufficiali e per i capifamiglia). Perché, di tutte le virtù che insegna Benedetto, quella che mette maggiormente in evidenza è la discretio, «madre di tutte le virtù» (c. 64,48), ovvero il senso della misura, il discernimento, la moderazione, il giusto equilibrio tra quel che si può sperare dagli uomini e i gravami della realtà quotidiana.

In Benedetto non c'è niente di repressivo. Quando punisce, vuol punire l'errore o l'ostinazione in esso assai più che il colpevole. Dal momento che non si fa illusioni sugli uomini è incline a perdonare: ai suoi occhi, la colpa è parte integrante della natura umana, ed è alla luce di una simile visione che egli la giudica. Punire, punire un «malato», va bene, ma non troppo, «per non spezzare la canna (già) incrinata» (c. 64,33), per non infrangere il vaso, a forza di voler «togliere la ruggine» (c. 44,31): non sogniamoci di voler rendere gli uomini perfetti, soprattutto loro malgrado. Insomma, «che l'Abate odi i vizi, ma ami i fratelli» (c. 44,27): la distinzione non è sempre facile da fare. E meno ancora da applicare nella vita di tutti i giorni: come amare questo fratello «vizioso», «colpevole», «malato», forse, ma «cattivo ?

Benedetto ha piena coscienza del fatto che la vera grande arte è quella di governare gli uomini, come verrà detto nel Medioevo: «ARS ARTIUM, GUBERNATIO HOMINUM».

Egli sospira: «E' un compito difficile e faticoso governare gli uomini» (c. 2,84)

 

4. Una attenzione totale

 

La visione realistica degli uomini che impregna tutta l'esperienza personale di Benedetto e ispira la sua Regola, non induce affatto il Patriarca d'Occidente ad abbandonarli a se stessi; è convinto che del «gregge turbolento e indocile» che gli è affidato sia possibile fare qualcosa di buono. Questa «piccola Regola per i neofiti» può, quanto meno, permettere di acquisire «onestà di vita e muovere i primi passi nella vita religiosa»: per mezzo della preghiera, «breve», «pura e frequente», della mortificazione («odiare la propria volontà»), con l'obbedienza e con la fede. Per mezzo della vita vissuta insieme ai fratelli, in quella preghiera di pietra che è il monastero, «l'officina (officina), dove, scrive Benedetto, dobbiamo lavorare diligentemente con tutti questi strumenti. (c. 4,98), animati dalla ferma intenzione di restarvi sempre legati. (stabilitas, c. 11,99). «Militando sotto la Regola e l'Abate., incarnazione della Regola cui si deve obbedienza e che è il solo autorizzato ad esigere tale obbedienza (Regulae auctoritas, c. 37,3). Sono questi gli ingredienti fondamentali di tutta la vita religiosa.

 

Interviene ancora un altro elemento, altrettanto fondamentale, sia nella vita quotidiana dei religiosi, sia, questa volta, nella vita quotidiana del cittadino del nostro tempo: voglio parlare dell'osservanza. L'osservanza, che è la stretta applicazione, in tutti i momenti della vita, in tutte le azioni, di una attenzione tesa e totale. Significa fare, «senza ritardo», senza esitazioni, senza mormorare né replicare, senza tiepidezza o pigrizia, con zelo e applicazione la missione affidata a ciascuno, o semplicemente i piccoli doveri quotidiani. E farlo bene! Vuol dire essere sempre presenti a se stessi, senza sosta: Actus vitae suae omnia hora custodire (c. 2,56), che, in linguaggio moderno, si potrebbe tradurre: «conservare ad ogni istante il controllo delle proprie azioni», dei propri atti, dei propri gesti e del proprio pensiero. La distrazione, il ritardo, la balordaggine, la dimenticanza, il lapsus, la fantasticheria, la negligenza, l'errore (nell'oratorio, c. 45, a tavola, c.38) non sono permessi. L'uomo è sempre considerato responsabile di ciò che fa, di quel che è e di quel che pensa. (E' inutile, credo, sottolineare la modernità di questa esigenza: il self-control, la padronanza di sé, la razionalizzazione dei comportamenti, sono uno dei fondamenti dell'azione e della supremazia europea nelle società del passato (Cf. L. Moulin, L'aventure européenne, pp. 67-69).

Citiamo un solo passaggio della Regola, il capitolo 46, per illustrare quel che abbiamo appena detto: «Quando a un monaco, durante una qualunque attività, nelle cucine, in cantina, nel corso di un servizio, nella panetteria, in giardino, nell'esercizio di un mestiere, o in qualsiasi luogo (notiamo l'enumerazione, il più possibile esaustiva), capita di sbagliare, di rompere o di perdere qualche cosa, o di commettere un altro fallo, dovunque ciò avvenga...»: ecco tutto questo costituisce una colpa, un delitto (delictum). D'altronde, Benedetto precisa (c. 33): «Se qualcuno tratta uno degli oggetti del monastero senza garbo o con negligenza,sarà rimproverato. Se non si corregge (sempre quest'idea tipicamente benedettina: è la perseveranza a costituire la colpa per eccellenza), subirà la disciplina regolare, che va dalla reprimenda pubblica (c. 23), alla privazione della «comunità del desco» (c. 24), dalla scomunica alla verga.

In nessuna circostanza, per poco importante che sia, il monaco può sbagliare o cedere, né può giustificarsi dicendo «non l'ho fatto apposta». Certo, ma hai sbagliato. Oppure «Ho creduto di far bene»: bisogna far bene, e non «credere» -questo verbo invertebrato- di averlo fatto. É così di seguito.

Praticando giorno dopo giorno, scrupolosamente, queste virtù, è possibile diventare un pochino migliori di quanto non si fosse al punto di partenza; senza illusioni, perché la caduta e la recidivia non sono mai lontane e sono sempre possibili.

Taluni, tuttavia, potranno percorrere un cammino più arduo (omnia dura et aspera) che permetterà loro di «raggiungere le più alte cime della dottrina e della virtù» (c. 73,25), e «per mezzo del quale si arriva a Dio» (c. 58, 18). Ma non a tutti è dato il percorrere questo cammino: paucorum est ista virtus (c. 49,31).

Morale: l'uomo non è, in alcun momento, il prodotto esclusivo del suo ambiente e/o dell'ereditarietà; può, se vuole (e, fatto «a immagine e somiglianza di Dio», è, per definizione, dotato di libertà e di volontà), diventare diverso e migliore di quel che sarebbe, se fosse in balia di se stesso. Egli può costruire la sua vita.

 

5. La dolcezza dei rapporti umani

 

E' questo l'ultimo grido della saggezza benedettina, e quanto essa ha ancora di valido per l'uomo d'oggi? Qualche tratto, di un'abbagliante attualità, completa il quadro. In un monastero si vive gli uni sugli altri: è la più dura delle mortificazioni, mi disse un Padre Trappista (insieme alla solitudine, mi sussurra un Certosino). I contatti quotidiani sono molteplici, inevitabili; essi inaspriscono singolarmente quanto può esserci di doloroso, di penoso o di francamente insopportabile nella presenza di questo o di quello (pensiamo alle tensioni che scandiscono la vita di due persone che vivono insieme da molti anni). La Regola e le Leggi Consuetudinarie sono lì apposta per evitare che esplodano clamorosamente gli attriti che esistono, latenti, nel seno della Comunità più profondamente unita nelle cose essenziali; ma la vita quotidiana è fatta di simili momenti di tensione. Nei capitoli 4 e 36 della Regola - in particolare - Benedetto ha raccolto un breve trattato di civiltà sul modo di evitare urti di questo genere che, per secoli e ancora oggi, ha impregnato e impregna l'intera vita benedettina e le dona quella dolcezza, quella tenerezza umana, quella serenità dell'anima, che sono le sue caratteristiche. Citiamo ancora: gli ospiti, i forestieri, saranno ricevuti «tamquam Christus» (c. 53, 2); si cureranno i malati «come se fossero Cristo» (c. 36,2).

«Fare a gara per onorarsi a vicenda»: è il rispetto per la Persona dell'Altro in quanto ha di essenziale e di unico (avviso agli automobilisti). «Fare a gara per ubbidire gli uni agli altri»: il religioso non ubbidisce soltanto alla Regola, all'Abate e agli «ufficiali», che questi ha scelto; deve ubbidire agli altri, a tutti gli altri.

«Sopportare pazientemente le infermità altrui; sia quelle del corpo che quelle dello spirito». Aggiungiamo: e anche le proprie, per non disturbare gli altri con lamentele superflue e con la descrizione minuziosa dei propri mali.

«Avere per l'Abate un affetto umile e sincero»: non basta obbedire, bisogna amare. Il grande studioso Konrad Lorenz, Premio Nobel per la medicina nel 1973, ha scritto: «Il rispetto della gerarchia e l'amore non sonò incompatibili». Il monaco, dunque, deve anche amare il suo Abate. Ecco perché se, dopo esser stato rimproverato, si accorge che il suo superiore «è irritato con lui o in collera, per quanto poco (quamvis modice), gli chiederà perdono fino a quando la sua benedizione gli avrà fatto capire che la collera si è calmata» (sanetur illa commotio). Perché bisogna riconciliarsi, «fare pace» (in pacem redire), prima del calar del sole, «con quelli che sono in discordia con voi» (c. 4,88), (se lo ricordino le coppie, vecchie e giovani). «Venerare gli anziani. Amare i più giovani». Altrove (c. 63, 23): «I più giovani onoreranno gli anziani e gli anziani avranno dell'affetto per i giovani»; (minores suos diligant : notate la tenerezza del suos).

Ed ecco qualcosa che riguarda direttamente l'uomo d'oggi, che è fin troppo incline ad attribuire la responsabilità delle sue colpe alla sorte, all'ereditarietà o all'ambiente, o a tutto insieme In un magma confuso: «Riconoscersi sempre come autori del male che è in noi e farcene carico» (c 4, 49).

Civiltà di tutti gli istanti, cortesia, tenerezza fraterna, carità, educazione, quel «riconoscimento quotidiano della dignità umana», scrive Bernard de Jouvenel, equilibrio di una vita armoniosamente distribuita tra la vita spirituale, il lavoro, la distensione, il riposo: valori questi che, da secoli, sono l'appannaggio della vita monastica se non, sotto molti aspetti, quelli che popolano le nostalgie dell'uomo moderno, che si sforza di ritrovarli, bene o male, nella sua seconda casa o nelle sue gite domenicali: i valori dell'interiorità, i cibi semplici e naturali, il silenzio, la natura, i riti della convivialità e, chissà?, qualche volta, la preghiera.

