“PER DUCATUM EVANGELII”

LA REGOLA DI SAN BENEDETTO E IL VANGELO [1]

Adalbert de Vogüé O.S.B.

Estratto e tradotto da “Cuadernos monasticos” 27 (1973) 587-598

Abadía Santa Escolástica (Buenos Aires) - 1973


 

A metà del Prologo della sua Regola, san Benedetto rivolge un invito ai suoi lettori: «Seguiamo le vie di Dio, prendendo come guida il Vangelo» [2] . Questa chiamata a seguire il Vangelo non nasce per caso. La parafrasi conclusiva del Salmo 33, che forma la prima parte del Prologo, costituisce la punta e il culmine di tutto quel primo sviluppo. Inoltre, annuncia il nuovo riferimento al Vangelo che chiuderà anche la parafrasi del Salmo 14, cioè la seconda parte del Prologo: ascoltare la Parola di Cristo e realizzarla è agire come un uomo prudente che edifica la sua casa sulla roccia [3]. Così, in due occasioni, la meditazione di Benedetto sull'Antico Testamento conduce al Vangelo. Per lui e per i suoi monaci il Vangelo sarà una guida nel cammino verso il Regno, la base su cui costruiranno la loro vita insieme.

Questo ruolo eminente che lo stesso Benedetto riconosce al Vangelo fa pensare all'elogio fatto da Bossuet (Ndt: Jacques Bénigne Bossuet. 1627 – 1704, è stato uno scrittore, vescovo cattolico, teologo e predicatore francese) alla sua opera: «Questa regola è un compendio del cristianesimo, un riassunto dotto e misterioso di tutta la dottrina del Vangelo, di tutte le istituzioni dei santi Padri, di tutti i consigli di perfezione» [4]. Esprimendosi in questo modo, l’oratore francese vorrebbe contraddire le dichiarazioni di umiltà di Benedetto nel suo ultimo capitolo (Ndt. Cap. 73 - La modesta portata di questa regola). No, la Regola benedettina non è una semplice iniziazione al cristianesimo, ma piuttosto il suo fiore più squisito e la sua quintessenza [5]. E, logicamente, il Vangelo è il primo riferimento a cui Bossuet si rivolge per apprezzare questa qualità cristiana della nostra Regola. “Sintesi di tutta la dottrina del Vangelo”, l'opera complessiva di Benedetto confermerebbe pienamente il Per ducatum evangelii del Prologo.

Questo elogio che il grande predicatore del XVII secolo fa alla Regola ,nell'ardore del panegirico, siamo pronti, oggi, a ratificarlo? In che misura possiamo riconoscere in questa Regola la “guida del Vangelo” che essa rivendica? Forse esiteremmo a descrivere indiscriminatamente ciascuna delle sue parti come “evangeliche”. Forse vi troviamo un po’ più di precisione normativa e di sanzioni rispetto a quanto spontaneamente includiamo nel termine “evangelico”. Il Vangelo ci sembra, forse, più semplice, meno organizzato. Più fraterno anche, meno disciplinare e meno gerarchico. Non senza ragione l'elogio di Bossuet cita, dopo la “dottrina del Vangelo”, le “istituzioni dei santi Padri” [6] . La Regola , infatti, presenta tutto un aspetto istituzionale che non è puramente e semplicemente del Vangelo.

Queste reazioni istintive, che sono le nostre, pongono un problema: quello dell’“evangelizzazione”. Quando si parla di Vangelo, ogni generazione cristiana sente immediatamente un insieme di note che non cambiano sostanzialmente - ed è giusto così - ma il cui timbro, armoniche e relativa intensità differiscono notevolmente da un'epoca all'altra. La melodia è la stessa, ma cambia l'orchestrazione. L'orchestrazione dei Padri, a causa delle condizioni socio-culturali di quel tempo, non è quella a cui siamo abituati. Niente è più legittimo da parte nostra che discernervi i suoi elementi particolari e desueti. Ma non illudiamoci: la nostra interpretazione del Vangelo non è più esente da tali particolarità di quanto lo fosse quella dei Padri.

