Léo Moulin

LA VITA QUOTIDIANA SECONDO SAN BENEDETTO

 

PREMESSA

Io ho cercato di narrare a grandi linee la vita quotidiana di un monaco benedettino così come fu tracciata da san Benedetto circa quindici secoli fa, così come essa si è svolta, giorno dopo giorno, per secoli, nell'Europa intera, così come essa è vissuta oggi da coloro che hanno promesso di vivere pienamente il loro voto di Stabilitas in Congregatione (c. 4, 101). Il che tradotto vuol dire: in tutta fedeltà allo spirito della regola benedettina.

Alcuni dettagli sembreranno, forse, superflui, forse, prosaici.

E tuttavia essi hanno un significato profondo, negli atti della vita quotidiana, poiché sono ordinati all'organizzazione di ciò che costituisce l'essenziale di questa vita, vale a dire la preghiera.

E' senz'altro vero che scrivere «essi pregarono», sarebbe sufficiente a riassumere l'essenziale di tante esistenze oggi scomparse, o presenti tra di noi, benché lontane da noi, all'ombra dei chiostri, all'ombra dei secoli. Bisognerebbe però spiegare in che modo questi uomini riuscivano e riescano a salvaguardare e a esaltare i valori d'interiorità che costituiscono il cuore della loro vocazione. Io, per quanto mi era possibile, l'ho tentato in ragione dell'amicizia e del rispetto che nutro nei loro confronti. Se dovesse esserci qualche errore nelle pagine che seguono, io li riconoscerò non superbiendo aut resistendo vel contradicendo (c. 68,7-8).

 

Primo Capitolo

LA CORNICE

1. La scelta del posto

La prima questione che si poneva era quella del posto della nuova fondazione: perché i monaci andavano a sperdersi in luoghi così lontani, inospitali, spesso in condizioni climatiche che pone- vano dei problemi tremendi?

La risposta è semplice: essi cercavano anzitutto la solitudine, lontano dalla corruzione e dal frastuono della città. Ancora, essi dovevano trovare i mezzi per sopravvivere. Per questo essi dovevano avere delle terre, dei pascoli, dell'acqua e una foresta. Delle terre rese coltivabili tramite prosciugamento e irrigazione, dissodamento, bonifica. Pascoli per gli animali, acqua per la cucina, la pulizia dei locali e specialmente dei necessaria (servizi igienici), la cura del corpo, l'irrigazione dei giardini, i vivai, la fabbricazione della birra, i mulini, che all'epoca rappresentavano uno dei punti avanzanti della tecnologia e il cui impiego era allora molteplice.

La foresta, una foresta di piccole querce, di betulle e di carpini - è il caso della immensa foresta delle Ardenne- forniva il legno delle installature, gli utensili, i paletti per i giardini; essa dotava anche la cucina di combustibili; le ghiande permettevano ai maiali di nutrirsi. Vi era un ordine ben preciso per l'ammissione dei suini all'interno della foresta: dapprima quelli del monastero, quindi in ordine quelli del re, dei signori del villaggio e infine quelli dell'università. Più tardi la foresta sarà sottoposta ad uno sfruttamento commerciale saggio e previdente. Poi, quando l'abbazia avrà gettato le basi di una industria metallurgica, è ancora la foresta che assicurerà la fornitura di energia: a Orval, per esempio, i trenta operai che lavoravano alle fucine erano provvisti di legna da più di 460 legnaioli.

Non dimentichiamo poi le bacche, le nocciole, i frutti dei faggio, i funghi, le corniole che fornivano un complemento non irrilevante alla nutrizione, il muschio e le foglie cadute che servivano da concime. Non dimentichiamo soprattutto il miele delle api selvagge, così prezioso che un uomo chiamato Bigrus ha il compito particolare di scoprirne i nidi. Infine la foresta, come la notte, è fonte di terrori panici sia per la soldatesca e i briganti che per gli arditi cavalieri bardati di ferro: essa costituisce una cintura di protezione per lo sparuto numero di monaci disarmati che vi sono rifugiati.

Si vede dunque che le ragioni che inducono i monaci a stabilirsi in un posto o nell'altro sono dettate dalle esigenze stesse della loro vocazione e del loro stile di vita. Contrariamente a quanto afferma un certo romanticismo di cattiva lega, la scelta non è affatto determinata dal desiderio morboso di vivere in boschi selvaggi, su terre infeconde, alla mercé di paludi pestilenziali.

Ai nostri giorni il giudizio è completamente cambiato e si ammira piuttosto la bellezza dei posti scelti dai monaci, si direbbe quasi con istinto sicuro. Ed in effetti alcuni paesaggi monastici sono di una bellezza impressionante. Gli esempi si moltiplicano sotto la penna: Thoronet, Sénanque, Saint-Martin-du-Canigou, Poblet, Alcobaáa, Hirsau, Rievaulx e molti altri.

Per quanto possa essere giustificata, questa ammirazione esige tuttavia delle riserve. La prima è che i monaci non hanno sempre scelto bene; più di una volta essi hanno dovuto abbandonare la loro prima fondazione per stabilirsi in un posto meno ingrato e meno esposto. La seconda è che il loro lavoro secolare ha profondamente umanizzato il paesaggio. La bellezza è in buona parte opera degli uomini.

2. Vivere, non semplicemente abitare

Il cuore di un'abbazia, la sua unica ragione d'essere è evidentemente la Chiesa. Sia essa umile o sontuosa è da essa che ogni giorno, giorno e notte, si eleva la preghiera dei monaci. Ma tutt'intorno a questo edificio primario sorgono i numerosi edifici necessari alla vita comunitaria: il chiostro, la sala capitolare dove si riunisce la congregatio, il capitolo, la biblioteca, il dormitorio, i servizi detti necessaria o latrina, la sala delle abluzioni, il refettorio e la cucina, l'infermeria, che in una grande abbazia poteva avere la sua propria cappella, il suo chiostro, la sua cucina e il suo giardino.

Questi locali sono mantenuti in uno stato di pulizia esemplare. «Ogni sabato ci si dedica alla pulizia», stabilisce San Benedetto (c. 35,13). La pulizia è una delle cure principali di queste comunità di uomini. Il refettorio, per esempio, è sottomesso alla sorveglianza del refectorarius. Spetta a lui pulire ogni inverno le finestre di vetro e assicurare la pulizia dei carrelli del refettorio con una scopa di giunchi e di sterpi. D'estate egli ricopre il suolo di fiori, di menta e di finocchio. Questo genere di attenzioni non si limita evidentemente al solo refettorio. E'così che alcuni libri, in cui erano raccolti usi e tradizioni dei monasteri, prevedevano che il secretarius dovesse pulire gli altari cospargendoli con l'issopo o il bosso di acqua e di vino.

Necessariamente ogni monastero comprendeva inoltre diversi laboratori (c. 66,12-15): panetteria, laboratorio caseario, enologico, e secondo i casi delle cantine, dei magazzini per le provviste, dei forni, un lavatoio, delle stalle, delle scuderie...

Non dimentichiamo poi i locali per raccogliere i pellegrini, gli ospiti, i viaggiatori e i delegati delle abbazie durante i giorni del capitolo generale.

Infine nel Medioevo ogni monastero ha i suoi vivai, i suoi alveari, il suo orto, il suo frutteto, le sue aiuole di erbe medicinali. Più lontano si estendevano i pascoli, le coltivazioni e i boschi.

Il chiostro, claustrum, è il centro e l'anima della cittadella monastica. E'il luogo dove si svolgono le attività sociali della giornata: la distribuzione degli incarichi ad opera dell'abate o del priore, l'esecuzione di alcuni lavori, il lento corteo dei monaci che si recano in chiesa o nella sala capitolare, la lettura, la meditazione, in altri tempi la siesta.

Per lungo tempo il dormitorio fu comune per tutti, ivi compreso l'abate. Alcuni erano molto grandi: 66 metri per 12 a Poblet. Era in effetti uno dei vertici della mortificazione monastica. Alcuni trappisti che hanno conservato questa tradizione fino ai nostri giorni mi hanno assicurato che hanno avuto bisogno di un certo tempo per abituarvisi. Si può ben credere loro. Per quanto gli uomini di altri tempi siano stati abituati alla promiscuità della vita sociale, i religiosi lottarono molto presto per non subire più questo supplizio quotidiano e per ottenere un divisorio o una tenda che assicurasse loro, se non il completo silenzio della notte, almeno un minimo di isolamento.

Il letto: un tavolato con un saccone di fieno, di paglia o di foglie morte, una stuoia, una coperta, un copripiedi e un cuscino. I religiosi dormivano completamente vestiti, togliendosi solamente lo scapolare. In alcuni monasteri il rigore era spinto fino al punto di dormire sul tavolato, senza coperta. Altri invece tolleravano dei lenzuoli di lana o di lino: agli occhi dei rigoristi era un oggetto di scandalo!

Il monaco deve alzarsi «senza ritardo al segnale dato» (c. 22,13) da una campana o da uno strumento di legno. San Benedetto non sopporta i ritardatari. Ma la sua tenerezza per gli uomini, avremo l'occasione di mostrarlo, la spunta regolarmente sulla sua volontà di esigere da essi un poco di più o molto di più di quanto essi non sarebbero portati a dare spontaneamente. Alla fine di questo stesso capitolo della regola egli scrive: quando si levano per l'ufficio divino si esortino a vicenda con garbo, moderate, «per dissipare le scuse dei sonnolenti» propter somnulentorum excusationes (c. 22,19). Tratto tipico della discretio, del senso di misura che caratterizza il Santo.

Del riscaldamento nessuna traccia. Fino al diciassettesimo secolo, fino all'invenzione delle «stufe» di maiolica, la società ha conosciuto in inverno gli aspri morsi del freddo. A ciò si aggiunge per i religiosi una incredibile volontà di mortificazione. Nessun posto del monastero è riscaldato, ad eccezione evidentemente della cucina il cui accesso è severamente proibito a tutti. Nella Chiesa il gelo è a volte così aspro che il sacerdote non riesce ad officiare e il sacrestano deve portargli un recipiente di metallo contenente della brace che gli renderà le dita un po' meno intirizzite. Nello scriptorium l'inchiostro gela nei calamai: il copista è autorizzato, grande concessione, a recarsi in cucina perché l'inchiostro ritrovi la sua fluidità.

Non è che la regola, benché scritta in Italia, non affronti il problema. Il capitolo 55, 1-4 è esplicito su questo punto: «Ai fratelli si diano vesti tenendo conto dei luoghi dove risiedono e del clima, perché vi è più bisogno di coprirli nelle regioni fredde che nelle calde. La decisione in materia è lasciata al giudizio dell'abate. Non tutti ebbero la discretio di Benedetto. Tuttavia, e ciò è a tutto onore dell'uomo, anche i regimi più duri trovarono sempre nei vari secoli degli uomini decisi ad adottarli.

In alcuni paesi, in Germania, in Scozia, in Scandinavia, il freddo è a volte così intenso che può paralizzare la vita della comunità. Bisognò dunque decidersi a prevedere sia una sala riscaldata chiamata calefactorium, sia dei bracieri. E' lì che i fratelli pregavano o leggevano, subivano il salasso o toglievano il fango dalle loro scarpe. E' anche lì che essi venivano rasati dai loro fratelli, barbieri improvvisati. I monaci difatti non si rasavano da se stessi.

Ma bisognava che facesse un grande freddo per poter ricorrere a questo mezzo. Alcune abbazie non ebbero mai un riscaldamento e non se ne servirono che nelle feste solenni, a Natale o a Tutti i Santi, per esempio. All'ora del pasto o del sonno i monaci con le dita coperte di geloni ritrovavano il refettorio o il dormitorio gelati.