 

Capitolo quinto

L'INFLUENZA

DELLA CIVILTA' MONASTICA

SULLA VITA QUOTIDIANA

DEI SECOLI PASSATI

 

Piuttosto che impegnarmi nell'abbozzo di uno di quei grandi affreschi storici che stanno alla storia come le arie stanno all'opera, mi sembra più indicato affrontare il problema della civiltà monastica e del suo impatto sulla vita degli uomini di allora e di oggi, da un diverso punto di vista, sotto un altro aspetto, se non altro per evitare di ridire quello che è stato detto mille volte e più, e molto spesso in modo meraviglioso, di riscrivere quel che io stesso ho già scritto sull'argomento, di ripetere quel che tutti sanno, o credono di sapere, chi più, chi meno.

In effetti, sembrerebbe più interessante e, alla fin fine, più fecondo, domandarsi non se gli Ordini religiosi hanno avuto un ruolo nell'elaborazione della civiltà medievale dell'Occidente, che è un dato di fatto accettato da tutti (le divergenze d'opinione riguardano esclusivamente le dimensioni e la profondità di questo ruolo), ma piuttosto perché, per quali motivi, sotto l'azione di quali fattori puramente naturali, umani, storici, socio-culturali, spirituali, gli ordini hanno giocato questo ruolo.

Tuttavia, prima di addentrarmi in questo «approccio», vorrei citare alcuni minimi frammenti della nostra vita quotidiana, che ci sono familiari al punto che non ci viene neppure in mente di domandarcene l'origine, mentre ci arrivano direttamente dai tesori della vita monastica medioevale. Eccoli.

 

1. Briciole di storia monastica

Perché non sta bene bere con la bocca piena e perché ci puliamo la bocca prima di bere? Perché, nei primi tempi del monachesimo, la pietanza (una parola venuta dritta dai monasteri: pietas, per designare il supplemento di cibo che la pietà dei fedeli offriva ai religiosi); la pietanza, dunque, veniva servita, per due, in un unico piatto e la bevanda in un solo bicchiere (dire che questa pratica non ha mai posto dei problemi sarebbe forse audace). Era normale, in queste condizioni, evitare di lasciare tracce di cibo sul bicchiere comune: i monaci quindi si pulivano la bocca con la salvietta da tavola che faceva parte del corredo del monastero (grande rarità in un'epoca in cui, il più delle volte, era la manica a fungere da tovagliolo). Nel suo trattato, Sull'educazione liberale dei fanciulli, Erasmo raccomanda di tergersi le labbra prima di bere, «soprattutto, scrive, se tutti bevono alla stessa coppa». In realtà, non aveva inventato niente.

L'Aretino scrive, deliziosamente, alla sua maniera: «io mi credo che l'inventore di tal cosa sia stato fiorentino, né può essere che non sia, perché l'apparecchiare della tavola, l'ornarla di rose, il lavar dei bicchieri (...) venne da Firenze».

Segue un garbato complimento ai «cervellini assettatini, diligentissimi» di Firenze, che hanno avuto la sottigliezza necessaria per elaborare una cucina che «invoglia lo svogliato».

Mi spiace di dover contraddire l'Aretino, ma sul piano dell'etichetta a tavola -tovaglia, tovaglioli, silenzio, fiori, pulizia, sequenza dei cibi, cortesia reciproca, modo di comportarsi e di mangiare honeste et religiose, senza dimenticare la vera e propria «liturgia», che presiede al pasto, gesto comunitario per eccellenza- i Codici Consuetudinari monastici rigurgitano da secoli di consigli minuziosi. La società civile si è ispirata ad essi, alla meno peggio, e lo fa ancora dopo tanto tempo.

Da dove vengono i nomi dei pasti: colazione in italiano, breakfast in inglese, dîner in francese?

La parola colazione si riferisce al pasto leggero (un cantuccio di pane inzuppato in un po' di vino), che i benedettini facevano i giorni di digiuno, dopo la lettura delle Conferenze di Cassiano (c. 350 - c. 432), in latino Collationes (Reg. c. 42,7).

 

Breakfast significa semplicemente rompere (to break) il digiuno (fast): rievocazione del tempo in cui -ma succede ancora oggi presso i Certosini- i monaci mangiavano una volta al giorno ed era vietato (reg. c. 43,44) di prendere checchessia, foss'anche un bicchier d'acqua, tra un pasto e l'altro: si «rompeva», dunque, un vero e proprio digiuno di ventiquattr'ore, quando ci si sedeva per il breakfast... e per dîner, perché la parola francese (ed anche il termine italiano desinare), significa anch'essa rompere il digiuno, dal latino disjunare.

I termini francesi scrutin (scrutinio), compromis (compromesso), voi (voce=voto: dare il proprio), ballottage (ballottaggio), opiner du bonnet (togliersi il cappello in segno di assenso, annuire) derivano dagli usi monastici, molto anteriori a quelli dei Comuni, in materia di tecniche elettorali e deliberative. Quanti uomini politici lo sanno?

Se si dice che qualcuno è indispensabile, quanti indovinano che in questo vocabolo si cela il termine tipicamente ecclesiastico di «dispensa»? Una domanda indispensabile è, etimologicamente, una richiesta che non può essere oggetto di alcuna dispensa.

 

Réclamer (reclamizzare) significa, fin dall'XI secolo, «invocare, implorare Dio e i santi»: curiosa «pubblicità», ne converrete!

 

Galerie (galleria) viene da galilaea; il termine indicava il portico di una chiesa dell'ordine cluniacense e alludeva, pare, alla Galilea, dove si affollava il popolo per ascoltare Gesù...

E, visto che siamo arrivati a Cluny, vale la pena di dire che fu proprio questo grande ordine (IX secolo) a istituire la festa di Tutti i Santi, Ognissanti - che, detto per inciso, è una festa gioiosa - e a farla seguire, il 2 novembre, dalla festa di Tutti i Morti, per il riposo dei fedeli defunti.

 

2. «Primum vivere»

 

Torniamo all'argomento di questo saggio: come e perché si è formata una vera e propria civiltà monastica e perché essa ha avuto un tale impatto sull'elaborazione e la fioritura della civiltà occidentale, in generale e vista dal punto di vista più particolare sulla vita quotidiana?

Il primo motivo salta agli occhi: i monaci dovevano vivere. Ora, certamente non sempre capitava che le terre che i signori donavano loro, per carità, calcolo o timor panico dell'Inferno, fossero le migliori.

Esser monaco, dunque, voleva dire, all'inizio e per secoli, dissodare, liberare dagli sterpi, drenare, prosciugare, irrigare, arare, mietere. Più tardi, quando i religiosi furono passati dal rango di contadini e pastori a quello di imprenditori e direttori di aziende agricole, il loro ruolo fu di dirigere, coordinare e sorvegliare il lavoro dei campi e dei vigneti, l'allevamento del bestiame, il saggio sfruttamento delle foreste, la buona conduzione dei vivai di pesci e degli alveari.

Il pugno di fratelli che si accinge a fondare un nuovo luogo di preghiera a due o tre giorni di cammino, lascia il monastero con un certo numero di utensili, delle scorte di cibo, qualche pianta (di vite, in particolare), qualche animale. Sempre che la casa-madre sia in grado di fornire tali abbondanze, il che non capita sempre: Cîteaux è sopravvissuto miseramente per anni ed è stato anche sul punto di morire d'inedia, fino a quando arrivò il futuro san Bernardo con trenta reclute.

Ma erano più istruiti dei contadini, che formavano, nel XII secolo, la stragrande maggioranza della popolazione, più liberi di loro dai pregiudizi, più aperti alle innovazioni e alle novità, molto meno sedentari (Nel XVI secolo, sono stati dei religiosi a far conoscere, in special modo, le patate, i fagioli e il tacchino agli Europei. E' stato un monaco belga a introdurre il caffè... in Brasile. Eccetera…); infatti, due Padri per ciascuna abbazia si recavano ogni anno al Capitolo Generale, a piedi: il mezzo di trasporto più meraviglioso che esista al mondo! Immaginiamo che bel pezzo di strada si trovava davanti uno che partiva da Kinsloss, in Scozia, o da Alcobaáa, in Portogallo e doveva arrivare a Cîteaux, in Borgogna. Da parte loro, i Visitatori, questi rappresentanti del potere centrale, vanno da un'abbazia a un priorato, a controllare «in loco» il buon funzionamento e la regolarità dei «poteri locali». I Benedettini sono dunque, per forza di cose, dei fattori di conoscenza, dei portatori di sapere e di applicazioni pratiche, in breve, dei vettori di progresso.

Certo, i monaci non sono i soli ad aver lavorato la terra - anzi, in. complesso, smisero assai presto di farlo, per diventare dei solidi latifondisti, capaci di far rendere bene le terre... e gli uomini. Ma, «educatori economici» (H. Pirenne) per eccellenza, «istruttori illuminati della massa rurale» (G. e G. Blond), creano delle fattorie modello, amministrano «imprese di avanguardia», «aree privilegiate per audaci esperimenti nel campo dell'agronomia» (G. Duby). Sono l'assistenza tecnica, efficace e gratuita, al terzo mondo dell'epoca, cioè all' Europa dopo l'invasione dei Barbari. Qualche fatto per illustrare quanto andiamo dicendo: le fertili terre della Beauce, in Francia, sono state create dall'Abbazia di Morigny. L'agronomia ha fatto i suoi primi passi, nel Medioevo, sotto la guida di Suger e di Alberto Magno, senza dimenticare santa Ildegarda e Pietro de Crescenzi. Il più antico regolamento forestale, quello dell'Abbazia di Marmoutier, risale al 1144. I monaci austriaci di Doberlan avevano costruito, fin dal 1273, una serra sperimentale. A Parigi, nella stessa Parigi, i Certosini, che non hanno - neanche per sogno! - la vocazione di lavorare la terra, coltivavano, nei loro vivai, ben ottantotto specie di pere, di cui alcune sopravvivono ancora oggi. I Benedettini neri introducono l'olivo, il gelso e il baco da seta nella provincia di Padova, l'Ordine di Malta trasporta a Malta della terra di Sicilia per coltivare gli aranci; i Cistercensi trapiantano in Inghilterra il melo per fare il sidro e le tecniche che permettono di fabbricare la sicera. I Benedettini fiamminghi, verso la fine del X secolo, hanno inventato la birra, la cervesia lupulina, che non deve essere confusa con la «cervogia», che non è chiarificata né, soprattutto, conciata col luppolo. L'Inghilterra monastica è nel Medioevo la produttrice per eccellenza di lana: le abbazie cistercensi di Fountains e di Rievaulx producono, da sole, da 10 a 13 tonnellate di lana e talvolta il doppio. L'abbazia di Bobbio alleva 5.000 porci. I monaci di Einsiedeln allevano dei cavalli il cui mantello grigio-topo è tanto celebre da dare origine al termine einsiedlerfarbe, altri monaci hanno «inventato» la fecondazione artificiale dei pesci. E così via... E' superfluo dire che produzioni di tale entità implicano l'esistenza di centri commerciali e di reti di vendita; non ne restano fuori neppure gli austeri Olivetani. Essendo esentate da tutti i dazi, le abbazie giocavano con le carte vincenti. Fatto che non attirava loro le simpatie dei commercianti e dei borghesi, tradizionalmente «anticlericali» e, soprattutto, antimonastici.