La nostra evangelizzazione non è Vangelo allo stato puro più di quella di Benedetto. Nessuna evangelizzazione può prescindere dal condizionamento del tempo in cui si sviluppa. E così deve essere: il Vangelo non è un’essenza atemporale da preservare da ogni contaminazione della storia, ma piuttosto un lievito da gettare nella massa sempre mutevole dell’umanità.

Si può quindi credere in Benedetto quando afferma di mettersi «sotto la guida del Vangelo»: non solo non si può dubitare della sua buona fede, ma tutto porta a credere che la sua opera rappresenti effettivamente quell'incarnazione del Vangelo che nel suo tempo e nel suo ambiente era possibile e necessario. Si può anche vedere nella Regola – con Bossuet –, una “sintesi del Vangelo”: fatta per un tempo e un ambiente determinati, questa sintesi era realmente tale per gli uomini ai quali era destinata.

Ma la Regola ha ancora questa qualità evangelica per noi monaci oggi? Non certo nella misura in cui l'evangelizzazione del nostro tempo differisce da quella del VI secolo, come è stato appena espresso. Bisogna però tenere conto che l'interpretazione del Vangelo non è solo questione di tempo, ma anche di qualità dell'anima; ciò non dipende solo dalle condizioni sociali, ma anche dalle vocazioni personali. Un uomo può sentirsi più o meno d’accordo con l’interpretazione prevalente nel suo tempo e tuttavia sentirsi attratto da certi valori evangelici che sono stati meglio compresi e vissuti in altri tempi. Senza cessare di essere uomo del suo tempo - come potrebbe non esserlo? - cercherà nell'eredità dei Padri ciò che non trova sufficientemente nella spiritualità attuale [7] .

Ciò spiega la persistente vitalità degli Ordini monastici dell'antichità cristiana e del Medioevo e, in particolare, l'interesse duraturo che, dopo quattordici secoli, riveste per noi un documento in apparenza così lontano come la Regola di san Benedetto. Il fatto è che questa Regola, insieme agli altri scritti dei Padri, dai quali non può essere separata, esprime un certo modo di intendere il Vangelo che corrisponde a tutti i tempi, e che è quello dei monaci. Tutta questa letteratura proviene da un'epoca in cui il monachesimo occupava, nella stima del popolo cristiano e nella vita della Chiesa, un posto ben diverso da quello odierno. Da qui il forte sigillo monastico che la caratterizza con naturalezza. Altri periodi della storia della Chiesa – il nostro in particolare – hanno una concezione del Vangelo che, pur essendo in sé altrettanto legittima, non è altrettanto favorevole allo sviluppo dell'anima monastica.

Ed è per questo motivo – sia detto di sfuggita – che forse non è così facile come si crede essere “monaci oggi” [8] . Ai nostri giorni, come ai tempi di Benedetto, la fede cristiana può e deve senza dubbio entrare in simbiosi con il meglio della cultura del tempo, ma non tutte le correnti spirituali sono ugualmente favorevoli a quella definita forma di vita cristiana che è la vita monastica. Quelle correnti spirituali che incontrò l'antichità cristiana lo erano nel loro insieme. Non è detto che molte spiritualità del nostro tempo lo siano. A questo si dovrebbe pensare quando si cerca di purificare le istituzioni e la spiritualità monastica dalla minima traccia di “ellenismo”, per gettarle in pasto a tutti i venti del pensiero contemporaneo.

Ma torniamo al nostro problema. Per apprezzare correttamente questo rapporto della Regola benedettina con il Vangelo, è necessario tener conto anche del modo in cui gli antichi leggevano le parti della Bibbia diverse dai Vangeli. La loro fede non faceva alcuna differenza tra questi e il resto della Scrittura. Tutti i libri dell'Antico Testamento, e particolarmente il Salterio, sono considerati Parola di Cristo. Lo stesso si può dire dei libri del Nuovo Testamento che seguono i quattro Vangeli, dagli Atti all'Apocalisse.