L'illuminazione era scarsa. I mezzi per procurarsela difatti, olio d'oliva e di papavero, sego o grasso di montone, cera d'api, erano rari e quindi costosi. Una piccola fiamma, modicus ignis, un filo di stoffa immerso nella cera chiamato lucubrum o candela, bruciava nel dormitorio «fino al mattino» (c.22,7-8).

In inverno anche il refettorio era debolmente illuminato. Il solo luogo per il quale non si lesinava era la chiesa. essa è sontuosamente illuminata, un quintale di cera per le feste di Pentecoste, ad esempio.

Ma si tratta di una eccezione ed alcuni testi dei 1300 ci dicono che a Cluny, la grande e sontuosa Cluny, non c'era sempre il materiale per illuminare la chiesa per cantare mattutino e lodi.

Campane pesanti, campanae, o leggere, tintinabula, campanelle, minima signa o scilla, a volte un gong, cymbalum, nei giorni che precedevano Pasqua, uno strumento di legno, postes, perché il suo suono era più «umile» di quello del bronzo, ritmavano la vita quotidiana dei monaci. L'espressione «fare il diavolo a quattro» (letteralmente in francese «essere ai cento colpi») verrebbe dal centinaio di colpi suonati come ultimo segnale dell'ufficio.

Bisogna obbedire all'istante, al primo segnale (c. 22,13, absque mora o c. 48,28, primo signo): siamo qui di fronte ad una forma di ascesi della volontà poco comune.

3. Le bellezze dell'architettura monastica

Il piano di un'abbazia non è lasciato, per fortuna, all'immaginazione dell'architetto. Essa deve essere funzionale. Deve necessariamente comprendere un certo numero di edifici la cui disposizione è in qualche maniera pre-determinata non solo dal materiale di base, la natura e la disposizione dei terreno, ma anche dalle esigenze di una vita comunitaria di un tipo molto particolare, dagli imperativi di una spiritualità già stabilita, dalla necessità della liturgia, e dall'esigenza di essere «leggibile» (libro, abbecedario della fede, insegnamento, morale, illustrazione, codice disegnato) e nello stesso tempo di evocare il mistero e il trascendente. Ci troviamo di fronte a dei duri maestri che non lasciano alcuno spazio alla fantasia. Del resto la volontà di essere originali a tutti i costi non esiste affatto nel Medioevo, almeno coscientemente. L'ideale è di mantenersi fedeli al piano che ha già dato dei buoni risultati altrove. Da qui le filiazioni facilmente individuabili e le originalità profonde.

Quel che più stupisce in assoluto è che questo gigantesco e secolare sforzo architettonico sia sfociato, si potrebbe dire sistematicamente, nella creazione di migliaia di capolavori. E questo anche negli edifici più umili e più funzionari: la cucina (Alcobaáa), il refettorio (Fossanova), il riscaldamento (Sénanque), il lavabo (Maulbronn), l'infermeria (Musch Wenzock), la sala del capitolo (Eberbach) e così via. Io lascio da parte, volutamente, le costruzioni -spirituali., la Chiesa, la cripta, il chiostro dove risalta, con una violenza quasi insostenibile, una fede esigente, assoluta, totale, nei suoi appelli e nelle sue affermazioni, insuperabile. Questo fiume di bellezza non ha smesso di scorrere per secoli interi attraverso tutta l'Europa e oltre, dalla Vistola al Guadalquivir, dalla Scozia alla Siria. Ci vorrebbero chissà quante pagine solamente per elencare i capolavori che questo fiume ha lasciato dietro di sé sulla terra. Bellezza indicibile che ci commuove ancora oggi fino ai ruderi tragici di Cluny, Rievaulx o di Villers-la-Ville e la cui assenza, da quasi due secoli, si fa così crudamente sentire nelle architetture del mondo moderno, siano esse religiose o profane.

Donde viene questa bellezza? Come spiegare questo flusso inesauribile, e sicuro come un istinto, di monumenti di una tale perfezione tecnica e spirituale?

Per me non c'è altra spiegazione che quella di Régine Pernoud: «In tutto il periodo medievale... l'arte non è tagliata dalle sue origini... essa esprime il sacro (la sottolineatura è mia), il trascendente, in questo linguaggio secondo che è l'arte in tutte le sue forme».

E' per questo che il refettorio non ha niente a che vedere con le tristi mense moderne, né la sala del capitolo con la sala di un consiglio d'amministrazione, né il chiostro con i corridoi di un palazzo di giustizia. Tutti questi edifici hanno un'anima, esprimono un messaggio, traducono uno stile di vita. Per secoli, ciascuno a suo modo, essi hanno cantato la gloria di Dio e permesso agli uomini che si votano a Lui di vivere da uomini.

Simili e diversi, evolvendosi nei secoli per rispondere agli stessi bisogni, umili resti, rovine sontuose, vestigia luminose di un passato secolare, pietre viventi fín nella morte, questi edifici sparsi in tutta l'Europa attestano al di là delle barbarie dei tempi e degli uomini, al di là dell'ingiusto disprezzo del Rinascimento e dell'epoca classica, l'irreprensibile volontà dei religiosi di vivere pienamente il loro destino, secondo la visione del mondo che aveva preso forma dalla loro fede.

 

Capitolo secondo

LA COMUNITA'

1. La democrazia monastica

Come sono governati i monaci? Come sono eletti oggi, come lo erano nel Medioevo coloro che hanno il compito di governarli? i sudditi hanno dei diritti o devono solamente obbedire perinde ac cadaver?

In questo campo le idee false e i pregiudizi la fanno da padroni. Ed è per questo che mi è sembrato necessario dire come funziona ciò che ho chiamato, con un termine un po' provocante, la democrazia monastica.

Prima osservazione: la vita del religioso si svolge in un regime di stretto diritto, cioè in un sistema il cui spirito, struttura, funzionamento, meccanismi di decisione, sistema di elezione, diritti e doveri di ciascuno a cominciare da quelli dell'abate fino ai mezzi di «revisioni costituzionali», sono minuziosamente previsti e definiti dalla regola.

Il monaco «milita sotto una regola e un abate» (c. 1,3). Se l'abate gli ordina qualcosa che gli sembra impossibile da eseguire, sia moralmente che fisicamente (c. 68), egli è autorizzato a presentargli le sue obiezioni, certo senza arroganza né spirito di contraddizione (non superbiendo vel contradicendo) e di resistenza sistematica (resistendo).

Altro principio democratico: quello della presenza della comunità e della partecipazione dei sudditi alle decisioni importanti.

Tutto il capitolo terzo della regola è dedicato alla convocazione dei fratelli in consiglio: «tutte le volte che in monastero si devono trattare affari importanti, l'abate convochi tutta la comunità». Per gli affari di «minore importanza» sarà sufficiente il consiglio degli anziani: in ogni caso c'è consultazione.

Il superiore espone il problema che è all'ordine del giorno della riunione. Ognuno parla a turno «con tutta la sottomissione che l'umiltà infonde, senza avere la presunzione di difendere ostinatamente il proprio punto di vista». Quindi, dopo aver ascoltato i diversi pareri, l'abate «esaminerà la cosa a parte e agirà secondo ciò che gli apparirà più conveniente» o «più saggio» poiché è a lui che, secondo una buona logica, spetta decidere.

Terzo principio: quello dell'elezione con suffragio universale. Il capitolo 64 della regola afferma: «nel nominare l'abate si osservi sempre questa, norma: sia costituito abate quegli che o tutta la congregazione, (omnis concors congregatio) - si tratta dell'unanimità - avrà concordemente eletto abate, o la maggioranza». Principio affermato dalla Chiesa a partire dal V secolo e applicato da essa per l'elezione dei papi.

Quarto principio democratico affermato da San Benedetto: quello dei merito. In questo stesso capitolo 64 che tratta della «nomina dell'abate» parlando delle qualità che devono essere ricercate nell'eligendo, egli scrive: «la scelta si farà secondo il merito della vita, la saggezza e la dottrina» (c. 64,5-8).

La regola non si occupa della tecnica delle operazioni elettorali. Ma la necessità di procedere ad elezioni libere e regolari e di sfuggire, per quanto era possibili, agli intrighi dei gruppi di pressione, indussero ben presto i monaci a redigere il più minuzioso e completo codice elettorale (il primo risale al 1254 ed è dovuto all'opera di Lawrenee of Somercote). Nei consuetudinari si ritrova- no tutte le tecniche elettorali e deliberative che ci sono divenute familiari e che non ci sono pervenute né dai comuni, né tanto meno dai greci e dai romani, ma dalle organizzazioni monastiche ed ecclesiastiche. Elenco qui: il principio dell'elezione a vita dell'abate, quello dell'unanimità spontanea (per quasi inspirationem), quello della maggioranza assoluta.

Il modo di contare i voti è cambiato molto. Si contavano sia le voci se lo scrutinio era fatto «da bocca a orecchio», nel qual caso gli scrutatores dovevano ponderare, scrutare (da cui la parola scrutinio) le intenzioni dei votanti, sia le ballottae, sassolini, pezzi di moneta, medaglie, fave rosse e bianche, ecc.

Si poteva anche votare restando seduti o alzandosi, alzando la mano (destra) o uscendo dalla sala capitolare da una porta o dall'altra (pedibus ire in sententiam) o anche «assentendo col capo».

Delle prescrizioni così minuziose non assicurarono sempre, tuttavia, elezioni libere e regolari (liberae et irreprensibiles), né dei buoni governanti.

Il mondo secolare fece ben presto pesare sugli ordini e le abbazie le spaventose pressioni dei suoi appetiti e della sua volontà di potenza. Le abbazie erano dei poli di ricchezza e quindi di attrazione. Gli ordini si estendevano su tutta l'Europa, come avrebbe potuto la nobiltà non essere tentata di inserirvi i propri figli? Come gli altri ordini, i vescovi, i comuni avrebbero potuto resistere alla tentazione di impadronirsi di tali formidabili leve di potere?

I monaci impotenti, disarmati si videro ben presto imporre come abati commendatari degli estranei, a volte anche dei fanciulli che facendosi eleggere, non avevano altra intenzione che di godere in tutta serenità delle entrate dell'abbazia. Ciò significò la fine dell'osservanza e della regolarità. Poi vennero le riforme, le rivoluzioni con il loro seguito. Sfuggirono alla crisi solamente le abbazie troppo povere per suscitare delle tentazioni, o quelle più profondamente radicate nella solitudine. I grandi ordini - Cluny, Cîteaux - fiorirono in congregazioni estese molto spesso su base nazionale e linguistica. I monaci soffrirono in silenzio attendendo tempi migliori.

Il primo parlamento sopranazionale europeo

Nel 1115, un secolo prima della concessione della Magna Charta in Inghilterra e del suo embrionale regime parlamentare (che impiegherà sei secoli per svilupparsi), con un colpo di genio politico - bisogna notare che il promotore di questo progetto, Santo Stefano Harding (1109-1133), è inglese - Cîteaux fonda la prima assemblea sopranazionale europea: il capitolo generale chiamato anche Parliamentum.

Il capitolo generale è la summa potestas dell'ordine. Esso è abilitato a legiferare, juxta et praeter Statuta, a modificare, interpretare, abrogare e condensare le leggi, come a semplificare la legislazione, «di modo che nessuno possa più invocare la scusa di una ignoranza» dovuta alla sovrabbondanza dei testi, per non rispettarla. Il superiore generale non ha che la plena potestas, i pieni poteri necessari per governare bene. Ma la loro estensione è definita unicamente dalla regola, le costituzioni e le decisioni del capitolo il quale non può in nessun modo delegare l'integrità dei suoi poteri al superiore generale. il Parliamentum elegge il superiore generale e i suoi assistenti, e può deporli.

2. Le funzioni

Un'abbazia è una città in miniatura. Le cariche sono in essa contemporaneamente gerarchizzate e molto diverse. Questo perché l'impresa è di per se stessa vasta, difficile e complessa. Non che il numero dei fratelli sia sempre e necessariamente elevato - anzi lo è raramente - ma lo è invece il numero delle attività molto diverse e questo basta a spiegare l'organizzazione e le strutture caratteristiche di ogni abbazia.