 

«Bonum vinum»

 

Un settore dell'agricoltura in cui i monaci sono stati particolarmente brillanti è quello della viticoltura: uno dei risultati più prodigiosi della grande impresa benedettina. La viticoltura, l'hanno propagata dappertutto: i Cistercensi da Heiligenkreutz a Clos-Vougeot, dalla Rioja a Sancerre; i Cluniacensi da Clos de Bèze (ancor oggi uno dei più grandi Borgogna esistenti), a Egri Bikaner, in Ungheria, da Wilberton, in Inghilterra, a Dezaley, in Svizzera

Anche in Italia, in cui la civiltà del grappolo ha meno sofferto per i colpi inflitti dai Barbari, si può constatare in questo campo la presenza attiva dei monaci: i Benedettini delle diverse famiglie hanno dato incremento, in particolare, ai vini dei Colli Euganei, al Freisa, al Gargano, al Greco di Gerace e al Greco di Tufo, al Mantonico, al Santa-Magdalena dell'Alto Adige. Ai monaci di Grottaferrata dobbiamo il Frascati; ai Cistercensi il Gattinara; ai Certosini il Capri; ai rudi Cavalieri di Rodi, il Bardolino, il Soave e il Valpolicella; il Locorotondo, di Puglia, ai Templari, senza dimenticare il Lacryma Christi, un bianco secco, profumato, di cui siamo grati... ai Gesuiti. (Una curiosità davvero rara: il sottile e sconcertante Château-Châlon (Giura) deve il suo sapore alla decisione presa, nel XIV secolo, dalla Badessa del luogo, di raccogliere i grappoli (vitigno Traminer) il più tardi possibile, cioè in dicembre; parrebbe che «il vino di paglia», ottenuto collocando i grappoli d'uva su una lettiera di paglia, al sole invernale, sia dovuto alla stessa Badessa. Che sia benedetta!)

Tanti esperimenti, felici e non, ma in ogni caso condotti con intelligenza, fecero dei religiosi, Benedettini di Cluny o di Cîteaux, di Vallombrosa o di Camaldoli, Norbertiani, canonici regolari certosini o Cavalieri di Rodi, Carmelitani, Domenicani o Gesuati* (perché vi si misero tutti), i maestri incontestati della viticoltura, e per molto secoli. Il loro ruolo, nella «selezione dei vitigni e nel perfezionamento della vinificazione resterà dominante fino al XVIII secolo», scrive J. Claudian. Dobbiamo ai Cistercensi della Germania la coltivazione a terrazze. La prima opera che tratta delle condizioni delicate e complesse della viticoltura fa parte di un atto di fondazione dell'abbazia di Muri, presso Zurigo, che risale all'XI secolo.

Ma, se non vogliamo che nella memoria dei popoli resti impresso per sempre lo stereotipo dei monaci buongustai e goderecci (come furono talvolta nel corso dei secoli, bisogna riconoscerlo) è ora, mi sembra, di spiegare perché i monaci ebbero tanto interesse per la vite.

Il primo motivo, e il più evidente, è che la Comunione esige il vino. Ora, chi dice vino, nel Medioevo, dice trasporti rischiosi, dazi pesanti, incertezza sulla qualità del «sangue di vite», sballottato a lungo sulle strade di allora, o su quel che faceva funzione di strada (di qui l'interesse per il trasporto via acqua). Non dimentichiamoci i soldatacci, i predatori, i briganti da strada maestra - non è cambiato molto, col passar dei secoli - che costituivano un pericolo costante. Per soprammercato, i monaci vivono lontani dai luoghi abitati; l'arrivo del vino è dunque sempre costoso e spesso aleatorio. In queste condizioni, è logico che i monaci abbiano sistematicamente provveduto a creare dei vigneti ovunque si stabilissero, perfino nelle zone, a prima vista, meno propizie (fu il caso della Champagne, del Belgio o dell'Inghilterra, dove furono coltivati, si pensa, 300 vitigni), o anche visibilmente sconsigliabili: in Irlanda, Scozia, Danimarca, Pomerania, perfino Polonia! Non è difficile immaginare quale vinello («piquette») potesse venir fuori dai tini delle regioni con climi del genere! D'altronde questo spiega perché tante abbazie del Nord acquistarono vigneti in zone più favorevoli: un altro modo di incrementare la coltura della vite.

Secondo motivo: per secoli, i fedeli, e non soltanto i chierici, si comunicarono con le due specie, almeno tre volte l'anno; inoltre ricevevano un sorso di vino non consacrato ogni domenica e giorno di festa, all'uscita della messa.

Terza ragione, che potremmo chiamare «teologica»: la Bibbia trabocca di passaggi relativi al vino, alla vite, al torchio, al vignaiolo, praticamente tutti positivi e di elogio. Solo eccezionalmente mette in guardia contro il vino. Citiamo: «Il vino e le donne pervertono gli uomini assennati» (Eccl. 19, 2), ma la «zampata» è indirizzata alle donne almeno quanto al vino. Il più delle volte, sono gli eccessi che vengono condannati (Prov. 23, 29).

I fedeli non dimenticheranno mai che Noè, Padre della vite, era «un uomo giusto e che camminava davanti a Dio», o che, alle Nozze di Cana, Gesù aveva trasformato l'acqua in vino, e neppure il consiglio dell'apostolo Paolo: «Hai torto a non bere che acqua...» (I Tim. 5, 23). Lo stesso Benedetto dà il suo consenso, con talune riserve, è vero: «una misura di vino al giorno può bastare» (c. 40, 6); ma si può discutere fino a perdere il fiato sulla capacità esatta della «misura» (capacità che rivelò una sistematica tendenza ad aumentare).

In compenso, il Patriarca prevede i casi in cui «la situazione del luogo, il lavoro, l'arsura dell'estate» consentono di accordare una razione supplementare. A discrezione, ovviamente, dell'Abate, che doveva vegliare affinché venissero evitate la sazietà o l'ubriachezza.

Il gusto per il vino doveva essere davvero assai pronunciato, se la Regola non contempla che prudentemente l'ipotesi che «la povertà del luogo» renda impossibile procurarsi la misura di vino prevista dal Patriarca. «In questo caso», scrive, bisogna che (i monaci) «benedicano Dio e non si lamentino». E siccome conosceva le sue pecorelle, aggiunge: «soprattutto: che si astengano dal mormorare», cioè, in termini attuali, dal protestare, «mugugnare», «brontolare».

In seguito, san Benedetto d'Aniane (IX secolo) e san Pier Damiani (X secolo) s'incamminarono sulla stessa via. La vittoria del vino era ormai consolidata: nel XV secolo, certi monaci austriaci bevevano da due a quattro litri di vino al giorno, in pace con la loro coscienza.

(Ricordiamo, per sciacquarci la bocca, che a Vichy, stazione termale già celebre, i Padri Celestini, gravi e austeri Benedettini, sfruttavano la fonte che ancora oggi porta il loro nome. Dopo tanto buon vino, bisogna talvolta pensare al fegato...).

Altra ragione che spiega la presenza e il successo del vino in Europa occidentale: il vino era stato, per lungo tempo, la bevanda dei Romani, ovvero dei vincitori e dei colonizzatori, e questo privilegio gli aveva conferito un enorme prestigio presso tutte le popolazioni dell'Impero.

Bere della cervogia, del sidro o dell'idromele, in un certo senso significava, ai loro occhi, un declassamento, un «imbarbarimento»; così il gusto per il vino è rimasto ben vivo, malgrado le invasioni, e le cifre di cui siamo in possesso provano che anche la gentucola beveva;vino, e gagliardamente, e non solo nei giorni di festa. In complesso, le classi lavoratrici, fossero pure povere, non consumavano volentieri l'acqua, di cui diffidavano (e con ragione, d'altronde). E in questo si sentivano incoraggiati dal comportamento quotidiano dei religiosi.

L'uso della bicchierata offerta, ai giorni nostri, dai municipi in determinate occasioni, è un segno ancora ben vivo dell'importanza che il vino aveva nella civiltà medievale.

Infine, last but not least, tutto il medioevo ha creduto nelle virtù terapeutiche e medicinali del vino.

Infatti san Paolo, dopo aver scongiurato Timoteo di rinunciare a bere soltanto acqua, aggiunge: prendi un po' di vino, per lo stomaco e per i tuoi frequenti malesseri. (Tim. c. 23). Ne è rimasta traccia nella farmacopea popolare moderna.

 

 

Nota*: Gesuati: ordine religioso fondato dal beato Giovanni Colombini (1360). Con spirito francescano si occuparono in particolare degli ammalati, curandoli con medicine e liquori di loro confezione.

 

«I padri dell'Acquavita»

 

Accanto a un ampio orto, destinato a soddisfare le necessità della comunità, ogni monastero possedeva un giardino in cui si coltivavano le piante medicinali.

I monaci, che a quanto pare avevano importato l'alambicco in Europa, erano un po' farmacisti e avevano acquisito o conservato certe conoscenze, non sempre rudimentali, in materia di unguenti, balsami e tisane. (Ne resta ancora qualcosa:un buon numero di «rimedi della nonna» si rifanno, anche al giorno d'oggi, all'autorità dei Religiosi: basta osservare la pubblicità per convincersene).

Le «acque di vita», i cordiali, tanto apprezzati, i profumi e la farmacopea medievale in genere, devono molto ai monaci. L'acqua di melissa è stata inventata a Parigi, da Carmelitani scalzi italiani, l'acqua di fiori d'arancio dai robusti monaci-soldati dell'Ordine di Malta; i Gesuati di Venezia avevano meritato il soprannome di Padri dell'Aquavita.

Un buon numero di liquori noti a tutti hanno un'origine monastica più o meno remota.

E' il caso della Bénedectine, fabbricata a partire dal 1510 da un padre veneziano (ma, dal secolo scorso,«laicizzata»), della celebre Chartreuse, della Trappistina, dell'Acqua d'Arquebusade, del Cénancole (che è cistercense), dell'Aiguebelle (cistercense anch'essa), dei liquori di Trefontane, di Fossanova e di Casamari, della Centerbe, della Gemma d'Abate (creata dai Serviti) ecc... E ci sono buoni motivi per credere che il whisky sia nato in qualche monastero scozzese. Naturalmente...