Perciò, per entrare nello spirito di Benedetto e dei Padri, il problema dovrebbe essere ampliato e posto in termini più generali: non solo la Regola di san Benedetto e il Vangelo, ma la Regola e la Scrittura. Riguardo a questa lettura acritica, fondata su una fede semplice nell'onnipresenza di Cristo e nell'unità della Bibbia, restringere la questione dell'evangelizzazione ai Vangeli non ha molto senso. In un versetto del Salmo Benedetto riesce a ritrovare un insegnamento del Vangelo. Non solo la prima è per lui un’occasione per pensare alla seconda, ma è il Signore stesso - intendiamoci: Cristo - che pronuncia l'una e l'altra. Abbiamo visto con quanta facilità il Prologo della Regola passa dal Salmo 33 alla “Guida al Vangelo” e, dal Salmo 14, alla conclusione del Discorso della Montagna. Se, per non eccedere i limiti di un argomento, già di per sé vasto, ci limitiamo qui all'uso dei Vangeli della Regola, dobbiamo ricordare che in Benedetto possono sorgere temi propriamente evangelici nel momento in cui prende da qualsiasi altro libro della Scrittura.

Un altro dato deve restare costantemente presente nella mente: la Regola di san Benedetto è un compendio. Prima di essere una “sintesi del Vangelo” – come dice Bossuet – è la sintesi di un'opera molto più modesta e più vicina nel tempo alla RB rispetto al Vangelo: la Regola del Maestro [9] . Tre volte più lunga della RB, questa Regola del Maestro (RM) è anche molto più ricca di citazioni scritturali, non solo per la sua lunghezza, ma anche perché il Maestro si dedica più volentieri di Benedetto a considerazioni spirituali e dottrinali, dove la Scrittura ha necessariamente ampio spazio. Nel riassumere l'opera del suo predecessore, Benedetto ha conservato buona parte delle citazioni e delle allusioni scritturali, ma ne ha anche cancellate molte, non senza mancare di aggiungerne alcune proprie. Nella prima parte della Regola (dal Prol. al cap. 7), in cui Benedetto si rifà normalmente al Maestro, quasi tutti i riferimenti alla Scrittura provengono da lui. Nel seguito (RB 8-73), dove la composizione benedettina è molto più libera, il materiale biblico è più originale, ma anche – a causa delle questioni trattate – meno abbondante. Pensandoci bene, se i nostri calcoli sono esatti [10] , circa 3/5 delle citazioni e allusioni evangeliche contenute nella nostra Regola hanno origine nella Regola del Maestro.

Questi eventi hanno diverse conseguenze importanti. In primo luogo, se vogliamo misurare concretamente il tenore evangelico della nostra Regola, dobbiamo distinguere tra ciò che è il bene comune del Maestro e di Benedetto, e ciò che corrisponde come proprio di quest'ultimo. Senza dubbio Benedetto ha fatto suo anche il materiale scritturale preso dal Maestro, ma tali citazioni e allusioni non hanno, allo stesso modo delle altre, l'impronta personale dell'autore (il Maestro).

Altra conseguenza: la RM permette, in alcuni casi, di riscoprire il fondamento evangelico di un brano della RB. Benedetto, a causa dell'abbreviazione, ha dovuto sacrificare molte citazioni e allusioni scritturali, molte delle quali tuttavia avevano avuto un ruolo fondamentale nel Maestro. Pur omettendo questi riferimenti al Vangelo, resta inteso che Benedetto non li nega. È legittimo, quindi, e talvolta molto illuminante, mettere in relazione questa o quella istituzione della nostra Regola con la parola evangelica che il Maestro aveva dato come radice.