L'abate

A ogni signore, ogni onore. L'abate, secondo San Benedetto, è il vicario di Cristo in terra (vices Christi creditur agere, c. 13,29), il padre del monastero sia sul piano materiale (c. 33,8) che su quello spirituale (c. 49,22), il pastore (c. 2,15-22), il maestro (c. 3,14), il medico (c. 28,8), il maggiordomo della casa (c. 64,16 e 3,14). La regola è piena di parole quali? arbitrium, iudicium, praeceptum, voluntas, permissio, che sottolineano fortemente quanto il governo dei monastero sia personale e interamente nelle sue mani (in arbitrio).

Inoltre i gesti quotidiani a tavola come in chiesa, nel capitolo come nel chiostro evidenziano questa preminenza del superiore e l'obbedienza che gli è dovuta.

Tuttavia non bisogna lasciarsi ingannare dalle parole e fare degli abati benedettini dei tiranni. Per quanto grandi e reali siano i loro poteri, questi sono ben lungi dall'essere assoluti (c. 63,5: quasi libera utens potestate), ed è loro raccomandato (c. 27,17) di non esercitare un «potere tirannico». In realtà i monaci vivono in un regime di diritto a cui sono sottomessi gli stessi abati. Il monaco «milita sotto l'abate e la regola» (c. 1,3), sotto l'abate nella misura in cui questi pratica e rispetta la regola: i suoi poteri sono immensi ma come lo sono i suoi stessi doveri. Ed egli deve esercitarli in uno spirito di discretio, di consideratio, cioè di moderazione, di tatto, di discernimento che mitigano la loro estensione. Inoltre egli non deve mai dimenticare la sua propria fragilità. (suamque fragilitatem semper suspectus sit, c. 64,32), né che può essere dominato «dal fuoco dell'invidia o della gelosia» (c. 65,54), né che nel giorno del giudizio finale egli dovrà rendere conto a Dio per tutte le anime che avrà governato e «compresa la sua, senza alcun dubbio» (c. 2,113), così che ha tutte le ragioni di essere «sollecito dei proprio rendiconto». (c. 2,116).

Ecco delle preoccupazioni che non sono più di moda - bisogna dire: purtroppo? - presso i nostri governanti. Detto questo ed essendo l'uomo quello che è, tante belle raccomandazioni non furono sempre sufficienti a dominare la foga e la cattiveria di alcuni abati. Tutt'altro!

Il priore

Al primo posto tra gli «ufficiali» (oboedientiarii) che sono incaricati di aiutare l'abate a governare i monaci e ad amministrare i beni del monastero c'è il priore. Sarebbe eccessivo dire che questo «funzionario» goda dei favori di Benedetto. In realtà il patriarca non lo vuole. Egli scrive: «nel caso che l'ambiente lo esige, o la comunità lo domanda con ragione, ed umilmente, e l'abate lo ritiene opportuno (è evidente che San Benedetto moltiplica i se), l'abate, preso consiglio dai fratelli che temono Dio, si scelga egli stesso il priore che vorrà nominare» (c. 65,31-36). Egli precisa subito: questo priore eseguirà «con rispetto» tutto ciò che gli sarà ordinato dall'abate, non farà niente contro la volontà e gli ordini dell'abate, osserverà tanto più «accuratamente» i precetti della regola quanto più è stato elevato al di sopra degli altri. Decisamente non è qui il cuore di San Benedetto.

Del resto come inizia il capitolo che stabilisce l'istituzione del priore? Le parole scandala, superbia, tyrannides, dissensiones, invidiae, rixae, detractiones, exordinationes, ecc.... vi abbondano fin dalle prime righe. E solo dopo aver lungamente (c. 65,1-31) denunciato i gravi pericoli che comporta la designazione di un priore Benedetto accetta - abbiamo visto con quali riserve - di procedere alla scelta del suo secondo. Ma subito dopo egli riprende la litania delle sue aspre osservazioni: «Se questo priore sarà trovato vizioso, o preso da spirito di superbia per la sua nomina (a priore) o convinto di disprezzo per la santa regola»... egli sarà ammonito quattro volte. E se egli non si corregge, sarà deposto. Ancora: se, dopo questa punizione, non se ne starà «tranquillo e obbediente» (c. 65,51), sarà cacciato dal monastero.

La divisione dei poteri non incontra dunque i favori di Benedetto (c. 65,7-16). Egli preferisce che «l'organizzazione del monastero dipenda dall'abate. e da lui solamente (c. 65,26-27, in abbatis pendere arbitrio) e che i poteri da delegare siano divisi tra più persone (c. 65,30), di modo che nessuno di loro abbia occasione di inorgoglirsi (ut dum pluribus committitur, unus non superbiat).

In realtà, si ha un po' l'impressione di assistere a un regolamento di conti. Benedetto ha dovuto fare delle esperienze negative in questo campo, il suo modo di affrontare l'argomento lo prova a sufficienza. E del resto egli diffida del priore poiché raccomanda all'abate (c. 65,54-55), trattando col priore, di non dimenticare mai che «la sua anima può accendersi forse dei fuoco dell'invidia e della gelosia» (ne forte invidiae aut zeli urat animam).

I decani

Nel capitolo 21, Benedetto parla dei decani, cioè di «fratelli di buona reputazione e di santa vita» scelti non per ordine (di anzianità), «ma per il merito della loro vita e la saggezza della loro dottrina», perché «con tutta tranquillità l'abate possa affidare loro parte del suo peso».

Ma anche nel caso di questi uomini speciali, la regola (c. 21,11-12) prevede che l'uno o l'altro possa gonfiarsi d'orgoglio e mostrarsi «reprensibile». Egli sarà ammonito e se le ammonizioni restano senza effetto sarà deposto. San Benedetto non si fa affatto illusioni sulle sue pecorelle.

Il cellerario

Il cellerarius è l'economo, l'intendente, l'amministratore generale. Egli vigila al vettovagliamento della comunità, compra e vende terreni e boschi, sorveglia i «granai» e le officine. A Monte Cassino era lui che custodiva i pesi e le misure.

Egli aveva ai suoi ordini il capicerius, una specie di tesoriere che regolava gli emolumenti dei cantori, del maniscalco e del veterinario e s'occupava degli ornamenti dell'altare e dei vestiti dei monaci.

Egli veniva anche chiamato illuminatore perché era incaricato dell'illuminazione della chiesa. Il cellerario aveva ancora ai suoi ordini il refettorista; il granaiolo che aveva il compito di vigilare in modo particolare sulla buona semina delle terre e che, a sua volta, aveva ai suoi ordini il panettiere (pistor); il giardiniere (hortulanus); i guardianí dei vivai, delle vigne e dei grano, il dispensiere (pistancerius), il connestabile o guardiano della scuderia, e infine un organizzatore della cucina e dei pasti, al fianco del quale operavano il cellerarius coquinae (della cucina) e il cellerarius vini (dei vini).

E' evidente- che a questo importante personaggio era chiesto di avere tutte le qualità: la gentilezza, la misura, la cortesia, il buon umore, il garbo ecc. Li ebbe sempre? Bisognerebbe avere una visione troppo ottimista del mondo per crederlo.

Il cameriere

Il cameriere, chiamato anche ciambellano, in inglese «chamberlain», era un personaggio importante. Egli riceveva le entrate dei monastero, gestiva e ordinava i fondi, teneva sotto chiave il denaro, le reliquie, gli archivi, i titoli di proprietà, i contratti di affari.

Egli doveva vigilare al comfort dei fratelli, fornire loro in particolare l'acqua calda per farsi la barba, il sapone, il lucido per le scarpe, aiutato in questo da un vestiarius.

Il sotto-cameriere accendeva le lampade al crepuscolo (crepusculo) e le spegneva all'alba (diluculo). Egli forniva gli asciugamani appesi vicino al lavabo.

Il cantore

Il praecantor dà il tono in chiesa, regola i ritmi dell'ufficio, insegna il canto ai monaci e ai giovani e deve curare la biblioteca i cui volumi sono per la maggior parte manoscritti liturgici. Egli ha inoltre la responsabilità dello scriptorium.

Il suo aggiunto, il succentor, è incaricato di richiamare all'ordine, durante gli uffici della notte, i fratelli un po' sonnolenti.

L'ospitalario

Il padre ospitalario (hostiarius, hospitalarius), «fratello la cui anima è posseduta dal timore di Dio» (c. 53,48), è incaricato di accogliere gli ospiti di passaggio. A lui è raccomandato di riceverli tamquam Christus (c. 53,1-2), «come se essi fossero Cristo in persona», specialmente i «fratelli nella fede» e i pellegrini.

E' per questo che i consuetudinari esigono che egli sia affabile, sorridente, diligente, di andatura rispettevole, di piacevole conversazione, facondo (ore facundus), di facile contatto; noi diremmo: estroverso.

Il suo compito è difficile e delicato: non sono sempre dei santi che si mettono in viaggio e la vita stessa dei pellegrini non incoraggia necessariamente la cortesia. Alcuni non sono che dei volgari scrocconi, dei falsi mendicanti, dei viaggiatori che desiderano riposarsi qualche giorno. Alcuni ospiti importanti, i VIP dell'epoca, vi si rifugiano senza vergogna. Vi sono ancora i malati, i moribondi e coloro che non hanno altro scopo che di farsi servire.

Bisogna accoglierli tutti (in fondo «ospizio» e «ospedale» vengono dalla stessa radice: hospes, l'ospite). Tocca all'ospitalario fare la cernita.

Egli deve provvedere alla perfetta pulizia dei locali, della biancheria, delle stoviglie, degli asciugamani e delle coperte. In inverno farà preparare il fuoco e alcune candele.

Egli avrà cura che sia rispettato in ogni punto il cerimoniale previsto per accogliere gli ospiti: preghiera, bacio della pace, saluti, lettura della legge divina, lavanda dei piedi ad opera dell'abate, -dopo di che si manifesterà loro ogni bontà possibile. (post haec omnis... exbibeatur humanitas, c. 55,20-21). Poi egli si intratterrà con gli ospiti non senza aver prima chiesto loro se hanno mangiato in quel giorno. Chiederà anche loro se desiderano riposare o bere, o ad necessaria ire, traduco: «lavarsi le mani».

Il giorno della partenza il padre ospitalario procederà ad un giro d'ispezione per verificare se gli ospiti dimenticano qualcosa o, (quando si svolgono degli incarichi di questo genere le illusioni si perdono presto), se non portano via niente, diciamo per inavvertenza.

Il testo da cui ho estratto queste poche righe termina con l'amara constatazione che il rigore primitivo di questo cerimoniale è facilmente dimenticato e che, nei tempi in cui noi viviamo (in omnibus his modernis temporibus), volentieri ci si dispensa da esso.

Posso dire che se in verità tutto questo cerimoniale è venuto meno, l'accoglienza resta ancora oggi squisita e completamente impregnata di « carità fraterna» (caritatem fraternitatis c. 67,11).

Il maestro dei novizi

Nella regola questi è citato solamente en passant Con il nome di senior(c. 58,11-12) «atto a scrutare le anime e a sorvegliare attentamente i novizi». Si può supporre che, nello spirito di Benedetto, è la comunità tutt'intera che era incaricata di educare i fanciulli affidati alle cure del monastero e che normalmente fornivano il numero maggiore di novizi: pueris per omnia ad omnibus disciplina conservata (c. 63,22) e più oltre (42-45): ubiubi et custodiam habeant et disciplinam, usque dum ad intelligibilem aetatem perveniant, cioè «dovunque si presterà attenzione e sorveglianza ai fanciulli fino a quando essi non abbiano raggiunto l'età della ragione» (15 anni al tempo della regola).