 

«L'autarchia monastica»

 

La Regola benedettina (c. 66,15-18) specifica: «Il monastero deve, nei limiti del possibile, essere organizzato in modo tale che vi si trovi tutto il necessario, cioè dell'acqua, un mulino, un orto e delle botteghe in cui sia possibile praticare i diversi mestieri (artis diversae) all'interno della cinta del monastero...

Ne deriva che i monasteri sono sempre tutt'altro e qualcosa di più che un luogo di preghiera o un grosso centro agricolo. Essi ricorrono alla manodopera qualificata, costituiscono dei nuclei di artigianato sempre più importanti (perché sono numerosi quelli che cercano asilo sotto la loro ala protettrice). Saranno molto spesso il punto di partenza di grossi borghi o addirittura di città; addio solitudine, tanto cara al cuore dei monaci!

Quando l'agricoltura, l'allevamento, la viticoltura non sono sufficienti ad assicurare la sopravvivenza della Comunità, questa si vede spesso obbligata ad allargare il campo delle proprie attività produttive e a commercializzarle. E lo fa tanto più volentieri in quanto è consapevole che, conducendosi in questo modo, si conforma ai precetti dominatori e «imperialisti» del Genesi (2,19-20; 9,2): Cîteaux, diffusore per eccellenza dei mulini ad acqua in Europa, in questo senso è un caso tipico. Ma l'impulso che spinge i religiosi a domare e dominare la Natura è così forte, così profondamente ancorato al messaggio cristiano, che si fa sentire anche tra i più contemplativi tra loro, ovvero i Certosini.

In effetti non esiste attività - sfruttamento di saline, miniere di piombo, di ferro, d'allume o di gesso, metallurgia, cave di marmo, coltelleria, vetrerie, fabbriche ecc.- in cui i monaci non abbiano dispiegato un'attività creativa e un fecondo spirito di ricerca. Utilizzando la manodopera, l'istruiscono, la educano e la perfezionano. Il Know how monastico si diffonderà ben presto in tutta Europa.

 

 

3. Continuità, tradizioni e virtù dell'iniziativa individuale

 

C'è un'altra caratteristica del mondo dei religiosi che spiega la loro influenza: la continuità e le tradizioni. Per definizione, grazie alla sua natura specifica, il monastero è meno soggetto della famiglia contadina ai rischi, numerosi e crudeli, di questi secoli di ferro, di fuoco e di sangue -e anche di fede e di luce!- che tessono la trama del Medioevo. I banditi e la soldataglia rispettano - quasi sempre!- questi luoghi santi, meno per pietà, va da sé, che per paura superstiziosa.

Le pestilenze e le carestie, che a quell'epoca sono moneta corrente,colpiscono meno duramente le comunità religiose, che si organizzano razionalmente e posseggono - in linea di principio, anche se non sempre nella realtà- delle riserve.

La trasmissione - la traditio - degli usi, delle tecniche, delle capacità manuali, delle esperienze, viene garantita dall'autorità riconosciuta dell'Abate e dei suoi «ufficiali», nonché dai legami di rispetto filiale che uniscono i giovani agli anziani. Risultato: non esiste regione d'Europa in cui non si trovino tracce dell'opera compiuta dai monaci (e dagli eremiti!) tra il IV e il XII secolo, e in particolare nell'XI e nel XII, quando fioriscono le prodigiose avventure umane e spirituali rappresentate dallo sbocciare successivo di Cluny e di Cîteaux.

C'è un fatto, mai abbastanza messo in rilievo, che può spiegare il prodigioso impatto della civiltà monastica sulla formazione della civiltà e della sensibilità occidentale.

Non è tanto il numero dei religiosi, come saremmo talvolta tentati di credere, considerando l'estensione della loro presenza nell'arco di tanti secoli: al suo apogeo, il gruppo più numeroso, e di gran lunga, che la storia della Chiesa riconoscerà, quello dei Francescani, contava 142.000 membri, meno degli agenti di qualsiasi stato moderno di media estensione, e i Francescani erano sparsi nel mondo intero. No, quel che garantisce l'enorme influenza dei Benedettini, e dei Cistercensi in particolare, è, soprattutto, la dispersione in piccoli gruppi, in tutta l'Europa e, in secondo luogo, la rapidità di tale dispersione.

Un ordine religioso è prima e soprattutto il prodotto di un audace spirito di iniziativa individuale. Uno sconosciuto, sovente in qualche modo emarginato, intende mettere in pratica un progetto personale, un'immagine nuova del perfetto cristiano, un aspetto particolare del Vangelo. Alcuni di questi progetti sono buoni e vivranno; altri sono stravaganti o eccessivi e non vedranno mai la luce - Roma vi si oppone - o moriranno in breve.

Se l'impresa iniziale riesce, ben presto sciama, ovvero invia, a due o tre giorni di cammino di distanza, un pugno di fratelli incaricati di fondare un nuovo monastero. Il quale, se il successo corona la sua opera, sciamerà a sua volta.

La rapidità con cui i monasteri proliferano, l'estensione dell'area coperta dai loro insediamenti, sono talvolta stupefacenti.

Citiamo un esempio, il più straordinario davvero, per illustrare quanto abbiamo appena detto. Si tratta di Cîteaux, in Borgogna. L'abbazia viene fondata nel 1098; vegeta, alla meno peggio, per più di dieci anni. Poi l'arrivo, nel 1112, del futuro San Bernardo scatena un'esplosione religiosa folgorante: nel 1113, fondazione di La Ferté-sur-Grosne, di Pontigny nel 1114, di Clairvaux, di Morimondo nel 1115, «le quattro prime figlie». Poi, quasi subito, il volo: in Italia (1120), in Germania (1123), in Inghilterra (1129), in Austria (1130) e così via. La Romania viene raggiunta nel 1179, la Lettonia nel 1208, la Turchia nel 1214... Appena installato, il monastero comincia a procreare: l'ordine, che contava 19 insediamenti nel 1112, può vantarne 343 alla morte di Bernardo (1153), 525 alla fine del XII secolo, quasi 700 alla fine di quello successivo. Quale multinazionale può vantare una simile espansione in un lasso di tempo tanto breve? E' il trionfo dello spirito imprenditoriale, della libera iniziativa, dell'autonomia (della concorrenza tra Ordine e Ordine che fu, dobbiamo dirlo, tumultuosa) - e della fede.

Un simile slancio rinserra l'Europa tutta intera in una rete di fattorie modello, di centri di allevamento, di focolai di alta cultura, di fervore spirituale, di arte di vivere, di volontà di azione sociale -in una parola, di civiltà ad alto livello, che emerge dai flutti tumultuosi della barbarie circostante. San Benedetto è senza dubbio alcuno il Padre dell'Europa. I Benedettini, i suoi figli, sono i Padri della civiltà europea.

E mi sono limitato alla sola Cîteaux. Ma, per avere un'idea di quel che poteva essere la rete degli insediamenti religiosi, vediamo anche gli altri ordini. Ad esempio, per quanto riguarda la Francia, constatiamo la presenza di più di un migliaio di case religiose: 412 appartenenti ai Benedettini, 215 ai Cistercensi, 92 ai Premostratensi o Norbertiani, 66 ai Certosini -e più di duemila conventi tra Francescani, Cordiglieri, Carmelitani, Trinitari...

Stessa situazione nelle Mandre, dove, oltre ai membri degli ordini appena citati, troviamo i Fratelli della Vita Comune, gli Alessiani, i Guillemiti, i Recolletti, i Bogards e qualche altro, ejusdem farinae.

E che dire allora dell'Italia e della Spagna, terre predilette della vita religiosa? Non è difficile immaginare l'influenza che queste organizzazioni potevano avere sulla vita delle città.

 

4. I religiosi nelle città

 

Stiamo attenti, non dobbiamo pensare a questa presenza religiosa come a una testimonianza silenziosa, al di fuori del mondo, puramente religiosa e spirituale, al massimo agricola.

La presenza dei chierici nella società è totale e permanente. Le campane dei conventi e dei monasteri scandiscono la vita della città: non dimentichiamo che l'orologio meccanico a bilanciere, nato dalla necessità, affermata dalla Regola benedettina, di misurare il tempo senza possibilità di errore, è di origine monastica.

Istruiti, zelanti, uomini di fiducia, consapevoli del risvolto nascosto delle cose, se non altro grazie alla loro relativa marginalità, oggetto di rispetto - e di aspre critiche, perché un certo «anticlericalismo» è di tutti i tempi, compresi quelli di più intensa vita cristiana - i Religiosi costituivano, per forza di cose, delle organizzazioni dinamiche fortemente strutturate e gerarchiche. Aggiungete a tanti stimoli, l'ambizione (ad majorem Dei Gloriam, s'intende) d'imporre se non la supremazia, almeno la presenza attiva e ben riconoscibile della loro opera, e la rivalità con gli altri Ordini;che sono degli eccellenti fattori di dinamismo.

Dunque, troviamo dappertutto religiosi che si danno da fare: per elaborare gli Statuti di alcuni Comuni, per sorvegliare gli scrutini, ad suspicionem quamlibet removendam, e la regolarità delle elezioni, per eleggere gli elettori di primo grado e perfino, talora, i magistrati e gli stessi membri del Parlamentum. Non è strano, visto come stavano le cose, ritrovare, nelle tecniche elettorali e deliberative adottate dai Comuni, tracce delle tecniche che erano in uso, da secoli, negli Ordini.

Senza vincoli familiari (in linea di principio), senza ambizioni personali (idem), «né elettori né eleggibili, poco immischiati, almeno direttamente, nelle faccende del Comune (...), spesso bene informati grazie ai fratelli del loro ordine, su quel che si faceva o si tramava negli altri Comuni, i religiosi formavano certamente una corporazione di arbitri potenti e rispettati» (Léo Moulin). E' per questo che alcuni comuni affidavano loro cariche come quella di cancelliere, di guardasigilli (a Firenze, nel 1308), di cassiere, di esattore d'imposte. L'arcidiocesi di Colonia ricorre ai Cistercensi per mettere ordine nelle sue finanze. I Benedettini di Saint-Pierre de Bèze hanno l'incarico, nei giorni di fiera, di verificare i pesi, le bilance, le aune e le misure. E non è tutto; gli Umiliati svolgono la funzione di esattori di pedaggi e montano la guardia ai magazzini di munizioni... In alcune città, i Cistercensi controllano le porte e gli arsenali, e sono preposti ai bastioni e alle fortificazioni: c'è (è lecito supporlo) l'intenzione recondita di affidare questi importanti mezzi di pressione a personalità «neutrali» o, in ogni caso, meno immischiate nelle lotte di partito che - già allora- agitano i Comuni.