Alcuni esempi serviranno a catturare l’interesse di questi collegamenti. Ma prima di intraprendere quella strada, sembra necessario placare le preoccupazioni di chi vedrebbe tutto questo come nient’altro che ricerche inutili o poco importanti. Si è detto recentemente che era del tutto indifferente che Benedetto avesse attinto o meno a questa o quella fontana [11] . L'importante sarebbe riconoscere la vera natura della Regola benedettina e di quelle che le somigliano. Esse non vanno considerate come opere letterarie, nel senso classico del termine, ma come testi vivi, che attingono al fondo comune della tradizione monastica e si evolvono liberamente al suo interno. Cercare di stabilire precise affiliazioni tra questi frammenti in movimento sarebbe un gioco piuttosto inutile. In particolare, dovremmo rinunciare a mettere uno di fronte all'altro il Maestro e Benedetto. Piuttosto che perdersi nell'indagine delle fonti – così di moda oggi – ci si dovrebbe accontentare di definire le caratteristiche generali di questa letteratura, soprattutto l’impersonalità e il collettivismo, e di chiarirne il linguaggio rispetto ad altri tipi di testi profani o cristiani: spirituali, giuridici, liturgici, ecc.

Questi punti di vista hanno il merito di insistere su un dato reale: l'opera di Benedetto appartiene, infatti, a una tradizione specifica, quella delle regole monastiche scritte in latino o tradotte in quella lingua, la cui caratteristica più notevole è quella di avere molti elementi in comune. Tuttavia, questo fondo comune non si trasmette globalmente e indistintamente. Tra un testo e un altro esistono particolari rapporti di dipendenza letteraria, spesso evidenti [12] . Nessuno, che io sappia, ha mai messo in dubbio che Cesario di Arles abbia plagiato la Regola di Agostino, né che l'uso fatto da Cesario di questa Regola, al posto di quella di Basilio o di quella di Pacomio, sia un fatto importante per chiunque cerchi di comprendere la Regula Virginum del Vescovo di Arles.

Allora perché rifiutarsi di risolvere la questione dei rapporti tra Benedetto e il Maestro, o dichiararla di scarsa importanza? Una domanda difficile, certamente, dal momento che una delle opere raccolte (la RM) è anonima e senza data. Ma il problema non è più irrisolvibile di tanti altri che, nel tempo, hanno raggiunto o si stanno avvicinando ad una soluzione. I libri dei Re e delle Cronache, l'Apologetico di Tertulliano e Ottavio di Minucio Felice (tra il II e il III secolo), la Grande Lettera di Macario e l'Ipotesi di Gregorio di Nissa (IV secolo), per non parlare del problema sinottico: la storia letteraria è piena di questi enigmi. È un onore per gli storici e i critici non lasciar cadere le braccia davanti a nessuno di loro.

Del resto, il problema RM-RB è oggi uno di quelli la cui soluzione sembra quasi raggiunta nelle sue grandi linee. Per questo mi sembra meno che mai opportuno oggi abbandonare l'esposizione della nostra Regola attraverso le sue fonti, tra le quali l'opera del Maestro è in prima fila. Si tratta senza dubbio di un'impresa delicata, nella quale talvolta si è esposti a commettere errori, soprattutto sovrastimando la portata degli approcci e prendendo come fonti semplici paralleli [13] . Ma, tenendo conto di un margine di errore, non più considerevole che in altri campi, il metodo è sicuro e singolarmente fruttuoso. Rinunciarvi sarebbe una sorta di suicidio dello spirito. E la “fluidità” dei testi non lo rende inapplicabile. Scritti “vivi”, certo, ma in misura molto ristretta le nostre regole sono realmente, nella loro essenza, opere letterarie, riconducibili ad una sola persona, e la forma autentica di quella di Benedetto e di quella del Maestro non è più impossibile da riconoscere come la versione originale del De unitate di Cipriano (III secolo) o delle Lettere di Ignazio di Antiochia (I secolo).