Se San Benedetto insiste diverse volte sull'amore che gli anziani devono portare ai giovani (c. 4,86-87; 63,24), egli insiste ugualmente sul rispetto che questi devono agli anziani (c. 71,8; 63,23 e 33-39). I castighi fisici erano all'ordine dei giorno nel Medioevo.

La regola è molto sfumata a questo riguardo. Sotto il titolo «Come si debbano correggere i fanciulli di tenera età», il capitolo trenta, ad esempio, dice: «ogni volta che i fanciulli, i giovani adolescenti o tutti quelli che non possano capire la portata dell'esclusione temporanea dalla comunità, costoro dunque tutte le volte che cadono in colpa o siano puniti con digiuni prolungati o puniti con aspre battiture (acris verberibus) perché si correggano».

Un consuetudinario precisa che un cantore non ha il diritto di schiaffeggiare i ragazzi e di tirar loro i capelli: questo privilegio era riservato solo al maestro dei ragazzi (magister puerorum).

Il cancelliere

Le abbazie ebbero molto presto una cancelleria i cui titolari portavano il nome di scriptor, notarius o cancellarius. Quest'ultimo nome indicava originariamente l'usciere che stava presso il cancello che separava il pubblico dal giudice. Veniva invece chiamato matricularius il religioso che manteneva i registri, la matricola.

Il sacrestano

Il sacrorum custos aveva la responsabilità dei vasi sacri e dei tesoro della chiesa. Egli doveva vigilare alla pulizia e al buon ordine di questa, assicurare l'illuminazione della chiesa, del refettorio, degli appartamenti dell'abate, della cantina, dei locali dove risiedevano gli ospiti, fornire, all'occasione, i carboni accesi che permettevano al celebrante di riscaldarsi le mani, preparare in estate l'erba e le piante aromatiche per coprire la terra delle sale dove non c'era né tavolato né pavimento.

L'infermiere

L'infirmarius, il responsabile dell'infermeria, ha la cura dei malati. Deve essere un uomo «timoroso di Dio, diligente sollecito» (diligens et sollicitus, c. 36,14).

Egli doveva occuparsi del giardino dove si coltivavano le piante medicinali, dare le cure necessarie (ma a coloro che stavano bene e soprattutto ai giovani «le si concederà raramente» c. 36,15-16), assicurare il mantenimento del fuoco nell'infermeria e, di notte, la sua illuminazione, e celebrare la messa ogni giorno.

«Si permetterà anche la carne ai malati molto deboli», scrive ancora la regola (c. 36,17-18). Nell'abbazia di Saint-Pierre-de-Bèze, l'infermiere faceva una cucina speciale per i monaci malati: mandorle, prugne, fior di farina (d'avena, d'orzo o di frumento), pollastri o pulcini, carni leggere...

L'infermeria non ospitava solamente i malati: i vecchi, gli infermi, i depressi, i monaci che avevano subito il salasso (minutio), vi avevano anch'essi il loro posto. Lì si poteva parlare; vi si suonava della musica per i fratelli melanconici; vi si era dispensati dall'ufficio e dal lavoro... Tutte buone ragioni per ammalarsi più di quanto non fosse necessario...

D'altro canto, in questi tempi i costumi erano duri e i piagnoni non erano ben visti. Nel breve capitolo di appena 23 righe che San Benedetto consacra ai «fratelli ammalati», il patriarca insiste per ben tre volte sulla necessità che tutti - infermiere, cellerario, «servitori» - trattino «pazientemente» i malati e che non li si «trascuri» in niente. Bisogna credere che simile raccomandazione non era inutile.

L'elemosiniere

L'elemosiniere, come indica il suo nome, era incaricato di distribuire le elemosine ai poveri, ai mendicanti, ai pellegrini, alle vedove, agli orfani, ai chierici bisognosi, ai viaggiatori, ai lebbrosi... Più di ogni altro egli doveva mostrarsi professionalmente, si potrebbe dire, buono, moderato, pieno di compassione e di carità, capace di sopportare senza spazientirsi le lamentele e le recriminazioni di coloro che lo assillavano senza interruzione.

Alcuni consuetudinari gli raccomandano di trattare con delicatezza particolare (magna discrezione), discretamente (secretius), coloro che già ricchi e potenti sono stati colpiti dalla sorte e che si vergognano (erubescere) di trovarsi ora nella miserabile compagnia dei diseredati della vita.

 

Se l'abbazia era abbastanza importante la maggior parte degli ufficiali avevano al loro fianco degli aggiunti, e degli aiutanti, alcuni dei quali erano dei laici salariati (fu ben presto il caso della birreria o della carpenteria). Tenendo conto del numero relativamente piccolo dei religiosi nella maggior parte delle abbazie, quasi tutti i monaci erano stati o erano degli «ufficiali». E dato che nessuna funzione era a vita (salvo per lungo tempo quella dell'abate), non era raro il caso di incontrare impiegato alle cucine o a qualche altra mansione subalterna colui che mesi prima esercitava la carica più alta. D'altronde alcuni si compiacevano, per umiltà, di compiere gli incarichi più umili e, a volte, più ripugnanti.

I visitatori

Tra tutti gli «ufficiali», i più importanti erano i visitatores, questi missi dominici del potere centrale, incaricati di verificare in loco se la vita quotidiana dei monasteri si svolgeva convenientemente, conformemente ai precetti della regola e alle decisioni del capitolo generale.

Interrogando i monaci uno a uno, a quattr'occhi, essi si fanno, in principio, un'idea assai chiara di ciò che funziona e soprattutto di ciò che non funziona nella comunità.

I loro poteri sono grandi: sono quelli concessi loro dallo stesso potere centrale. Essi vanno fino al punto di permettere loro di deporre un abate o di spostare un religioso da un'abbazia all'altra.

Noi possediamo un buon numero di rapporti stesi da loro al ritorno dall'ispezione: ecco per lo storico dei costumi una fonte inesauribile di informazioni, spesso molto pittoresche. A condizione di non vedervi che delle note di cronaca, degli incidenti della vita monastica.

3. Gli abitanti del monastero

Sarebbe un grande errore credere che un monastero fosse abitato solamente da monaci. Anche oggi vi si trovano persone che non sono per niente impegnate con il legame dei voti nei confronti della casa dove esse vivono, temporaneamente o stabilmente: studenti, ricercatori, persone in ritiro, sacerdoti che vengono a riciclarsi o a riposarsi. Familiari, gente che fa parte della familia monastica; scolari, coppie per «ménages mixtes», dice curiosamente una notizia relativa alle attività dell'abbazia di Ligugé.

Nel Medioevo l'abbazia brulicava di persone che non erano religiosi: fratelli laici (di loro dirò qualcosa di più in seguito); artigiani; servi che, in cambio del loro lavoro, partecipavano alle preghiere e alle buone opere del monastero e in questo modo avevano qualche garanzia per la loro salvezza personale; servi volontari, uomini liberi, impegnati nei confronti dell'abbazia da un legame di servaggio personale e dalla prestazione di un censo annuo; affrancati e coloni, terziari di un pezzo di terra monastica; prebendari - vedovi, infortunati sul lavoro, servitori invecchiati, veterani più o meno validi - che, in cambio della donazione dei loro beni o dei piccoli servizi che essi potevano ancora rendere o perché usufruivano di un beneficio chiamato «pane dell'oblato», ricevevano una pensione alimentare (nutrimento, vestiti, alloggio e qualche moneta); operai salariati, apprendisti, scolari; fanciulli .offerti. dai loro genitori all'abbazia; oblati chiamati anch'essi «offerti», «donati», «votati», «resi», laici che avevano offerto se stessi, il loro lavoro e i loro beni al monastero, che promettevano obbedienza all'abate, ma conservavano la loro libertà giuridica, eccetera.

L'economia interna dell'abbazia suppone la presenza attiva dei monaci professi, cioè dei monaci che hanno pronunciato i voti di religione nel corso di una cerimonia solenne. I professi sono assimilati ai chierici: all'origine i sacerdoti erano rari tra di loro. Ma molto presto, e in ogni caso a partire dal X secolo, una gran parte dei monaci accedette agli ordini sacri.

Vi si trovavano anche dei novizi, dei conversi o domestici, monaci entrati adulti in monastero e, di conseguenza, il più delle volte analfabeti. All'inizio essi non erano dunque dei religiosi a pieno titolo, venivano loro affidati soprattutto lavori manuali e le loro preghiere erano più brevi; ma alla fine dell'XI secolo essi furono ammessi a pronunciare dei voti senza per questo divenire monaci nel senso pieno del termine: conversos... qui monachi non sunt post professionem factam, scrive Innocenzo II a un abate nel 1142.

Anche se per il vestito (con delle differenze minime, ma percettibili), il cibo, le cure in caso di malattia essi erano trattati nello stesso modo,

I voti

Il capitolo 58 della regola ci dice come bisogna accogliere coloro che chiedono di entrare in religione. Si tratta di un vero e proprio psicodramma. Il candidato è accolto male; non gli si accorda una «entrata facile», lo si fa attendere alla porta per «4 o 5 giorni», lo si ricopre di ingiurie (bisogna credere che le vocazioni non fossero rare all'epoca e che esse fossero solide). Se «il nuovo venuto alla vita religiosa» perseverava nella sua domanda lo si alloggiava per alcuni giorni nei locali degli ospiti.

Di là egli passa nei locali dei monaci dove, sotto la direzione di un «anziano capace di guadagnare le anime», apprende «le durezze e le asperità attraverso le quali si va a Dio» (dura et aspera per quae itur ad Deum, c. 58,17). Se egli si mostra «sollecito per l'opera di Dio, per l'obbedienza, per le prove di umiltà» (obprobria), dopo due mesi, se persiste ancora nelle sue intenzioni di «stabilità., gli si leggerà la regola integralmente e gli si dirà: «ecco la legge sotto la quale vuoi militare. Se puoi osservarla, entra. Ma se non puoi, sei libero di partirei. Se egli persiste, lo si riconduce nel noviziato dove egli studierà, mediterà, mangerà e dormirà. Ancora si proverà la sua pazienza per sei mesi. Gli si rilegge la regola. Se egli persiste sempre nel suo proposito il suo tirocinio è prolungato di quattro mesi. «Gli si rileggerà ancora una volta la stessa regola».

«E se, dopo aver nel suo profondo riflettuto e deciso (Benedetto non crede ai colpi di testa e agli impulsi irriflessi: egli accetta solo degli uomini capaci di riflettere) prometterà di osservarne tutte le prescrizioni e di eseguire tutti gli ordini ricevuti, allora soltanto venga accolto nella comunità».

Ma egli deve sapere che non gli sarà più permesso di ritornare sulla sua decisione e di «liberare il suo collo dal giogo della regola» (collum escutere de sub iugo regulae, c. 58,25), che la decisione presa «dopo una riflessione così prolungata» è presa una volta per sempre, che un voto pronunciato liberamente (poiché fino all'ultimo momento il novizio ha avuto la possibilità di rifiutare, excusare, c. 58,36) impegna come un giuramento.

L'ammissione nella comunità viene realizzata dalla «professione» monastica che stringe un contratto, in forma corretta e precisa, con tutte le garanzie del diritto, tra la comunità e il professo. Anche se nello stesso capitolo (58,62) viene detto «che egli non potrà più disporre neppure del proprio corpo», siamo lontani, come si vede, dalla schiavitù di cui alcuni parlano (del resto il mondo moderno conosce delle forme di impegno ideologico, altrettanto tenaci, ma molto meno riflesse e soprattutto infinitamente meno preoccupate degli strumenti usati).

Voto di stabilità, caratteristico della vita benedettina, che è una reazione contro i costumi degli erranti (i girovaghi, «sempre in cammino, mai tranquilli», c. 1,30). Voto di conversione dei costumi o conversatio, cioè voto di cambiare la propria vita e di praticare una vita autenticamente religiosa. Voto di obbedienza.