Altre funzioni delicate: quelle di bullatores. I conversi dell'Ordine di Cîteaux erano incaricati di imprimere il sigillo (bulla, nome latino della pallina di piombo che vi era attaccata) sui documenti ufficiali -perché, è vero, illetterati, e quindi non in grado di conoscere i segreti delle decisioni politiche.

Diciamo, infine, che dei Religiosi particolarmente «golosi» di solitudine, sono stati... guardiani del faro di Cordouan, in Francia..

 

5. Una sicurezza sociale ante litteram

 

Facciamo fatica oggi a immaginare una società senza ospedali, senza ospizi, senza assistenza pubblica e, genericamente, senza quel che si è deciso di chiamare, ai giorni nostri, la sicurezza sociale. E tuttavia, senza la presenza e l'azione caritatevole della Chiesa e, più in particolare, degli ordini religiosi, la società medievale sarebbe stata proprio così.

Nel Medioevo, in effetti sono gli origliai religiosi a garantire, aríche se non sistematicamente, l'organizzazione, non sempre rudimentale, della sicurezza sociale. I secoli illuminati di questo periodo storico hanno una coscienza vivissima della grande dignità del povero e del miserabile, di Lazzaro e di Giobbe. Il detto delle Beatitudini (Lc 6,20-21) è presente in tutti gli spiriti. «Chi dà ai poveri, presta a Dio», dirà, assai più tardi, Victor Hugo: ma è proprio quello che provava la sensibilità popolare medievale.

Gli ordini religiosi si dedicano intensamente alle attività caritatevoli. Il re di Francia, Luigi IX non chiama forse i monasteri il «patrimonio dei poveri», patrimonium pauperum? La generosità monastica è leggendaria: la distribuzione del pane (bianco nei giorni di festa), delle aringhe della carne salata, del vino, degli indumenti (usati, a dire la verità), perfino di qualche moneta, è un fatto del tutto abituale. Le cronache riferiscono che Cluny approvvigionò 7000 miserabili in un anno; e per farlo, vennero uccisi 250 porci.

Regolarmente, alla fine dell'inverno, la carestia bussava alla porta delle casupole dei contadini: i monaci permettevano di arrivare alla buona stagione distribuendo la zuppa e il grano. E' il cosiddetto pane di maggio.

L'azione monastica garantisce, inoltre, l'esistenza di società di mutuo soccorso, di casse di disoccupazione ante litteram, di cooperative agricole, di quelle che vengono chiamate «botteghe di carità».

Per secoli, gli «Hôtel-Dieu», gli ospizi, gli ospedali, gli ostelli aperti ai pellegrini, i lebbrosari sono stati monopolio degli ordini religiosi: dagli Ospedalieri ai Camaldolesi, dagli Antonini agli Alessiani, gli uni si consacrano ai lebbrosi, gli altri agli sventurati torturati dal «male degli ardenti» (l'ergotismo). Certuni hanno per vocazione quella di seppellire gli appestati (e saranno decimati dieci volte in un secolo), altri di accompagnare fino alla forca i condannati a morte o di prendersi cura dei malati mentali.

Le abbazie cluniacensi e cistercensi accolgono soldati, veterani o invalidi, che godono di un beneficio chiamato «pane dell'oblato», delle vecchie coppie che, in cambio dei loro beni e di qualche servizio che ancora possono compiere, sono albergate e nutrite: una forma rudimentale di rendita vitalizia.

Un proverbio medievale diceva: «Si sta bene sotto il pastorale degli abati». Tenendo conto dell'estrema durezza delle condizioni di vita in quei secoli lontani, era proprio vero.

S'impone un'ultima osservazione: la cura di produrre e di raccogliere le risorse necessarie a tanta attività sarà sempre lasciata ai fedeli: per secoli, la pietà della massa basterà a far fronte a tutte le richieste. Lo stato, le finanze pubbliche, non verranno mai chiamate ad intervenire.

 

6. Attività bancarie e finanziarie

 

Senza averlo premeditato, né voluto, le abbazie furono, durante l'Alto Medioevo, dei centri finanziari importantissimi. Tutte le circostanze erano favorevoli: l'abbondanza - relativa, ma reale - di capitali a disposizione, il credito di cui godevano, la sicurezza che garantivano loro - in linea di principio - la santità dei luoghi e la protezione dei prìncipi (quando la forza degli abati non era sufficiente), la rete di «succursali» (ancora una parola di origine monastica), costituita dalle abbazie o dalle case dello stesso Ordine (pensiamo ai Templari), la conoscenza che esse avevano, per forza di cose, «dei retroscena degli affari internazionali», i privilegi dati dalle esenzioni di cui gli Ordini godevano e, in certi casi, un diritto insolito come quello di poter accogliere, e anche proteggere, il contribuente che rifiutava di pagare le tasse (e questa era la situazione dei Templari a Parigi!) e, last but not least, la buona fede che sicuramente presiedeva a questo genere di attività.

Le abbazie diventeranno dunque, quasi loro malgrado, delle banche di deposito e di credito. Esse praticarono il prestito su vasta scala, convertirono in denaro liquido fortune in beni immobili, crearono le rendite vitalizie, finanziarono le crociate e i pellegrinaggi e, come le banche odierne, ebbero la loro stanza delle casseforti, in cui nobili e borghesi custodivano i loro oggetti più preziosi e i loro titoli di proprietà.

Gli amministratori laici delle abbazie, attenti alle fluttuazioni dei prezzi e della domanda del mercato, non mancarono di fare speculazioni. Tali attività non erano sempre molto «cattoliche», sospettiamo, e taluni papi aggrottarono le sopracciglia; ma la maggior parte chiuse un occhio; il Capitolo generale di Cîteaux, sempre realistico, diede la sua approvazione (1126). Le abbazie diventarono, dunque, ricche e potenti, come lo sono di solito le banche e, come queste; fecondarono l'economia, a suo completo vantaggio.

 

7. In conclusione

 

C'è infine un'attività troppo nota perché valga la pena di insistervi; è anzi quasi esclusivamente, come abbiamo già notato, la sola che sia stata ascritta all'attivo dei monaci: quella di avere, per secoli, ricopiato manoscritti. Qualcuno li ha rimproverati di aver ricopiato cento volte le stesse opere - le Scritture o le opere di Cassiano o di Sant'Agostino - che esistevano già in grande quantità. E' vero. Ma vorrebbe dire non tenere nel minimo conto il fatto che nessuna opera dell'Antichità Classica sarebbe giunta fino a noi, se i poveri monaci, nel freddo degli scriptoria, non si fossero dedicati a quest'impresa E dobbiamo anche riconoscere a loro credito che un buon numero di monasteri creò una vera e propria scuola.

Ma non attardiamoci su questo punto; è un dato acquisito e sono rari quelli che lo rimettono in discussione. E' normale, dopotutto, che le uniche persone istruite, o quasi, si siano dedicate ad attività intellettuali, artistiche o morali, che hanno profondamente segnato l'Occidente, e per sempre.

 

Così, questo centro di cultura, in origine specificamente e integralmente cristiana, a differenza della cultura scolastica e, più tardi, della cultura umanistica medievale, ha risvegliato, resuscitato e promosso un'Europa che le invasioni barbariche avevano quasi annientato. In tutti i campi, a cominciare, s'intende, da quelli della pietà e delle pratiche cristiane, animato com'era da una fede di rara intensità, esso ha coltivato in profondità e reso fertili le terre incolte dell'anima e della civiltà occidentale. Multiforme, onnipresente, potentemente motivata, non esiste campo in cui esso non abbia lasciato la sua impronta, non c'è una provincia, una regione, in cui degli edifici di un'indicibile bellezza, o le loro rovine, queste cicatrici della storia, non testimonino della sua fervente presenza.

Senza la civiltà monastica, senza la sua azione secolare, è certo che l'Occidente sarebbe potuto sopravvivere e anche resuscitare; ma non sarebbe assolutamente stato quel che è diventato e quello che è oggi, e il XII secolo non sarebbe stato quell'epoca di luce, una delle più abbaglianti della nostra storia, che invece è stato.

Profonda, originale, potentemente strutturata, la cultura monastica benedettina ha risposto per secoli, in maniera diretta ed intima insieme, ai bisogni, alle domande, ai problemi dell'uomo occidentale, e l'ha segnato per sempre.

 

Capitolo sesto

L'INFLUENZA

DELLA CIVILTÀ MONASTICA

SULL'ECONOMIA

E LA TECNOLOGIA

DELL'EUROPA MEDIEVALE

 

«Argumentabo», come si diceva nel Medio Evo incominciando una «disputatio», una disputa. Cioè inizierò dicendo quali saranno i miei argomenti.

 

Il Medio Evo è ricco in scoperte ed invenzioni tecnologiche decisive per il destino dell'Europa;

La Regola di San Benedetto è un buon manuale per l'imprenditore di oggi;

Assistiamo allo sviluppo di una economia agricola monastica ricca e potente e

Vediamo utilizzate innumerevoli tecniche proto-industriali;

Emergono momenti di alta tecnologia e di razionalità: il gotico cistercense e la clessidra;

Si attesta il regime presidenziale di assemblea degli ordini religiosi e lo sviluppo delle tecniche elettorali e deliberative moderne.

Ed ecco quale sarà la tesi: solo l'«humus» storico-religioso, cristiano - dunque per noi -, può spiegare l'avventura europea in genere e l'avventura monastica in particolare.

 

1. L'inventiva medioevale in campo tecnologico

 

Nel campo delle invenzioni e delle scoperte il Medio Evo occupa un posto importantissimo e ignoto. Qualche cifra per dare un'idea di questa importanza: 15 invenzioni prima dell'XI secolo; 10 nell'XI secolo; 27 nel XII secolo; 36 nel XIII secolo; 24 nel XIV secolo; 44 nel XV secolo. Una corrente continua di invenzioni tecnologiche, senza paragone con ciò che è accaduto altrove in altre civiltà.