Trattandosi, quindi, di un'opera utile, importante, necessaria, non possiamo fare di meglio che intraprendere ora l'esame comparativo di alcuni brani di Benedetto e di quelli del Maestro da cui provengono. Cominciamo con un testo maiuscolo: la presentazione del monastero alla fine del Prologo. Quando Benedetto scrive che «istituirà una scuola di servizio al Signore» [14] , nulla indica, a prima vista, che questo progetto sia ispirato proprio dal Vangelo. Da nessuna parte nel Vangelo si parla di una schola dominici servitii. Gesù ha predicato il Regno di Dio, anche una volta, secondo san Matteo, annunciando “la sua Chiesa”, ma i termini che Benedetto usa qui sembrano tanto estranei al linguaggio evangelico quanto la parola monasterium che compare sotto la sua penna un po’ più lontano . 15] .

Però, se consultiamo la Regola del Maestro, verificheremo che questo brano di Benedetto è già lì così com'è [16] , e che risponde a un testo precedente, omesso da Benedetto, in cui la Parola di Gesù nel Vangelo è solennemente proclamata. Il Prologo benedettino, infatti, non è altro che l’ultimo tassello di una grande introduzione tripartita che il Maestro chiama il Thema. Il commento ai Salmi 33 e 14 - l'unico conservato dalla nostra Regola - nel Maestro è preceduto da un lungo commento dell'Orazione domenicale e da un'evocazione del battesimo: la parabola della fonte.

In questo primo brano del Thema, il Maestro presenta l'umanità peccatrice sotto l'immagine di una carovana che cammina verso il deserto, trasportando carichi pesanti e morendo di sete. Ma questa scena di disperazione cambia improvvisamente: appare all’improvviso il fonte battesimale, si sente la voce di Cristo: «Venite a me, voi tutti che siete gravati di fatiche e di pesi, e io vi darò sollievo» (Mt 11,28). Gli uomini depositano il peso del peccato, bevono alla fonte della vita. Rigenerati dal battesimo, “rifatti” da Cristo, sentono nuovamente la sua voce: “Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le anime vostre; perché il mio giogo è dolce e il mio carico leggero» (Mt 11,29-30).

Questa seconda chiamata sarà decisiva per il suo ingresso in monastero. Dopo la vocazione al battesimo, ecco, agli occhi del Maestro, la vocazione alla vita monastica. Discite a me: “Entrate nella mia scuola, imparate da me”. Questa parola di Cristo è per il Maestro la parola d'ordine della sua fondazione, il programma dell'opera che sta per istituire. La schola dominici servitii, che si aprirà al termine del Thema, non sarà altro che il compimento del desiderio di Gesù. I monaci saranno “discepoli” di Cristo, l'abate un “maestro” o un “dottore” che insegna nel suo Nome, il monastero una “scuola” dove impareranno a vivere secondo i suoi comandamenti.

Anche se la definizione del monastero come schola possa non sembrare evangelica, essa è radicata nel Vangelo. Per scoprire questa radice evangelica, invisibile alla sola lettura di Benedetto, basta esaminare con un po' di attenzione la Regola del Maestro.

Ecco un secondo esempio. Benedetto dedica un piccolo capitolo al caso dei fratelli che lasciano il monastero e che poi chiedono di essere reintegrati [17] . La sua regola è allo stesso tempo generosa e severa: il colpevole può essere riammesso una, due, fino a tre volte, ma non di più. Questa regola del “tre volte” lascia un po’ perplessi: perché questa limitazione arbitraria? Nel Vangelo, Gesù non dice a Pietro che bisogna perdonare fino a settanta volte sette, indefinitamente [18] ?