Il novizio si prosterna «ai piedi di ciascuno perché preghi per lui». A partire da questo momento egli sarà annoverato tra i membri della comunità. Dimessi i suoi effetti personali - che saranno conservati nel vestiario «perché li possa ritrovare un giorno se sotto l'istigazione del diavolo egli deciderà di abbandonare il monastero»: San Benedetto non si fa certo illusioni sugli uomini- egli indossa i vestiti del suo nuovo stato.

 

Sacerdoti e monaci «stranieri

 

La regola tratta anche del modo di accogliere i «figli dei nobili e dei poveri che vengono offerti» (c. 59), i «sacerdoti che volessero abitare in monastero» (c. 60), i «monaci stranieri» (c.61).

Qui il tono cambia un po'. Benedetto parla a partire della sua esperienza (c. 59) e lo dice. Ogni via di ritorno al mondo è preclusa al fanciullo «offerto a Dio dai suoi genitori (pratica diffusa nel Medioevo e che si prestava a numerosi abusi così che fu proibita): si comprende che questo non gli impedirà sempre di nutrire al riguardo qualche «segreto pensiero» suscettibile di farlo perdere, cioè di lasciare il monastero.

E' senz'altro un bene che un sacerdote sia ammesso nel monastero. Ma anch'egli dovrà insistere, impegnarsi a rispettare la disciplina della regola e a tenere il posto datogli alla sua entrata nella comunità, «e non quello che gli viene concesso per rispetto verso il suo sacerdozio». Soprattutto che egli dia a tutti «esempi di umiltà» (si vede subito dove secondo San Benedetto si nasconde il pericolo).

Il tono diviene più aspro quando si tratta di un monaco «straniero, proveniente da contrade lontane» (de longinquis provinciis, c. 61,1). Egli sarà ammesso ma a condizione che non venga a «turbare il monastero con vane pretese», che si mostri umile, caritatevole e riservato, che non sia né «pretenzioso né vizioso»... nel qual caso gli si dirà educatamente (honeste, c. 61,18) di andarsene. Quindi c'è questa piccola frase così indicatrice dello spirito di Benedetto: «quando poi l'abate noterà i suoi meriti, potrà fargli occupare un posto un po' più elevato», superiore a quello della sua entrata in monastero. Lo stesso vale per i sacerdoti ammessi al monastero: anch'essi possono ricevere una promozione se l'abate vede «che la loro vita ne è degna» (c. 61,121.

 

4. La gioia monastica

 

Con i suoi alti e bassi, con il peso spesso molto greve della vita comune e le esigenze continue dell'osservanza, con i suoi fallimenti e i suoi dubbi, e i limiti così presto raggiunti della natura umana, non per questo la vita dei monaci non è gioia e luce, gioia piena e intera, luce splendente anche all'interno delle tenebre del dubbio e della notte dello spirito.

Bisogna essere ingenui come un giornalista per scrivere: «mai ho incontrato dei ragazzi allegri, più aperti, meno soli di questi solitari nelle loro celle». Come potrebbe essere diversamente? Io posso testimoniarlo: dappertutto ho incontrato una gioia discreta, di una qualità squisita, una attenzione portata all'uomo che tu sei e come sei, una civiltà senza manchevolezze, mille prove di tenerezza umana.

Detto questo, sarebbe un errore grossolano credere che tutti i monaci escano dallo stesso stampo. Se tutti hanno un'«aria di famiglia», questo può spiegarsi con il reclutamento che avviene esattamente in funzione delle affinità di temperamento ed anche con la «vita comune». Ma tutti e ciascuno hanno una personalità distinta e, molto spesso, nonostante la tentazione del conformismo, molto spiccata. Difetti e qualità. Né l'osservanza, né l'obbedienza, né la vita comune possono limare gli uomini fino ad abolirne le differenze. Per necessità di cose dunque un monastero comprende una diversità molto grande di tipi umani: ciò che non favorisce esattamente la vita comune.

 

E' questo un punto sul quale San Benedetto ritorna spesso. Cito: «ciascuno riceve da Dio un dono particolare» (c. 40,1-2). «Ogni età e ogni grado di intelligenza deve ricevere un suo proprio trattamento» (c. 30,1-2).

 

Capitolo terzo

UNA GIORNATA

DI UN MONACO BENEDETTINO

IERI COME OGGI...

 

 

Verso la fine di una giornata di ottobre una dozzina di uomini che portavano dei carichi molto pesanti si fermarono al margine di una radura della foresta polacca, vicino alla Vistola.

Pioveva dal mattino, una pioggia pesante e fredda e i vestiti, imbevuti d'acqua, pesavano sulle spalle.

Il capo ispezionò il posto e disse: «è ben questo il luogo che ci era stato annunciato. Credo che andrà bene per noi. E ringraziamo Dio di averci permesso di arrivare fino a qui sani e salvi».

La loro preghiera si alzò nelle brume della sera. Essi erano a due giorni di cammino da ogni luogo abitato, in un paese sconosciuto e selvaggio. Vi si installarono per la notte, vi si installarono per sempre. Non sarebbero mai più tornati nella loro patria.

Siamo nel 1175 e dei monaci cistercensi si preparano a fondare l'abbazia di Wachok che esiste ancora oggi.

Queste poche righe sono volutamente scritte nello stile dei romanzi storici della prima metà del secolo scorso. In effetti l'espansione cistercense nel XII secolo è in sé un vero romanzo. Citeaux venne fondata nel 1098. Le sue quattro «prime figlie» - La Ferté, Pontigny, Morimondo, Clairvaux - vennero fondate l'una dietro l'altra rispettivamente nel 1113, 1114, 1115 e 1116. Poi c'è la fioritura: ciascuna delle «figlie» genera a sua volta e i priorati da esse fondati non si raggruppano comodamente attorno alle case-madri. Al contrario! Si direbbe che all'inizio del grande boom c'è la corsa ad allontanarsi di più, e più in fretta, dalla cellula iniziale. Le fondazioni si succedono con una rapidità stupefacente: in Italia (1120), in Germania (1123), in Inghilterra (1129), in Austria (1130), in Scozia, in Portogallo, in Romania, in Lettonia, nella stessa Turchia. All'inizio del XII secolo si è costituita una rete densa e ricca di fondazioni cistercensi. L'ordine che contava solo 19 abbazie all'arrivo di San Bernardo (1112), ne conterà 343 alla sua morte (1153), 525 alla fine del XII secolo, quasi 700 alla fine del XIII.

E questa rete abbraccia nelle sue maglie tutta l'Europa. Le fondazioni estreme di Clairvaux raggiungono la Scozia, l'Ungheria, l'Irlanda, il Portogallo, la Svezia. Similmente quelle di Morimondo vanno dalla Polonia all'Inghilterra, alla Spagna: Wachok è appunto una delle sue «figlie». E lo stesso vale per Pontigny, La Ferté e Citeaux: in meno di un secolo l'Europa si copre di monasteri cistercensi, da Kinloss, in Scozia, a Lysekloster in Norvegia, da Alcobaáa in Portogallo a Padis nei Paesi Baltici.

Per recarsi al capitolo generale di Citeaux, gli abati delle abbazie più lontane dovevano percorrere da mille a duemila chilometri, distanze calcolate a volo d'uccello. A piedi. Ogni anno. Per quali strade? Quali guadi? Attraverso quali foreste, quali lande, quali paludi? A prezzo di quali fatiche e di quali pericoli? Dove dormivano? Cosa mangiavano? E finito il capitolo, bisognava riprendere il viaggio...

Quale era la vita quotidiana, quale era la visione del mondo di questi uomini di fuoco, di ferro e di fede che nella scia di San Benedetto furono in modo indelebile i «padri dell'Europa»? E' ciò che cercherò di dire nelle pagine seguenti.

1. Le ore di sonno

Come vivono i monaci oggi? Grosso modo come hanno vissuto i loro predecessori. Levata molto mattiniera, tra mezzanotte e le due per cantare le Vigilie (attualmente chiamate il mattutino). Quest'uso si spiega per due ragioni. Nel Medioevo tutti si alzavano di buon mattino. Bisogna dunque alzarsi molto presto per impressionare gli uomini di questo tempo. Inoltre i monaci hanno sempre gustato il silenzio e la purezza della notte quando la preghiera si slancia con gioia verso il cielo.

In alcune abbazie, la preghiera mattutina era seguita da un ritorno a letto che era interrotto due o tre ore più tardi, cioè verso le cinque o le sei di mattina, secondo le stagioni. All'inizio del pomeriggio era prevista una siesta di un'ora. Si andava a letto verso le 18 o le 19. Tutto sommato i monaci dormivano il più delle volte un numero sufficiente di ore, ma il sonno era interrotto per spirito di mortificazione.

Non alzarsi dal letto al primo segno della campana era una mancanza grave, di cui bisognava accusarsi pubblicamente nel capitolo delle colpe. In altri tempi un monaco era incaricato di circolare, con una lanterna in mano, per scovare, rannicchiato in un angolo, qualche frodatore sonnolento. Se egli ne trovava uno, depositava la lanterna ai suoi piedi e il dormiglione, alfine svegliato, doveva errare per tutto il monastero, la lanterna in mano, «perché nessuno ignori», finché non aveva trovato un altro monaco dormiglione.

Quest'uso è venuto meno oggi. Ma esso sottolinea che anche nei secoli di fede quando «le cattedrali erano bianche», i monaci erano lontani dall'essere tutti santi, scrupolosamente attaccati ai doveri del loro stato. Erano degli uomini come noi, cioè carichi di difetti e la regola non smette di ripeterlo; ma essi intendono ancor oggi vivere alla lettera i precetti della loro fede ed è in questo che essi differiscono da noi.

2. La preghiera

Ancora oggi la giornata del monaco è interamente organizzata in vista della preghiera: «niente sia preposto all'opera di Dio» (operi Dei) dice il capitolo 43,5 della regola. Mattutino, Prima, Terza, Sesta, Nona, Vespri e Compieta si succedono da secoli. Vi sono le messe private, la messa del mattino alla quale la comunità assiste numerosa, e la messa conventuale. Solo la preghiera, il Verbo articolato e ordinato, congiuntamente alle altre attività religiose - la meditazione, il silenzio interiore, la quies mentis, l'effusione, i gesti dell'offerta e del sacrificio - permette il dialogo dell'uomo con Dio.

Il Medioevo esprimeva la fede ogni giorno nelle «matrici esemplari della preghiera» che sono le liturgie - e le liturgie benedettine sono tra le più belle e le più commoventi che si conoscano -, nel canto corale; ma anche nei gesti, inchini, genuflessioni, prostrazioni, litanie, atti di profonda riverenza con i quali il religioso si esprimeva e si affidava «con tutta la sua forza», cioè anche con tutto il suo corpo.

«Esprimeva?», «Si affidava?», perché usare l'imperfetto? Questi gesti, queste parole, questa liturgia non sono quelli che possiamo ascoltare e osservare ancora oggi quando celebrano i figli di San Benedetto?

«Essi pregarono» riassume bene l'esistenza di queste migliaia di uomini che da 15 secoli si consacrano a Dio. Ogni volta che in un'abbazia benedettina io assisto a qualche celebrazione sento nel più profondo di me stesso questa lunga continuità senza interruzione, tale che se un giovane novizio di Clairvaux che viveva sotto l'autorità di San Bernardo venisse per miracolo trasportato in mezzo a noi, non sarebbe affatto disorientato.

«Essi pregarono»: i digiuni e le astinenze, l'ascesi, le sveglie nella notte, il sonno spezzato, i morsi dei freddo, la proibizione di bere tra i pasti, la castità, l'obbedienza, il cibo povero e monotono, il lavoro nei campi, nelle officine o nelle biblioteche, la perfetta osservanza, il totale dominio di sé: actus vitae suae omni bora custodire (c. 4,55), tutto questo acquista il suo significato pieno solo in una vita di preghiera. Tutto questo è preghiera in una vita di preghiera.