Si tratta di scoperte, invenzioni, importanti e decisive per il destino particolare e specifico dell'Europa e senza le quali non si può spiegare la cosiddetta Rivoluzione Industriale del Settecento. Citiamo, tra altre: i ferri di cavallo, che proteggono gli zoccoli in terreni rocciosi, pesanti e ruvidi, e grazie ai quali è possibile ottenere un migliore utilizzo dell'animale; l'aratro ad avantreno, coltro e versoio, che permette di dissodare zone boschive e pianure alluvionali; i mulini ad acqua e a marea, e più tardi a vento, inventati dagli Arabi, ma diffusi in Europa grazie ai monaci che sostituiscono al lavoro dell'uomo il lavoro di una macchina che utilizza risorse energetico inesauribili il cabestano e il martinetto a vite, per sollevare grossi carichi; la carriola e la ruota a cerchioni; la bussola - che non è, come si dice comunemente, un'invenzione cinese, ma è un'invenzione occidentale; gli occhiali, che prolungano la vita intellettuale dell'uomo; la chiusa a doppia porta, che permette di controllare i corsi dei fiumi e dei canali; il collare di spalla del cavallo, che permette di utilizzare al massimo la forza del cavallo e rende inutile la schiavitù; il timone di dritta con cardine a ferro (1250); l 'orologio meccanico a pesi e a ruote (fine del XIII secolo) un'invenzione - ha scritto lo scrittore tedesco Ernst Junger - più rivoluzionaria di quella della polvere da sparo, della stampa e della macchina a vapore; il cannone (1327); la caravella (ca. 1430), di gran lunga la migliore imbarcazione del suo tempo; la stampa, eccetera. Alla fine del Quattrocento, l'Occidente prevale, e di gran lunga, sulle altre civiltà del mondo nei campi decisivi della siderurgia, dell'armamento e della navigazione.

 

2. I valori imprenditoriali della Regola di San Benedetto

 

Nella Regola di San Benedetto si ritrovano tutti i valori necessari al buon andamento di un'impresa. San Benedetto parla dell'operaio («operarium», Prol. 35; c. 7,133), che lavora con le sue mani, («labore manuum», c. 48,3), e con gli utensili («de ferramentis», XXXII), nell'officina (IV,98). Il lavoro; sia esso manuale, intellettuale, artistico o artigianale, è un elemento essenziale dell'identità monastica: «vivono col lavoro delle loro mani» (XLVIII,20). E perché lavorare? In ragione della propria condizione di povertà. E vedremo le conseguenze economiche di questa opzione spirituale. Poi, per aiutare i poveri (IV, 17,); per evitare l'«otium» ( inimica animae) (XLVIII,11; per il servizio della comunità e degli ospiti, che devono essere ricevuti «tamquam Christus» (LIII,2); per sviluppare, «in ogni circostanza» - dice San Benedetto - «i beni», ossia i talenti, che Dio ha messo in noi purché non sia a proprio svantaggio spirituale (LVII,4); e per seguire l'insegnamento di San Paolo.

Il lavoro va eseguito «bene», «con serenità», «senza tristezza», e soprattutto «senza mormorazione», cioè «senza recriminazioni», nella gioia di lavorare a fianco degli altri monaci. Infatti, per punire le colpe gravi (XXV,6), il frate non solo è colpito con l'esclusione «dalla mensa», dall'Oratorio, dal «colloquio» con gli altri, ma anche dal cantiere comune. «Se ne stia solo a fare il lavoro che gli è stato imposto».

Troviamo dunque nella Regola benedettina i valori (moderni) di ordine, gerarchia, regolarità, organizzazione, inquadramento del personale, ed inoltre, secondo me, due valori tipici del mondo industriale odierno, soprattutto del mondo protestante: la puntualità e l'attenzione totale, a tutto.

La puntualità è una nozione tipicamente benedettina, nuova nella storia dei popoli e che non tutti i popoli, o meglio non tutti gli uomini, senza allusione ad alcun popolo in particolare, hanno ancora ben assimilata. Benedetto punisce chi arriva in ritardo all'opera di Dio e alla Mensa, quelli che non si alzano al segnale («quando viene data la sveglia» «absque mora», senza ritardo, XXII, 13); quelli che mettono un intervallo tra la parola del superiore e l'azione del discepolo, o che al segnale non lasciano «incompiuto quello che stavano facendo» (V, 14). Obbedienza immediata, dunque, per rispettare le esigenze della puntualità.

Per ciò che riguarda l'attenzione, il passo davvero moderno della Regola, quello che da questo punto di vista è il più importante, si trova nel Cap. IV, 56, e dice: «Actus vitae suae omni hora custodire». Vale a dire: controllare ad ogni momento gli atti della propria vita.

Infatti viene punito chi si sbaglia nell'oratorio (XLV), chi «commette mancanze in altre cose di qualsiasi genere» ed in qualsiasi luogo, cucina, forno, dispensa, orto (XLVI); chi ha «poca cura della pulizia o la fa con trascuratezza» (XXXII); chi lascia cadere, per esempio, il suo cucchiaio.

Non c'è quindi spazio per la distrazione, l'oblio, il lapsus, l'incoerenza, la fantasticheria, i gesti maldestri: il monaco, l'uomo di oggi, deve essere presente a se stesso, sempre ed ovunque. E' il trionfo del self-control, della padronanza di se stesso. Qualità molto raccomandata agli autisti…

 

3. L'economia monastica.

 

«Militans sub regola vel abbate» (I,4), il monaco si prepara a vivere la sua vita di cristiano integrale, ma «primum vivere, deinde philosophari», dunque bisogna prima di tutto incominciare a lavorare, quindi «arare», «solcare» nel senso figurato di «indagare» (in francese è un po’ un gioco di parole perché arare si traduce con labourer, etimologicamente simile a lavorare). Contrariamente al motto famosissimo: «laborare et orare», che non si trova nella Regola, i monaci si mostravano restii di fronte al lavoro agricolo, tanto che Benedetto ingiunge loro di non recalcitrare se la povertà o la necessità del luogo li fanno lavorare più a lungo del previsto. Benedetto conosce gli uomini e li prende come sono. I monaci diverranno i migliori imprenditori del Medio Evo: i migliori, e sovente i soli. Perché? Essi sono in genere più istruiti di quanto non siano i contadini e i loro signori.

Rapidamente l'empirismo lasciò il posto ad una riflessione, che possiamo dire razionale.

Sono buoni osservatori: durante i lunghissimi viaggi - da mille a duemila chilometri in linea d'aria che fanno a piedi per andare al Capitolo Generale di Cîteaux o Cluny -, hanno l'occasione di conoscere e scambiare i nuovi prodotti, le nuove maniere di coltivare, di produrre il vino, la birra o l'olio. E riportano a casa le novità. Proprio dei religiosi, per esempio, tra altri prodotti, hanno introdotto in Europa la patata e i fagioli. Sono inoltre sensibili alla varietà delle cose: si è già detto che nel Settecento i giardini dei certosini a Parigi contavano 88 sorte di pere. Con lo stesso spiriti coltivano le piante aromatiche, che sono alla base della farmacopea medievale, preparano i cordiali per sostenere il cuore (cor, cordis - cuore), o le acquaviti, alcool farmaceutici destinati a rianimare le forze declinanti degli ammalati. E' l'origine del vermout.

Hanno introdotto dovunque la coltura dell'olio (per esempio in Toscana), del gelso e del baco da seta (nella provincia di Padova e nella regione Sabina); hanno creato innumerevoli castagneti.

I monaci, molto spesso e specialmente durante i primi secoli vivono assai lontano dai centri urbani e sono quindi, come abbiamo già visto, votati all'autarchia. Per molto tempo saranno poveri e non in grado di comperare il vino e l'olio necessari. La terra dell'abbazia non sempre si presta alla coltivazione della vite, come è stato ad esempio il caso della Champagne; il clima poi non necessariamente favorevole, pensiamo ad esempio all'Inghilterra al Belgio, al nord della Germania. I monaci hanno dovuto affrontare tutte queste difficoltà e, spinti dalla necessità, sono diventati a poco a poco i migliori vignaioli d'Europa. «Il loro compito - scrive lo storico francese Claudian - nella selezione dei ceppi e nel perfezionamento della vinificazione resterà dominante fino al Settecento». Dobbiamo ai cistercensi di Germania la coltura a terrazze, per esempio.

Se non è possibile, a causa del clima, ottenere vino, fabbricano sidro, idromele o birra, che non è cervogia, contrariamente a quello che si dice, e che è un'invenzione dei benedettini fiamminghi (ca. XI sec.): per aggiunta del luppolo.

Lo stesso si può dire della silvicoltura, dell'apicoltura, della piscicoltura, dell'agricoltura, della frutticoltura. I monaci hanno praticato lo sviluppo della rotazione, le prime forme di avvicendamento triennale, specialmente nelle grange del bacino di Parigi, onde l'aumento della resa.

I Cistercensi hanno proprio riabilitato il lavoro manuale, e ciò spiega la loro partecipazione al progresso economico dell'Europa nel secolo XII-XIII. Anche se l'importanza dei monaci dissodatori è stata a lungo esagerata, si può affermare che, senza il loro lavoro l'Europa non sarebbe diventata la terra di alta civiltà che era alla fine del Medio Evo. L'importanza dell'atteggiamento di fronte al lavoro spiega il «conflitto» con Cluny e Pietro il Venerabile, discussione eterna sul significato della parola «lavoro»: per il marinaio, il minatore - il ferroviere di oggi -, l'universitario - che siamo noi - non lavora! I monaci hanno anche praticato l'allevamento del bestiame su larga scala: per la carne, laddove il consumo era tollerato, per il latte, i formaggi, la lana, per il pollame, il cuoio, il concime e infine per assicurarsi il denaro, senza dimenticare i poveri e gli ammalati. In questo campo erano efficientissimi e faccio un esempio per illustrare questa affermazione.

Nel XII secolo, l'Abbazia di Cambron in Francia riesce appena a nutrirsi; un secolo dopo possiede una fattoria con 169 mucche e buoi, 426 vitelli, più di 60 porci e oltre 400 pecore. In Sardegna, il decollo economico, dato da una abbazia di Cîteaux, è assicurato da una dotazione di 10.000 pecore, 1.000 capre, 2.000 maiali, 500 giumente e 100 cavalli.

Lavorando ed organizzando il lavoro come facevano i monaci e vivendo, come almeno vivevano durante i primi secoli, dovevano avere riserve copiose. Di grano? ne facevano birra. Di miele? ne facevano l'idromele, l'assenzio mielato; di latte? ne facevano latticini, ricotta («recoctum lac») e formaggi; di farina? ne facevano «dulceamina» (pane alle spezie o pepato), cialde, «certosini», «bretzel» (parola germanica che viene da bracelli, dal lat. bracchium» perché questi pasticcini avevano la forma di due braccia incrociate, cioè il segno che usavano i monaci di Cîteaux per indicarli). E il vino? Il Medio Evo ha una predilezione per i vini cotti sul fuoco: «carenum» - un terzo della quantità iniziale - o «sapa - due terzi - che non è «l'agresto», contrariamente a quanto dicono alcuni dizionari.

Tutte queste produzioni esigono, oltre a riserve importanti che il contadino non possiede, capitali, luoghi adatti ed una tecnologia avanzata. L'economia monastica è dunque ricca e potente.