La norma benedettina apparentemente non fa riferimento ad alcun testo del Vangelo. Ma, se consideriamo il corrispondente passo della Regola del Maestro [19], vediamo subito apparire la radice evangelica di quell'usque tertio. «Dopo tre rimproveri», scrive il Maestro, «il recidivo sarà trattato come un pagano e un pubblicano». Evidentemente queste parole si riferiscono al procedimento evangelico di tre ammonizioni successive: in segreto, davanti ai testimoni e in pubblico, come esposto in san Matteo (Mt 18,15-17). Benedetto e il Maestro ne traggono ispirazione in altri passi [20] in modo più letterale, senza distinguere tra rimproveri privati e pubblici e conservando solo il totale di tre ammonizioni. L'apostata che abusa di questa triplice possibilità di salvezza diventa un estraneo alla comunità.

Quindi, la legge monastica si fonda qui su una regola del Vangelo. Il solo Benedetto non permetterebbe in alcun modo di sospettarlo [21] . Alla luce del Maestro diventa chiaro questo fondamento evangelico.

Terzo esempio. Benedetto apre il suo capitolo sulla lettura a tavola affermando semplicemente: «Alle mense dei fratelli non deve mancare la lettura» [22] . Il principio è chiaro e la formula ben coniata, ma manca qualsiasi giustificazione scritturale. Sembra di trovarsi di fronte a una di quelle usanze monastiche che non hanno nulla a che vedere con il Vangelo. Infatti, la frase di Benedetto riassume in modo molto asciutto un brano del Maestro dove sono ben evidenziati sia il significato spirituale che il fondamento evangelico dell'osservanza: «Nel cibo carnale non deve mai mancare il cibo divino, come dice la Scrittura: «L'uomo non vive soltanto di pane, ma di ogni parola di Dio» (Lc 4,4). Così i fratelli faranno un doppio pasto, mangiando con la bocca e cibandosi con le orecchie» [23] .

Anche qui la sintesi di Benedetto ha lasciato da parte un'interessante motivazione ispirata al Vangelo. L'abitudine dei monaci di leggere durante i pasti è ispirata dall'amore di Cristo per la Parola di Dio. Proprio come Gesù nel deserto controllava la sua fame fisica meditando sulla Scrittura, così i monaci superano il loro appetito fisico e ascoltano le sante letture mentre mangiano.

Vediamo qui un ultimo caso in cui il Maestro pone le basi al significato evangelico di una prescrizione di Benedetto. Secondo la RB il neo professo deve «distribuire i suoi beni ai poveri o donarli al monastero» [24] . Non viene fatto alcun riferimento al Vangelo, ma si intuisce che Benedetto pensi a Mt 19,21: «Va', vendi quello che hai e dallo ai poveri; allora vieni e seguimi”. Infatti, il corrispondente brano del Maestro non solo presenta la stessa espressione – erogare pauperibus – ma anche una citazione del testo evangelico [25] .

Questi pochi esempi, che non sono certo gli unici, mostrano come ci si sbaglierebbe a giudicare l'evangelizzazione di Benedetto solo dalle esplicite citazioni o dalle manifeste allusioni che egli ha fatto al Vangelo nella sua Regola. È indispensabile conoscere l'impianto di fondo della Regola del Maestro se non si vogliono ignorare altri riferimenti evangelici meno evidenti, ma reali e importanti.

E, a sua volta, l'evangelizzazione del Maestro non può essere apprezzata con precisione se non si tiene conto di un altro disegno di fondo: quello della tradizione che lo precede. Pensiamo in particolare alla giustificazione profonda della preghiera delle Ore. Leggendo il Maestro, così come Benedetto, sembrerebbe che il sistema dei sette uffici al giorno si fondi unicamente su un versetto del Salmo 118: «Sette volte al giorno ti lodavo» [26] . Tuttavia, la tradizione monastica e paleocristiana, a cui il Maestro fa cenno a questo riguardo [27] , adduce un principio neotestamentario che può considerarsi avente una radice molto più profonda: il “Pregate incessantemente” di Paolo, il semper orare di Luca [28] . Insomma, questo motto dell'Apostolo e del Vangelo è ciò che di fatto fonda, sul piano storico come su quello dottrinale, tutti i sistemi di ore di preghiera che ferventi cristiani e monaci si sono forgiati, dalla fine del II secolo [29] . L'ufficio divino, al quale le nostre due Regole danno un posto così importante, ha lì una radice evangelica poco evidente, ma che non deve mai essere persa di vista.