3. Osservanza e regolarità

Una delle caratteristiche più straordinarie della vita monastica è la sua estrema regolarità. Tutto vi è regolato, controllato, minutamente organizzato, programmato, con una minuzia incredibile. I fatti della vita quotidiana - il pasto, le cure del corpo, il modo di salutare l'abate o di ricevere gli ospiti, di rompere il pane o di bere, i gesti di cortesia - sono descritti punto per punto nei consuetudinari. Per ogni giorno. Per tutti i giorni della vita.

Non bisognerà dedurne che il monaco si senta coartato duramente dagli innumerevoli obblighi ai quali è sottomesso. In realtà egli pone la sua libertà altrove che non nelle pulsioni della fantasia o nelle nostalgie di un uomo senza proibizioni o coartazioni: nel più intimo del suo cuore. E le esigenze dell'osservanza e dell'obbedienza sono i sostegni che reggono il suo cammino e non degli ostacoli. I monaci sono uomini liberi.

Un'altra idea falsa che bisogna distruggere è quella di una vita fatta di monotonia e di noia. La vita quotidiana dei religiosi non è quotidiana nel senso banale o ripetitivo. E' una vita attivamente vissuta secondo ritmi diversi e mutamenti che si susseguono senza interruzioni nei quali s'inseriscono altri ritmi interiori e esteriori. Niente di più lontano dal troppo famoso «lavoro-metrò-nanna» della gioventù moderna.

Detto questo bisogna anche dire che la giornata del monaco era per l'epoca qualcosa di straordinario. L'idea di dividere l'intera giornata secondo un ordine strettamente stabilito, di mangiare e di dormire ad ore determinate, di rispettare scrupolosamente un certo numero di regole per permettere alla vita comune e agli individui di espandersi, era nel Medioevo un'idea nuova e insolita. Ed è per questo che essa ha per secoli costa fortemente impressionato contadini e signori, chierici e borghesi. Una vita ordinata, civilizzata, nel senso originario dei termine, cioè tutta costituita di civiltà e di cortesia si è trovata per lungo tempo solo nelle abbazie. Soprattutto oggi quando la rudezza dei rapporti tra gli individui è divenuta tristemente una legge, ciò che colpisce nell'accoglienza benedettina è la sua ilarità, la sua profonda umanità, la sua delicatezza: «tutti gli ospiti che giungeranno saranno accolti come Cristo», dice il capitolo 53,2 della regola. Si penetra in un'oasi di pace e di silenzio dove è piacevole attardarsi.

4. Il pasto

Il monaco è un uomo che ama la vita. La nevrosi e le disperazioni romantiche non hanno posto nelle abbazie. Similmente egli ama la buona tavola altrimenti non si spiegano le minacciose proibizioni dei consuetudinari (e le infrazioni). Se egli accetta di non mangiare mai carne né grasso, se si accontenta di «erbe» e di «radici», di uova e di pesce, è per spirito di mortificazione e non perché egli disprezza o non conosce le gioie della tavola.

Ogni giorno al prandium (il pranzo degli italiani), i monaci di Cluny ricevevano due piatti. E' una concessione di San Benedetto alle debolezze, il patriarca scrive: infirmitates, di tutti e di ciascuno.

Il primo consiste in farina di avena e di orzo bollita; il secondo è fatto di «erbe», cioè di ciò che cresce sul suolo - legumi di ogni specie, insalata, cavoli, porri e cipolle - e di «radici» - bulbi, carote, rape e a partire dal XVII secolo le patate. Quindi frutta, formaggio, latticini, vino o birra.

Nei giorni di digiuno, i monaci non facevano che un solo pasto: alle due nei digiuni previsti dalla regola dal 14 settembre a Pasqua, alle quattro del pomeriggio in Quaresima. Mangiare in queste condizioni, quando si è in piedi dalle prime ore della notte e digiuni da 24 ore è veramente un disjunare, cioè «rompere il digiuno» (in inglese breakfast). Al di fuori di questi periodi di privazioni quando tutti conoscevano «l'esperienza e le prove del rifiuto» (R. Ruyer), era previsto un pasto di sera, cena, più leggero del prandium. Una porzione supplementare di uova, di formaggio cotto, di cipolle, servita in un solo piatto era chiamata generale o pietanza, dal latino pietas, perché questo supplemento, che in Quaresima consisteva in minestra di latte, molto spesso era assicurato da pie fondazioni: sovente era una porzione da dividere in due.

I monaci conoscevano ancora il mixtum, cioè del pane intinto nel vino (o nella birra) preso dopo l'ufficio del mattino e dopo i Vespri; il liberes, dopo nona, e la collatio, un pasto frugale preso dopo la lettura delle collationes di Cassiano nei giorni di digiuno (c. 42).

Il pane, fatto il più delle volte di farina mescolata di orzo, miglio, farro, o segala, orzo e frumento con aggiunta di legumi nei giorni di bisogno, costituiva la base insieme con i farinacei, polenta o porridge, della nutrizione medievale.

Lo si preparava in tantissimi modi, andando dalle torte fatte in padella chiamate focacce al panis natalitius, il pane di Natale, dal pane tostato, dal biscotto (biscoctus, cotto due volte) ai gressins (da gresa, grasso), i nostri attuali grissini.

I monaci, come tutti nel Medioevo e d'altronde come tutti fino all'inizio dei XIX secolo, mangiavano molto pane.

Queste razioni, unite ai farinacei e ai legumi che formavano la base del regime alimentare quotidiano, potevano, nei giorni non di digiuno, a dire il vero molto numerosi, dare quotidianamente dalle 5.000 alle 6.000 calorie e ingrassavano molto i monaci. La malizia popolare ripeteva volentieri: «grasso come un monaco». Il suo errore consisteva nell'attribuire l'obesità monastica alle pretese gozzoviglie del refettorio.

In generale, dice un rapporto del 1749, i monaci erano nutriti «frugalmente, onestamente, convenientemente» in un refettorio «ampio, bene illuminato e ben pulito».

I formaggi

Noi dobbiamo ai monaci l'abitudine di consumare regolarmente dei formaggi. Anche questo fatto si spiega con il genere di vita adottato e praticato da loro. Fare il formaggio esige delle grandi quantità di latte: considerando la rarità del bestiame e il suo debole rendimento, essi erano i soli ad avere dei latte in eccedenza. Questa eccedenza contribuiva a conservare e ad accrescere la loro volontà sistematica di ingannare il loro appetito e di non utilizzare il burro. D'altra parte solo un ambiente artigianale altamente qualificato, preciso, minuzioso, osservatore, come l'ambiente monastico, era in grado di mettere a punto e di trasmettere di generazione in generazione le tecniche delicate e raffinate che consentivano la fabbricazione e la cura del formaggio. Non c'è dunque da meravigliarsi che «seguendo le tracce dei grandi monasteri - scrivono S. Claudian e Y. Serville - questa tecnica è riscontrabile in Svizzera, in Gallia, nei paesi del Reno, nelle Fiandre, in Gran Bretagna».

Da qui l'efflorescenza di innumerevoli formaggi di trappisti: lo chaligny, il munster, il saint-maur, e tanti altri.

Le bevande

Il vino è necessario alla celebrazione della messa: i monaci piantarono dunque le viti dovunque poterono sperare che i grappoli d'uva sarebbero maturati. Io ho già raccontato nella Vie quotidienne des religieux du Xe au XVe siècle (Hachette, 1978) di quanti meravigliosi vigneti noi siamo loro debitori.

D'altro canto il vino era una bevanda prestigiosa in un'epoca in cui si beveva solamente dell'acqua mista a succo di frutta o a decotti di radici e in cui la cervogia era ben lontana dall'aver raggiunto la limpida perfezione della birra. Inoltre Gesù aveva trasformato l'acqua delle anfore in «buon vino» e questo per degli invitati già «brilli» (Gv 2,1-10); Paolo aveva scritto: «smetti di bere solo acqua» (1 Tm 5,23) e San Benedetto, considerando la debolezza dei monaci meno forti, autorizza anch'egli a bere il vino. Non «ad satietatem» ma con misura. I monaci si guardavano bene dal dimenticare argomenti così augusti.

In mancanza di vino i monaci si contentavano della birra. Dire che lo facevano allegramente sarebbe troppo. La birra era una bevanda ignobile nel senso originario del termine al punto che certi consuetudinari lasciavano la scelta tra essa e l'acqua nei giorni di Quaresima. Altri dicono che se ne può bere ad necessitatem, quanto ce n'è bisogno (nozione vaga) e non ad ebrietatem. Ci mancherebbe altro!

Tuttavia bisogna tener conto che la cervesia non era la birra chiara e fatta col luppolo che noi conosciamo. Era un decotto denso, scuro, fermentato ma di breve conservazione, al massimo alcune settimane.

La bevanda che ci è ormai familiare è una invenzione monastica del IX-X secolo e più precisamente una scoperta dei benedettini fiamminghi poiché tutte le parole che la concernono, birra, malto, luppolo, sono di origine fiamminga. Ancora oggi è un abate benedettino fiammingo, S. Arnoldo o Arnolfo (XI secolo), il patrono dei birrai.

Egli aveva osservato che i bevitori di cervesia lupulina erano meno colpiti dalle epidemie dei bevitori d'acqua e per incoraggiare i suoi concittadini a preferire la prima di queste due bevande, aveva rimescolato la birra nel tino con la sua croce di abate.

Così la fabbricazione della birra - birra forte, potio fortis per i padri e birra leggera, potio debilis destinata alle monache, ai fratelli e ai poveri - restò per lungo tempo appannaggio dei monasteri così come l'idromelo (medo) e il sidro (sicera) che i monaci fecero conoscere alla Bretagna e alla Normandia e di lì all'Inghilterra. I monaci sono anche all'origine di numerosi liquori e acquaviti. Il fatto si spiega facilmente: essi furono i primi e per lunghi secoli i soli a possedere un alambicco e a saperlo utilizzare; i soli ad avere delle riserve di vino, i soli ad avere le capacità finanziarie per lasciare invecchiare i prodotti; i soli infine a contare tra le loro file un farmacista. Poiché, non dimentichiamolo, essi elaborano e mescolano accuratamente e in tranquillità di coscienza dei cordiali, delle acquaviti nel senso proprio del termine (i termini stessi di acquavite e di whisky ne sono testimonianza) a metà strada tra l'alchimia e la farmaceutica.

Da qui il ballo dei liquori monastici che va dalla trappista di Orval all'eau d'arquebusade di Aiguebelle, dallo spirito di Font- gombault al sénancol di Sénanque, senza dimenticare i prodotti dei severi camaldolesi e dei monaci di Casamari. Solo il Bénédictine è laico; ma esso è fabbricato nell'antica abbazia di Fécamp.

Come tutti gli uomini del Medioevo i monaci avevano un gusto spiccato per le spezie e le erbe aromatiche. Essi bevevano raramente l'acqua, l'abbiamo già detto, ma anche la birra e il vino senza avervi fatto prima macerare del timo, della cannella, dell'anice, del rosmarino, del coriandolo, del muschio, dello zenzero polverizzato e molte altre cose ancora, ivi compreso il miele. Ne risultava, secondo gli ingredienti, un rosato, un idromele piccante, gli antenati del vermouth, della zubrowska e del drambuie. Alcune birre belghe (la krick-lambic, alla ciliegia) o inglesi (la gingerale, allo zenzero) sono dei residui di quest'uso.

L'etichetta a tavola

L'uomo del Medioevo ignora l'intimità. Egli non ha alcuna possibilità di isolarsi. Tutti entrano nell'intimità dell'altro. In principio i monaci non dovevano soffrire di questo stato di cose. Ma, bisogna ricordarlo, essi vivono costantemente in una comunità piccola e stabile e sono in permanenza sottomessi ai duri doveri dell'osservanza e della disciplina claustrale. Bisognava dunque evitare che tra di loro sorgessero delle tensioni o anche solo occasioni di tensione.