Il grande storico francese Hippolyte Taine scrive: «Attraverso il suo lavoro intelligente, volontario, eseguito con coscienza e condotto in vista dell'avvenire, il monaco produce più del laico e attraverso il suo regime sobrio, concertato, economico, egli consuma meno del laico. Per questo laddove il laico ha fallito, egli si mantiene e prospera.. Senza averlo voluto né previsto, anzi al contrario, i monaci diverranno all'inizio del XIII secolo ricchi, potenti e, naturalmente, prepotenti, come saranno più tardi i protestanti e specialmente i puritani, che hanno preso in prestito tanti valori benedettini tradizionali. E' il caso classico del patricidio culturale, compiuto con buona coscienza, come prova della benignità di Dio.

Ho detto ricchi, potenti e, naturalmente, prepotenti. Lord Acton, - un inglese ma che aveva sangue italiano nelle vene, dunque senza illusioni sull'uomo -, ha scritto una volta: «Il potere corrompe e il potere assoluto corrompe assolutamente». La storia dei tempi passati e nostri conferma ampiamente questa asserzione.

 

4. Le tecnologie monastiche

 

Sarebbe uno sbaglio enorme ridurre le attività monastiche alla sola agricoltura e allo «scriptorium». In realtà non ci sono campi dove i monaci non hanno esercitato le loro attività. Li troviamo occupati ad estrarre carbone (nel 1217 la sola Abbazia di Culross in Scozia, possiede 170 navi destinate ad esportare il carbone); producono anche torba, marmo, gesso, ardesia, allume, ferro, argento, oro. Scavano gallerie sotterranee, con armature, tecniche nuove per l'epoca. Sono i maestri della prima metallurgia; possiedono il legno, il ferro, l'acqua, la tecnica, le capacità necessarie per organizzare il lavoro, lo spirito di intraprendenza e i capitali. Hanno fabbricato perfino cannoni.

Non parliamo poi della stampa: sono i promotori in questo campo, con gli Ebrei e i Tedeschi.

Un po' dappertutto in Europa sfruttano saline; altrove creano veri centri industriali: concerie, follatrici di tessuti e di cuoio; sono i promotori del mulino ad acqua «per aver più tempo - dicono - da consacrare alla preghiera», come dice un testo dell'XI secolo.

Tutti i grandi insediamenti religiosi, Benedettini, Granmontani, Certosini, Cistercensi, hanno costruito mulini, fino a 20 in una sola abbazia. Il primo mulino a vento - nuovo passo tecnico importante all'epoca - risale al 1180 circa, ed è stato costruito per una abbazia.

I Cistercensi fanno mattoni di grosse dimensioni, provvisti di fori destinati a facilitare la cottura e il maneggio: sono conosciuti sotto il nome di «mattoni di San Bernardo». In Borgogna hanno installato numerose fabbriche di tegole e le fanno trasportare in tutte le loro obbedienze e priorati. Idea moderna: standardizzare la produzione, con grande scontento, naturalmente, del signore del luogo che trova questi monaci troppo «commerciali».

Per dare un'idea della capacità organizzativa del Medio Evo diciamo che per una abbazia cistercense inglese in tre anni dal 1278 al 1281, più di 35.000 carretti trasportavano su 8 chilometri 35.000 tonnellate di pietra. Un carretto doveva lasciare la cava ogni quarto d'ora.

I Camaldolesi, che sono benedettini, eremiti e contemplativi, sono specializzati nella costruzione di ponti. I Certosini, i soli monaci oggi che non siano Benedettini, anche loro contemplativi per eccellenza, fabbricano camini di ghisa, da mettere nel fondo del focolare.

I monaci hanno saputo controllare le acque, prosciugare le paludi, conquistare alcune terre sul mare, arginare il corso dei fiumi -del Po, in particolare-; creare laghi artificiali (di nuovo i nostri Camaldolesi), mutare il corso dei fiumi per irrigare i loro giardini e far funzionare i loro mulini, captare torrenti: in Francia, ad esemplo, nel XII secolo si realizzò un enorme lavoro di adduzione di 2 chilometri.

Insomma, fedeli all'insegnamento di San Benedetto (LXVI,15-20), i monaci agiscono in modo tale che «tutte le cose indispensabili» per vivere - acqua, mulino, orto, vari mestieri - si possano trovare all'interno dell'abbazia. Il Cap. LVII della stessa Regola parla degli artigiani che lavorano nel monastero e della vendita dei loro prodotti - quindi si tratta di un centro commerciale - ad un prezzo un po' più alto di quanto sarebbe quello degli altri secolari. Non so quanto gli altri si rallegrassero di fronte a questa politica commerciale un po' particolare.

Ogni abbazia è dunque una vera impresa, perfettamente organizzata. Per esempio, oltre i vivai e gli orti tradizionali, troviamo nell'Abbazia di Foigny in Francia 14 mulini, una gualchiera per i tessuti, una birreria, una vetreria, due filande e tre frantoi. L'acqua preziosa, rara e necessaria è utilizzata in maniera perfettamente razionale. Per esempio a Clairvaux nel XIII secolo il torrente d'acqua fa girare i mulini per separare la farina dalla crusca; approvvigiona una fabbrica di birra, prodotto tradizionale dei trappisti ancora oggi in Francia; una conceria, una gualchiera, oltre a fornire la cucina, i diversi giardini, le latrine, i bagni e i vivai.

Si potrebbe prolungare l'enumerazione delle attività monastiche durante il Medio Evo, ma quanto detto è sufficiente: Sat prata biberunt.

Aggiungo solo un'ultima considerazione: per forza il regime di vita, di lavoro, di attività razionale imposti dalla volontà di vivere secondo lo spirito del Vangelo e la lettera della Regola - vera ed autentica infrastruttura - creano le condizioni ottimali per una «accumulazione primitiva capitalistica», per parlare come Marx, e quindi per la creazione di una economia monastica dinamica. Ma è proprio il rovesciamento della tesi di Marx, che ha tentato di spiegare la sovrastruttura - vita intellettuale, ricerca scientifica, creazione artistica, religione, morale - attraverso una infrastruttura unicamente economica o tecnico-economica. Nel caso dell'economia monastica invece è evidente come l'infrastruttura sia di natura specificamente spirituale.

 

5. Momenti di alta tecnologia e razionalità

 

Emergono in tale contesto anche momenti di alta tecnologia. Si tratta, per esempio, di ciò che il professor Albert D'Haenens dell'Università di Lovanio definisce «il sito cistercense, come memoria culturale per una semantica dello spazio monastico medievale». Riassumo la sua riflessione: per D'Haenens, il gotico cistercense è rivelatore di una nuova visione del mondo, di una riorganizzazione del mondo dei sensi che sfocia in una subordinazione del tattile e dell'udito alla vista. E' un «savoir fair», un'abilità nuova. I cambiamenti che si manifestano nella scrittura, cosiddetta «gotica», sono i riflessi di questa evoluzione che porta all'abbandono della «carolina» e della pur così bella «irlandese».

Questa visione nuova pone l'accento sul principio stesso della struttura: le superfici e i volumi non sono più considerati come un tutto globale, omogeneo e indifferenziato, ma implicano una presa di coscienza tecnica nuova, una perizia nuova, e, al limite, una fiducia più grande nella ragione. D'Haenens conclude dicendo che «lo spazio gotico è uno spazio in via di desacralizzazione», la quale - aggiungo - è un movimento iscritto nel patrimonio genetico del cristianesimo. «E' lo spazio della razionalità, della trasparenza, della luce» - aggiunge D'Haenens. Lo stesso si può dire delle città nuove medievali, in particolare delle città della Lega Anseatica che sorgono appena dopo le abbazie di Cîteaux e, aggiungerei volentieri, delle università.

La prova moderna di tale razionalità dell'Ordine cistercense in questo caso, e della tecnicità dei mezzi messi al servizio della nuova visione - Weltanschauung - è il fatto che la gran parte dei siti monastici, e specialmente quelli cistercensi, sono stati utilizzati, dopo la Rivoluzione Francese, come carceri, ospedali, caserme, collegi, fabbriche, tant'era grande la perfezione tecnica e la razionalità che aveva presieduto alla costruzione di questi siti, lontani e insieme vicini al nostro tempo.

 

La clessidra rientra anch'essa nei casi di raggiungimento di un notevole risultato tecnologico. Se quella in uso nell'abbazia cistercense di Villers (Belgio) nel 1267 ci appare per taluni aspetti ancora un po' rudimentale, per altri versi esprime una sua estrema raffinatezza, attesta la volontà di misurare meccanicamente, cioè senza l'intervento dell'elemento umano, sempre fallibile, lo scorrere del tempo. Vediamo ritornare questa preoccupazione acuta dell'esattezza, perché la Regola di San Benedetto organizza minuziosamente la giornata del monaco. Siamo dunque di fronte al caso di un imperativo puramente spirituale: dare prova «di una certa rettitudine morale e di un principio di vita monastica» (LXIII,2), come quello di San Benedetto, che genera una tecnica raffinata. Abbiamo di nuovo il rovesciamento della tesi marxista.

 

7. Lo sviluppo delle tecniche elettorali

e deliberative moderne

 

Un secolo prima della Magna Charta d'Inghilterra (1215), embrione del nostro regime parlamentare, l'Ordine di Cîteaux ha inventato nel 1115 lo strumento di governo più perfetto che si conosca: il Capitolo Generale, summa potestà dell'Ordine, la magna Charta dell'Ordine, la prima assemblea sovranazionale europea. Tale tecnica si è mostrata così efficace da venire imitata da tutti gli altri ordini religiosi e, in una certa maniera, dagli Inglesi stessi con la loro Magna Charta.

Tutti gli Ordini Religiosi, e il mondo benedettino in particolare,hanno affermato il principio - democratico - della Assemblea come Summa potestas e sorgente di tutti i poteri; l'obbligo di eleggere chi deve governare la comunità; l'obbligo per l'abate di discutere con loro tutti i problemi che riguardano i «soggetti»; la possibilità di una certa obiezione di coscienza; l'affermazione (cap. 63,6) che l'abate gode solo di una «quasi libera potestate» (dunque, non assoluta) e deve governare solo «iuxta et praeter statuta», («militans sub regola vel abbate» (I,4). Infine è detto che il Capitolo Generale stesso non può governare contro l'opposizione della comunità, «toto convento renitente», ma in modo - si dice - da non discostarsi dal diritto, dalle leggi e dalla ragione.