Su questo punto il Maestro e Benedetto sono ugualmente carenti, ed è necessario cercare nella tradizione più antica il riferimento al Vangelo che essi non forniscono. In altri luoghi, al contrario, introducono importanti nozioni evangeliche che invano si cercherebbero in questo o quello dei loro predecessori.

Il caso più evidente è quello dei primi due precetti, citati dal Maestro all'inizio della sua ars sancta, e da Benedetto che li mette al vertice dei suoi “strumenti delle buone opere” [30] . Amare Dio, amare il prossimo: niente è più fondamentale, dal punto di vista evangelico, di questi precetti dati da Gesù stesso come i due più grandi della legge divina. Tuttavia la letteratura monastica precedente al Maestro e a Benedetto non è unanime nel presentarli come tali. Se alcuni testi, come la Regola basiliana e l'Ordo monasterii agostiniano, danno loro un posto di preferenza, un autore stimabile come Cassiano li ignora quasi completamente [31] . Per Cassiano, che su questo punto si ispira ad altri schemi scritturali, l'amore è una vetta, non un fondamento.

Il Maestro e Benedetto non ignorano questa nozione di amore-perfezione: la scala dell'umiltà, che riprendono da Cassiano, va dal timore alla carità e in questa termina come al suo culmine. Ma questa prospettiva delineata da Cassiano non è l’unica presentata da queste due regole. Con grande opportunità, se non con tutta logica, aggiungono un altro modo di vedere, che è quello del Vangelo. Per loro l'amore per Dio non è solo il coronamento riservato ai perfetti. È soprattutto il primo comandamento, quello che ogni cristiano e ogni monaco è chiamato a mettere in pratica non appena comincia a lavorare per Dio. Così il Maestro e Benedetto pongono ancora una volta sul candelabro la luce del Vangelo, che Cassiano, per ragioni di coerenza dottrinale, aveva posto un po' sotto il moggio.

Su un altro punto, non meno notevole, le nostre regole testimoniano un'eguale sollecitudine evangelica. Sappiamo come entrambe aprono il capitolo sull’umiltà con una solenne citazione della Scrittura: “Chi si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”. Questa parola di Gesù, che si ripete tre volte nei Vangeli, non è, sia per il Maestro che per Benedetto, solo una bella massima, adatta a rendere più maestoso l'esordio di un grande trattato. Condiziona tutto l'immaginario e la dottrina del capitolo: poiché l'umiltà “esalta” l'uomo fino all'altezza più alta alla quale possa salire, fino al cielo, essa è concepita come una scala che dalla terra conduce al cielo, percorso che il monaco deve percorrere in tutta la sua vita e che lo porta diritto al suo obiettivo finale [32] .

Questi fatti assumono il loro pieno significato quando il trattato sull'umiltà delle nostre due regole viene confrontato con il passo delle Istituzioni di Cassiano, da cui deriva [33] . In assenza della citazione del Vangelo viene, di conseguenza, a mancare l'orientamento escatologico. L'itinerario non conduce al cielo ma solo alla perfezione terrena della carità. L'umiltà non è ciò che lo costituisce da un estremo all'altro, ma è solo una delle tappe. Soprattutto, l'umiltà non appare, in questo brano di Cassiano, come un cammino eminentemente evangelico, tracciato da Cristo stesso, ma come una semplice prescrizione ascetica, di cui non viene evidenziato il rapporto con la rivelazione cristiana.

Il Maestro e Benedetto hanno quindi rinnovato profondamente la dottrina dell'umiltà riferendola espressamente alla Parola di Gesù, all'insegnamento del Vangelo. Si noterà che il significato da loro attribuito alla frase evangelica è letterale e stringente: «Chi si umilia sarà esaltato». Il Maestro e Benedetto prendono queste parole alla lettera e in tutta la loro forza, comprendendo da ciò che l'umiltà è la condizione necessaria e sufficiente per andare in cielo, per elevarsi a Dio.