Da qui l'importanza riservata dai consuetudinari alle belle maniere, si potrebbe quasi dire alle liturgie della tavola. Per il monaco, difatti, mangiare non è solamente nutrirsi. Mangiare è anche e soprattutto comunicare. E non si comunica nel disordine. Il monaco arriverà dunque in tempo al refettorio: San Benedetto dedica tutto il capitolo 43 a ciò che bisogna fare con coloro che arrivano in ritardo «all'opera di Dio e alla tavola» (l'accostamento è caratteristico). Il monaco si laverà le mani all'ablutorium che si trova all'entrata del refettorio. Egli andrà a prendere posto davanti alla tavola e attenderà, nel più perfetto silenzio, l'arrivo dell'abate che deve pronunciare la preghiera. Il lettore comincia a leggere (ancora oggi un passo della Regola).

Il monaco ascolta con la testa inclinata, le mani sotto la cocolla, senza fare il minimo gesto, neppure quello di spostare il tovagliolo prima di aver ascoltato il de Verbo Dei che dà il segnale del pasto. Egli spezza il pane decenter, mangia honeste et religiose, in silenzio, senza osservare ciò che mangiano i vicini (ma, non so con quale strano artificio, egli deve segnalare discretamente il fatto eventuale che a loro manchi qualche cosa). Egli passerà loro il piatto o la caraffa di cui avranno bisogno (sarà attento a prevenire la loro domanda), senza parlare, con un sorriso o un gesto amabile; ringrazierà con un cenno della testa l'ebdomadario che lo serve; ascolterà la lettura con attenzione (generalmente il libro scelto è interessante e si apprendono così molte cose mangiando).

Finito il pasto si raccolgono con cura le posate e si depongono nel proprio piatto. Si restituisce il bicchiere usato, si copre il pane restante con una tovaglia, eccetera.

Al cenno dell'abate che pone termine alla lettura, il monaco si alza, si dispone davanti alla tavola, pronuncia una preghiera di ringraziamento, si inchina e si ritira, a meno che la comunità non si rechi processionalmente in Chiesa, cantando, al suono delle campane.

Tutto questo cerimoniale che risale a numerosi secoli fa e che non è affatto cambiato si svolge nel più grande silenzio (una abbazia non è solamente una punta avanzata della preghiera, ma anche un luogo dove regna il silenzio, un silenzio positivo che non è l'assenza di rumore, ma silenzio concreto, palpabile e buono come il pane fresco). Niente conversazione. Coltelli e forchette devono essere usati in modo da fare il meno rumore possibile. Alcuni consuetudinari si spingono fino al punto di precisare che se vengono servite delle noci, il monaco non le romperà con i denti, ma le aprirà con il suo coltello. Altri scrivono che non è conveniente bere con la bocca piena o mangiare il pane prima di essere serviti e raccomandano di non sporcare o tagliuzzare la tovaglia. Il modo stesso di preparare la tavola varia secondo il ritmo dell'anno liturgico. Le tovaglie devono essere cambiate con la frequenza che è necessaria e i tovaglioli ogni settimana. E così via.

Sapendo in quale modo disordinato, sporco e rumoroso si svolgevano i pasti all'epoca, anche negli strati sociali più elevati della popolazione, si comprende lo stupore ammirato di coloro che erano ammessi a prendere parte, per alcuni giorni, alla vita e ai pasti dei monaci.

5. La malattia

Un monaco non ha eccessiva cura di sé, né si lamenta mai: «i tuoi mali restino tra Dio e te». Se un fratello voleva prendere una medicina in assenza del padre abate, «medico delle anime» (c. 27,4 e 28,8-18), egli doveva ottenere previamente il permesso (venia) del capitolo e chiedere di pregare per lui. In generale le medicine erano rare e poco utilizzate. Se un fratello si ammala, egli chiederà all'abate il permesso di potersi recare in infermeria. Se la malattia è grave e improvvisa (passio subita et gravis) al punto da renderlo incapace di chiedere aiuto, ciascuno gli porterà aiuto.

L'infermiere, «un servitore timoroso di Dio, devoto e sollecito» (c. 36,13-14), è responsabile dei malati ma anche dei vecchi, degli infermi, di coloro che sono depressi (accidiosi), dei monaci che hanno subito il salasso. Egli concede i bagni (ogni volta che è necessario, c. 36,14), le bevande, gli elettuari (miscela con vari ingredienti tra cui predominava il miele), le medicine a base di oppio e altri rimedi forniti dalla povera medicina di un tempo. Quando la sua esperienza non gli è più sufficiente, egli consulta il medico (spesso un laico).

Egli deve inoltre sfruttare il giardino dove crescono le piante semplici e medicinali, occuparsi dei pasto; e dato che è difficile ricorrere continuamente alla cucina - che in alcune abbazie è molto lontana dall'infermeria - egli ha gli strumenti necessari per preparare, condire, riscaldare alcune pietanze, o utilizzare i resti che possono essere presentati honorifice, onorevolmente, ai malati.

Egli si preoccupa di mantenere il fuoco nell'infermeria -il locale è uno dei pochi nel monastero dove faccia caldo e questa, come vedremo, è una delle sue maggiori attrattive- e la sua illuminazione la notte.

Egli celebra la messa ogni giorno, dice, se necessario, parole di conforto, sarà dolce, paziente (patienterpotiandísunt, c. 36,9) e servizievole. «L'assistenza che si deve prestare ai malati deve venire prima e al di sopra di ogni altra cosa - dice il capitolo 36 della regola- sicché in loro si serva davvero il Cristo poiché egli ha detto: «ero malato e m'avete visitato».

«Ma anche i malati da parte loro -aggiunge San Benedetto in una frase che prova la sua conoscenza profonda e quindi senza illusione degli uomini- riflettano che vengono assistiti per onorare Dio, e non affliggano i fratelli che li accudiscono con pretese eccessive» (non superfluitate sua contristent fratres suos servientes sibi, c. 36, 7-8).

Altra prova di questa lucida conoscenza della natura umana: il patriarca aggiunge, questa volta rivolgendosi all'abate: «egli si preoccupi particolarmente che (i malati) non siano in qualche modo trascurati» (c. 36,10-12) e più avanti (c. 36,21-22): «che non siano trascurati dai cellerari o dai servitori». Ed egli precisa. «infatti è proprio su di lui che ricade la responsabilità di ogni mancanza (quicquid delinquitur) dei suoi discepoli».

Le visite ai malati non erano permesse senza l'autorizzazione dell'abate. Un monaco malato non può sperare alcun miglioramento dalle parole dei suoi parenti poiché, dicono i testi di una volta, c'è molta possibilità di essere «sporcati» dalla visione delle cose terrestri che la visita porta con sé.

Paragonata alla vita di un monaco che stava bene, la vita nell'infermeria era deliziosa. Vi si tollerava l'uso della carne «per i malati molto debilitati perché riacquistino le forze» (c. 36,17-18), vi si preparavano dei brodi di pollo, di pesce, che ordinariamente non erano permessi, delle schiacciate (di grano, d'orzo e d'avena) e della frutta. La razione di vino vi era misurata meno strettamente. Si suonava la musica per i fratelli in stato di depressione, si era dispensati dall'Opus Dei e dal silenzio. In breve la disciplina monastica vi era un po' rilassata e questo era uno dei punti di maggior attrazione di questo luogo. Spettava all'infermiere rendersi conto se aveva a che fare con dei simulatori o anche dei monaci che volevano riposarsi per qualche giorno.

6. L'agonia e la morte

Se la condizione del malato si aggrava, l'infermiere avvertirà l'abate. Accompagnato da alcuni fratelli, il priore va a visitare il malato. Se il caso è disperato, i fratelli recitano tre orazioni: il malato sa a cosa va incontro. Egli pronuncia il Confiteor, se può ancora parlare, altrimenti l'abate lo recita per lui.

«Se l'anima che sta per separarsi sembra essere entrata nel travaglio della separazione dal corpo - dice un testo: in extremis laborat- i fratelli stendono a terra o su della paglia un cilicio, vi tracciano una croce con la cenere e vi depongono il morente: in cenere et cilicio».

La comunità intera è messa in stato di all'erta da colpi ripetuti di uno strumento di legno (quando quis moritur, ad me currendo venitur). Tutti devono accorrere senza ritardo (sine aliqua mora) e senza scusa alcuna, neppure quella di celebrare la messa. Si canta il Credo con voce contenuta.

Il moribondo si confessa. Chiede perdono ai suoi fratelli per le colpe commesse contro Dio e contro di loro, si prosterna davanti a loro, sostenuto in caso di bisogno da due fratelli, o dà loro il bacio della pace. Riceve la comunione con gli occhi fissi sulla Croce.

Gli antichi consuetudinari prevedevano che venissero rivolte all'infelice delle domande come questa: «Sei contento di morire con l'abito monastico?». Questo psicodramma doveva essere lugubre e commovente nello stesso tempo.

L'agonia era accompagnata da una serie di gesti simbolici. L'ebdomadario ungeva gli occhi, le orecchie, le narici, le mani, i piedi: le cinque piaghe di Cristo riscattino i peccati che hanno fatto irruzione nell'uomo attraverso i cinque sensi.

Se l'agonia si prolunga la comunità si ritira lasciando ad uno dei fratelli il compito di leggere al moribondo la passione di Cristo.

Una volta che il malato è morto, si lava il corpo con acqua calda nell'infermeria, sopra una pietra apposita. Questo lavoro era per principio compito di religiosi dello stesso grado dei defunto.

Le mani sono collocate sotto la cocolla che sarà cucita, il cappuccio riversato sul viso. Il cadavere è insensato e asperso d'acqua benedetta. Quindi è portato in chiesa. I fratelli si dispongono in cerchio intorno alla bara nei monasteri dove questa è prevista, altrimenti, come presso i trappisti, intorno alla tavola sulla quale è steso il cadavere.

Sono previste delle veglie; la comunità sarà dunque sempre presente.

Dopo l'ufficio dei morti, i religiosi portano la salma al cimitero, recitando delle preghiere secondo una liturgia estremamente minuziosa che, d'altronde, differisce nei dettagli da un'abbazia all'altra. La salma viene depositata, l'abate vi getta sopra per primo tre palate di terra. Gli altri lo imitano a loro volta fino a quando la terra ricopre interamente la salma. Tutti ritornano al monastero. Si spengono i candelieri, le campane smettono di suonare.

Per trenta giorni i religiosi cantano in comune l'ufficio dei morti. Ogni sacerdote celebra sette messe.

Il cibo del morto era dato ai poveri, questi «portinai del cielo», diceva Sant'Oddone. Per trenta giorni a Cluny, per un anno in Germania.

7. Il lavoro

Mosso dalla sua volontà di vivere una vita di perfezione in tutto conforme al messaggio evangelico, illuminato dalla regola, il religioso intende impegnarsi in una strada che, per definizione, non può apportargli alcun guadagno materiale o sociale. Egli vive fuori dal secolo, che fugge. Egli vuole solo essere cittadino di una città invisibile la cui parte visibile ha poca importanza ai suoi occhi. Egli non ha la vocazione di colonizzare, di dissodare, di coltivare, di apportare delle innovazioni in agricoltura, di prosciugare delle paludi o di fare funzionare dei mulini, di allevare delle api o di prendersi cura dei boschi, di fare vino o formaggio. Egli non ha scopi che non siano spirituali: anche l'azione apostolica, la carità, l'insegnamento non lo riguardano, almeno direttamente.