Per assicurare la regolarità e la libertà delle elezioni e delle deliberazioni, la Chiesa, e specialmente gli Ordini Religiosi medievali, hanno inventato e raffinato tutte le tecniche che sono in uso ancora oggi: lo scrutinio, i turni di scrutinio, gli scrutini o secreto, la maggioranza assoluta, la qualificata relativa, la nozione di minoranza qualificata, detta della «sanior pars», la maggioranza «major et sanior» e la tecnica utilizzata nel Medio Evo, quella del «compromissum», detta ancora arbitraria, che si utilizzava quando l'assemblea era troppo numerosa per poter discutere saggiamente («labor tantae deliberationis, irritus et inanis»).

Inoltre è lecito affermare che le pratiche elettorali e deliberative del mondo moderno traggono origine non dall'antichità greca o latina, come si è creduto per molto tempo, né dalle pratiche dei Comuni, i quali hanno piuttosto imitato gli Ordini Religiosi, ma dagli Ordini Religiosi stessi.

La sola tecnica che non sia clericale, fatto curioso, è quella del conclave, invenzione invece dei Comuni italiani.

Anche i modi del conteggio provengono dagli Ordini Religiosi: si contano i voti, se lo scrutinio si fa per bocca ad orecchio, o le schede, che si bruciano dopo ogni scrutinio, o le ballotae (guai a chi riceve una ballotta nera. In francese il termine «blackbouler» significa familiarmente «trombare», «bocciare», «silurare»). Si utilizzano a tale scopo pezzi di monete, castagne - sbucciate o meno -, fave. Si poteva votare utilizzando il copricapo (opiner du bonnet: opinare, da cui opinione). C'era anche il voto per seduta e levata: chi vuole esprimere il voto negativo, deve alzarsi, sistema più penoso e più difficile. C'era il voto a mano alzata, la mano destra; oppure quello che si esprimeva uscendo da una o dall'altra porta della sala di deliberazione, «pedibus ire in sententiam», sistema ancora oggi in uso nel Parlamento inglese.

 

7. L'humus storico dell'Europa

 

Ora, come spiegare la superiorità tecnologica e scientifica del mondo europeo nel passato, la democrazia monastica, i successi dell'economia monastica? Tutto è dovuto al caso? alla fortuna? è un accidente? - come ritiene il povero filosofo francese di nome Garaudy. Né il caso, né la fortuna si ripetono così di frequente nei secoli. Si impone una prima osservazione: il perché dell'invenzione tecnica non deve essere ricercato né nella situazione geografica, superficie inerte, né nella tecnologia stessa, né ancora meno nell'individuo che, seppur geniale, in questo campo non è altro che un prodotto altamente socializzato della società.

Da parte di specialisti della storia e della tecnologia, viene riconosciuto che l'invenzione tecnologica è sempre il fatto di un gruppo, della sua percezione del reale, della sua visione dell'uomo e del mondo, della sua percezione dello spazio, del suo inconscio collettivo. In altri termini: l'invenzione tecnica, l'artefatto, è una concrezione di valori socio-culturali che si affermano e si sviluppano in una data società e in una certa epoca, e non è mai un accidente fortunato, o un epifenomeno o un fungo epifita, più o meno buono (il quale neppure esso spunta per caso).

L'invenzione tecnologica è dunque il prodotto dell'humus di una civiltà data.

Seconda osservazione: non basta che il «terreno» socio-culturale sia favorevole all'invenzione tecnica. Occorre anche che l'uomo abbia sia la volontà di rispondere alle sfide che gli lancia la storia sia la capacità necessaria per rispondervi. «Frutto dell'azzardo - diceva Fleming, inventore della penicillina -: ancora occorre che non cada su un imbecille».

Qual è l'«humus» storico dell'Europa? Le eredità greca, romana, araba, slava, celtica e germanica: questo è innegabile. Ma è più evidente ancora che questi apporti hanno dovuto essere assimilati da uomini che erano essenzialmente cristiani, e proprio in quanto erano cristiani. Dunque l'«humus» europeo è eminentemente cristiano, da secoli. Non si tratta qui del cristianesimo istituzionalizzato, né del cristianesimo dei teologi, ma del cristianesimo tale e quale è percepito, sentito e vissuto, direi quasi « alla bell'e meglio» dalla massa dei credenti comuni, dal popolo di Dio.

 

7. Dal punto di vista sociologico:

una religione «desacralizzante» e dinamica.

 

Ora, dal punto di vista sociologico, che è il mio, il cristianesimo si presenta come una religione desacralizzante e dinamica.

Il giudaismo, e il suo seguito, cioè il cristianesimo, è essenzialmente una religione distruttrice di quell'apparato «religioso» - dice Henri Desroche -, che è «controllore» del sacro, è una fede «demistificatrice e demistificante». Questo perché, al contrario di quanto avviene nel panteismo in cui il divino e il mondo sono confusi, Dio - il Dio dei cristiani - ha creato un mondo distinto da lui: questo mondo è quindi conoscibile, accessibile all'uomo. Non è una trappola, un'illusione, un fantasma. «Dio - dice un teologo francese (Guillaume de Conches 1080-1145)- rispetta «le proprie leggi» e l'uomo può conoscere le sue leggi. «Natura est ratio», afferma Sant'Alberto Magno, e per la nostra riflessione, non importa se questa asserzione sia scientificamente esatta o no. La cosa importante per me è che gli uomini l'abbiano accettata come giusta, evidente, ovvia, e si siano condotti in conformità a questa credenza.

Ne è nata una fiducia totale, e qualche volta eccessiva, nei poteri della ragione umana, che preannuncia l'Illuminismo: nello spirito sperimentale - basti: pensare a Bacon, un francescano inglese (1214-1292) -, nella libertà (la cui radice era cristiana) dell'uomo e, finalmente, nei poteri (prometeici, dirà l'umanesimo rinascimentale, o luciferini, come dirà Marx) dell'uomo.

Risultati: nel Seicento l'europeo dispone di più di cento utensili, laddove l'abitante dell'India non ne ha che due o tre. Privo di banco di lavoro, il falegname di Calcutta impiega tre giorni a fendere un'asse, mentre l'artigiano europeo impiega un'ora. Questo stesso secolo, il Seicento, vede apparire di più i primi segni di istituzionalizzazione della ricerca scientifica in Inghilterra. Nel 1608 si contano più di cento Università in Europa, nessuna nel resto del mondo, salvo in America Latina per opera degli Spagnoli. Di queste Università, più di ottanta sono state create durante il Medio Evo: creazione autentica, genuina, specifica del Medio Evo.

Tutto questo progresso scientifico e tecnico, le Università, la conquista del mondo, questo gigantesco movimento storico, non può essere e non è il frutto di una «chance» o dell'azzardo: è intimamente legato al nostro passato e specialmente al luminosissimo Medio Evo. Citiamo una performance tecnica anteriore ai tempi detti moderni: nel 1221, l'altezza, sotto volta, della Cattedrale di Amiens in Francia è di più di 42 metri, record del mondo durante i secoli. Bisognerà poi aspettare la Tour Eiffel nel 1889, cento anni fa, per vedere una costruzione più alta della guglia della Cattedrale di Strasburgo (1250), 162 metri d'altezza.

 

Ho detto inoltre che si tratta di una religione dinamica e, dunque, di un tipo d'uomo dinamico. Per convincersene, basta leggere la Bibbia: tre volte Dio dice all'uomo: «Riempite la terra e rendetevela soggetta». «Abbiate la signoria della terra». Tutto è dato nelle mani dell'uomo; anzi, anche prima di plasmarlo, Dio ha detto di lui: «domini...» e ha poi aggiunto «...ed abbia la signoria sopra tutta la terra» (Gen 1,26-28). Leggiamo un altro passo della Bibbia (Gen. 20,17): a Lot Dio dice: «Non guardarti indietro, non fermatevi in tutta la pianura. Scappa in alto». E ascoltiamo il bellissimo salmo 8 che canta la gloria dell'uomo. Dice l'uomo rivolgendosi a Dio:

 

«Che cosa è l'uomo perché te ne ricordi?

il figlio dell'uomo perché te ne curi?

Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli,

gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,

tutto hai posto sotto i suoi piedi?»

 

Cristo dice al paralitico: «Levati e cammina» (Mt 9,6). Non basta per il cristiano, stare in piedi; egli deve inoltre camminare. Barcollando come un bambino? No, camminando come un adulto, dice San Paolo; «nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo» (Ef 4,13), senza scostarsi dalla strada maestra «né a destra né a sinistra» - dice la Bibbia (Deut 2,27).

E sappiamo tutti che Cristo ha ordinato ai suoi discepoli di evangelizzare tutto il mondo, tutte le genti. L'idea di «performance», di avventura, di sfida, anche a quanto è interdetto, pensiamo ad Adamo o all'Ulisse di Dante, è tipicamente cristiana. Eva sfida l'interdetto di Dio, perché crede che il frutto sia desiderabile per acquistare l'intendimento. E' un movente nobile. Sono cristiani che hanno assicurato tanti progressi della scienza, tante grandi scoperte per la conquista spirituale, intellettuale ed economica del mondo.

 

Dobbiamo parlare ancora di dinamismo?

All'arrivo di San Bernardo, l'Ordine di Cîteaux conta soltanto 19 abbazie. Alla morte del Santo ne enumera 345, in quarant'anni, e quasi 700 alla fine del XIII secolo. Si diffuse nel mondo conosciuto dell'epoca, fino in Scozia (1136), Danimarca (1144), Romania (1179), Lettonia (1208), Grecia (1207) e perfino in Turchia (1214).

L'ordine è stato fondato nel 1098, e non ha cominciato a svilupparsi veramente che sotto l'impulso di San Bernardo, padre del decollo dell'Ordine che in quindici anni ha creato più di 300 abbazie. La volontà di vivere, alla lettera, in disparte dagli altri uomini il messaggio evangelico è il «primum mobile» della vita monastica, la quale all'inizio è essenzialmente di natura eremitica.

Ma questa volontà implica di per sé dinamismo, spirito di iniziativa, anche individuale - pensiamo proprio di nuovo a San Bernardo - invenzione sistematica e continua, perfezionamento di strumenti e utensili necessari alla conquista e allo sfruttamento della natura, opera divina messa a disposizione dell'uomo e buona. Dio stesso ripete sei volte nella Bibbia che tutto quello che ha creato è buono, ed anche «molto buono», proprio quando ha plasmato l'uomo.

Diciamo, per concludere con un sorriso, che questo ultimo giorno Dio è stato forse un po' troppo soddisfatto del suo capolavoro (più tardi la Bibbia nota che Dio «si pentì di aver fatto l'uomo sulla terra» (Gen 6,6).

L'essenziale per il sociologo che tenta di capire la civiltà che l'ha generato è di constatare che durante millenni l'uomo cristiano è andato alla conquista del mondo con buona coscienza, senza esitazione, né complessi. In seno a questa umanità impetuosa i benedettini non sono stati gli ultimi ad operare e a pregare.

Fine del libro

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