E tuttavia i monaci sono all'origine, inconsapevole e involontaria, di un movimento economico e sociale così profondo, così diversificato e vasto che l'evoluzione del Medioevo sarebbe difficilmente spiegabile senza la loro presenza e la loro azione. in questo senso, San Benedetto e con lui i Benedettini sono i «padri dell'Europa» nel senso pieno del termine, sia dal punto di vista storico che sociologico.

Rifiutando all'origine, per desiderio di osservanza letterale ogni entrata di origine ecclesiastica o feudale, ogni aiuto servile o civile, isolati dal mondo, poveri, disarmati, poco numerosi, i monaci dovettero provvedere alla loro sussistenza quotidiana. Essi quindi, per motivi spirituali, dovettero dissodare, irrigare, prosciugare, bruciare le stoppie, preparare il concime, arare (laborare), selezionare le sementi e gli animali, fare lavori da contadini e da pastori. Spinti dalla fede intensa che li animava, essi riuscirono a rendere umane lande deserte, paludi senza fine, foreste selvagge ed incolte. Ma facendo così essi assicurarono il difficile avvio agricolo dell'Europa.

Similmente, per celebrare la messa i monaci avevano bisogno di vino. Essi dunque piantarono la vite dovunque c'era una minima speranza che il suolo e il clima le sarebbero stati favorevoli. Essi sono così all'origine di un buon numero di grandi vigneti nei vari paesi europei.

Il voto di povertà, la frugalità quotidiana, i digiuni e le astinenze, altri imperativi spirituali, creavano automaticamente delle riserve di frutta, farina, cereali, latte, miele... E cosa fare con queste se non bevande di frutta, l'idromele, dolci, birra, formaggi, acquaviti e liquori?

Queste stesse virtù rischiavano di rendere la cucina insipida e monotona: per ovviare a questo pericolo, senza spirito iniziale di ghiottoneria, i monaci tracciarono le prime linee della gastronomia.

Essi avevano bisogno di molta cera per illuminare sontuosamente le loro Chiese: svilupparono l'apicoltura. Avevano bisogno della lana per i loro vestiti, della pergamena per scrivere, del latte per fare formaggio, del grasso per illuminare: innumerevoli greggi di pecore pascolavano sulle lande desolate. Avevano bisogno di molto pesce per i lunghi digiuni di Quaresima: si applicarono a farli proliferare nei loro fiumi e si deve loro l'idea della fecondazione artificiale.

Oggi, per evidenti ragioni, i monaci non si danno più a questo genere di grandi lavori (e tuttavia!). Ma le loro attività restano numerose e diverse. Cito a caso: il lavoro della ceramica e dell'oreficeria (a Maredsous, Belgio e a Montserrat, Spagna), la stampa (Beuron, Germania) la fabbricazione di succhi di frutta (Termonde, Belgio), gelatina di frutta e acqua di colonia (Hautecombe, Francia), liquori (Seregno, Italia), biscotti (Verneuil-sur-Avre, Francia), prodotti farmaceutici (Firenze, Italia), ceri (Egmond, Paesi Bassi), lattice (Wavreumont, Belgio), torrefazione del caffè (Clévaux, Lussemburgo), rilegatura (Farnborough, Gran Bretagna), un laboratorio di restauro di manoscritti e di libri antichi (Praglia, Italia), la direzione di un museo (Bologna, Italia), l'edizione di dischi (Keur Moussa, Senegal).

Non dimentichiamo l'apicoltura (Saint Benôit-sur-Loire, Francia), l'agricoltura e l'allevamento (Fontgombault), le stazioni di sperimentazione agricola (Dzogbegan, Togo), la birreria e la formaggeria (Maredsous, Belgio). E, in tutt'altro campo, l'ospitalità, la direzione di ritiri spirituali, l'insegnamento, l'elemosina, l'azione pastorale, la pubblicazione di riviste.

Ma l'Opus manuum, voluto dalla regola e d'altronde indispensabile per la sussistenza dei monaci, rischiava per la sua pesantezza e le sue esigenze di restringere il tempo consacrato all'Opus Dei o almeno di nuocere alla sua qualità. Costretti da queste due esigenze, i monaci compresero molto presto l'interesse dell'amministrazione e della tecnica. Da qui la moltiplicazione nelle abbazie dei mulini ad acqua, questo primo grande passo in avanti sulla via della tecnicizzazione dell'Occidente, e l'installamento di officine di ogni genere: fonderie, oleifici, vetrerie, concerie, cartiere, tintorie, birrerie, formaggerie e più tardi stamperie, di cui essi saranno tra i primi promotori, e tante altre cose ancora.

Se scoprono qualche filone, per quanto magro, i monaci si lanciano nella metallurgia: una delle loro specialità sono gli attizatoi del focolare.

Altri sfruttano le miniere di carbone, le torbiere, le miniere di ardesia, le cave di marmo o di pietra blu, le saline, i filoni di allume, gesso, argento, piombo, d'oro

Sarebbe più facile dire in quali campi, supposto che ve ne siano, i figli di San Benedetto non sono stati degli iniziatori, dei promotori o, almeno, l'equivalente, efficace, generoso e disinteressato, della nostra assistenza tecnica.

In generale è lecito affermare, riprendendo una terminologia a noi familiare, che è la sovrastruttura religiosa, cioè la concezione cristiana dei rapporti dell'uomo con Dio che, nel caso dei monaci, fonda la sovrastruttura economica. Anzi, non sarebbe paradossale scrivere che nella storia dell'ordine benedettino infrastruttura è proprio il sentimento religioso, la fede, e la serie di atteggiamenti e di comportamenti di fronte alla vita che essa ha dettato per secoli a decine di migliaia di uomini. Il sistema e l'azione economica che ne risulteranno non ne sono altro se non la proiezione e il riflesso incarnati. Almeno fino a quando il pensiero e la prassi economica non saranno secolarizzati (ma anche il processo di secolarizzazione si inserisce nel più profondo del messaggio cristiano).

Ma non è tutto. Il giorno in cui il rispetto religioso, a volte superstizioso, verso le reliquie mise in moto per tutta l'Europa e fino in Terra santa migliaia di pellegrini, lo stesso rispetto letterale degli insegnamenti evangelici che avevano spinto i monaci a gettare le fondamenta dell'Europa verde, li spinse a creare una vasta rete di strade, di ponti, di locande, di luoghi di incontro, di rifugi e di ospedali. Ma, prima ancora, gli stessi insegnamenti avevano assicurato la nascita di ospizi, di lebbrosari, di scuole, di case di ritiro, di asili per i malati mentali, di istituti tecnici aperti agli apprendisti, agricoltori, allevatori e vignaioli, dei centri di ciò che bisognava pur chiamare, per quanto embrionale essa sia stata, la sicurezza sociale.

8. Lo scriptorium e la biblioteca

Copiare (scribere) manoscritti sembra, all'immaginazione popolare di oggi, essere stata l'attività per eccellenza dei monaci. E benché, come abbiamo visto, essi non si siano limitati a questo solo genere di lavoro (tutt'altro!), bisogna riconoscere che questo lavoro ebbe sempre una grande importanza spirituale ai loro occhi. E questa importanza non fece che crescere fino al punto di divenire, a poco a poco, il tipo stesso del lavoro monastico.

Sapevano scrivere tutti i monaci? E' permesso crederlo, ma alcuni documenti tendono a provare che non era così nei primi secoli. Tutti avevano una scrittura chiara ed occhi buoni (gli occhiali chiamati bésicles dalla parola latina berylus che indicava la pietra semipreziosa usata per farli, appariranno solo nel XIII secolo) per scrivere un'intera giornata, in una cella non sempre ben illuminata, o nello scriptorium, alla luce vacillante di qualche «candela di cotone»? Lo ignoriamo. Tutto ciò che noi sappiamo è che un buon numero di copisti, per quanto pio sembrasse loro questo lavoro, si lamentavano della fatica che era loro imposta. E gli innumerevoli errori disseminati nei manoscritti ci confermano che l'attenzione dei copisti non era sempre perfetta.

Il rendimento era da 3 a 5-6 folii in-quarto, al giorno. Era necessario un anno per ricopiare la Bibbia. Un buon copista trascriveva 40, al massimo 50 opere nella sua vita. Tutto ciò che ci è giunto dall'antichità ci è stato trasmesso dal lavoro dei monaci e solo da esso. Però non vengono contati i manoscritti che sono stati distrutti nel corso dei secoli dall'incuria, dall'ignoranza o la cattiveria degli uomini, dalle guerre e dalle rivoluzioni: solo a Cluny i calvinisti ne bruciarono più di 1800...

Molto presto il lavoro venne nazionalizzato e specializzato: accanto ai copisti propriamente detti, fecero la loro comparsa i tagliatori e conciatori di pelli (forbitores), i preparatori di pergamene (pergamentarii), i tracciatori di linee, correttori e collazionatori, i miniatori, i rilegatori. Un testo segnala anche l'esistenza di un monaco incaricato di vigilare in modo particolare alla punteggiatura.

Il copista dispone di penne d'oca o di cigno di diverse taglie, di creta o di pietra di pomice (pumices) come abrasivo, di due cornua o cornetti che contenevano gli inchiostri, rosso (rubrica) o nero.

L'inchiostro (dal basso latino encautum, variante di encaustum, «encausto»!), era fatto con succo di cavolo o di noce di galla, di copparosa (solfato di rame, chiamato in latino cupri rosa) e di gomma arabica, il tutto cotto al fuoco in birra o vino.

Il freddo poteva essere così intenso nello scriptorium o nella cella del copista che questi era autorizzato a recarsi nel locale riscaldato se ve ne era uno, ma come abbiamo visto non sempre c'era, altrimenti nella cucina non per riscaldare le sue dita rattrappite, ma per liquefare l'inchiostro...

In queste condizioni ci si immagina facilmente quanto i libri fossero un bene raro e prezioso. Vengono citate con ammirazione le biblioteche monastiche che contenevano 1.000 o 2.000 volumi, ma erano una eccezione. La maggior parte non ne aveva che 300 o 400. Erano così rari che a volte venivano legati con una catena. Evidentemente essi non venivano prestati volentieri, tanto più che i prestiti erano a lunga scadenza: il termine di 10 o 20 anni non era raro. Già a quest'epoca un libro prestato -in principio per farne una copia- era spesso un libro perduto. In caso di incendio o di saccheggio ad opera della soldatesca, sono i libri che bisogna salvare prima di ogni altra cosa. Minacciati dai barbari, i monaci di Montecassino portarono con sé la regola (e, diciamolo pure, le misure delle razioni di pane e di vino), e abbandonarono il corpo dei loro fondatore. I monaci leggevano molto? Come sempre quando si ha a che fare con gli uomini, bisogna rispondere che certamente un piccolo gruppo leggeva molto, mentre altri niente affatto. La media si contentava di ruminare uno o due libri all'anno. Alcuni consuetudinari ci informano che se un fratello non aveva letto nel giro dell'anno il libro che gli era stato affidato, doveva chiedere perdono al capitolo delle colpe.

Non sempre, dunque, c'era un grande amore per la lettura. San Benedetto lo riconosce quando scrive: «Di domenica tutti attenda- no alla lettura A chi, poi, fosse tanto negligente e pigro da non volere o non sapere dedicarsi allo studio o alla lettura, si dia da fare un lavoro perché non stia in ozio. (c. 48,51-56). E troviamo anche scritto che i religiosi che frequentavano la biblioteca non dovevano tenere la testa interamente ricoperta dal cappuccio, perché si potesse vedere «se sonnecchiavano invece di dedicarsi alla lettura».

Zelanti o «negligenti» i monaci per forza di cose non leggevano molto. Ma leggevano con calma gustando ogni frase dell'opera, anzi quasi ogni parola, sforzandosi di scoprirvi la minima intenzione dell'autore e di estrarne «il midollo di sostanza». Non sono certo che il nostro modo di leggere «in diagonale» valga di più.

Fine del capitolo terzo

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