Questo ambizioso letteralismo non manca certo il suo obiettivo, poiché lo stesso San Paolo non esita a rappresentare l'intero destino di Cristo come un'esaltazione mediante l'umiltà [34] . Ma altre interpretazioni letterali del Maestro sono meno fortunate, soprattutto quando esprime la Parola di Gesù: «Se qualcuno vuole essere il più grande, diventi l'ultimo», fino a ricavarne un incredibile metodo educativo consistente nel sollevare e sostenere tra i confratelli la determinazione a raggiungere la carica di abate, gareggiando per questa in pratiche virtuose [35] .

Quest'ultima osservazione ci porta alla nostra conclusione, con la quale vorrei mettere in guardia il lettore da una valutazione troppo semplicistica del posto che occupa il Vangelo nella nostra Regola. L'esempio che abbiamo appena trovato lo dimostra molto chiaramente: non basta citare il Vangelo, e nemmeno trarne principi di azione. È necessario farlo anche con oculatezza. Il numero delle citazioni e delle allusioni evangeliche non è l'unico criterio di evangelizzazione in un testo, e nemmeno il criterio più sicuro.

Uno scritto che ha pochi o nessuno di questi elementi può essere più carico dello spirito di Gesù di uno che ne è pieno. I riferimenti al Vangelo sono scarsi e poco evidenti nella Regola di Agostino, mentre sono abbondanti in quella di Basilio: uno è meno evangelico dell'altro? Quanto alla regola pacomiana – che ci sono seri motivi per attribuirla allo stesso Pacomio [36] – qui il Vangelo, come il resto della Scrittura, è quasi assente [37] . Conosciamo però da altri scritti lo spirito profondamente evangelico del monachesimo pacomiano. Sarebbe ingiusto pretendere da quest’opera qualcosa che non ha intenzione di dare. La Regola di Pacomio non vuole essere un direttorio spirituale, ma piuttosto un regolamento per il buon ordine di una comunità che riceve abbondantemente, con altri mezzi, la Parola di Dio.

È necessario quindi rinunciare ad ogni giudizio sul carattere più o meno evangelico delle antiche regole, nonché ad ogni confronto tra la loro evangelizzazione e la nostra. Allora come oggi [38] le regole monastiche venivano redatte in un sano spirito di libertà. Poiché in tutti i legislatori è presente la stessa volontà incondizionata di seguire Cristo, ognuno di loro si è sentito svincolato dall’attribuire alla sua opera un aspetto particolare, senza preoccuparsi di conferirle una conformità formale al Vangelo.

Inoltre, il Vangelo non è tanto una “regola”, quanto una “buona notizia” [39] . Non c'è da stupirsi che gli autori monastici non vi abbiano visto un modello e un quadro obbligatorio per tutta la legislazione cristiana. Il Vangelo è stato per loro soprattutto ciò che realmente è: il messaggio di salvezza attraverso Gesù Cristo. In questo senso sono esemplari il Thema del Maestro e il Prologo di Benedetto. La prima si apre – lo abbiamo già detto – con la chiamata di Cristo Salvatore che attira verso la sua persona e invita a prendere il suo giogo. La seconda propone fin dall'inizio il ritorno a Dio attraverso l'abnegazione e l'obbedienza a Cristo Re. Ed entrambi si concludono con la fondazione di una schola nella quale il Signore Gesù Cristo sarà ascoltato come maestro, servito come sovrano, seguito fino alla sua croce e verso il suo regno [40] .

 

Adalbert de Vogüé, osb

La Pierre-qui-Vire

89, Saint Léger

 Vauban, (Yonne), Francia

 


[1] Testo originale francese in Collectanea Cisterciensia 35 (1973), n. 3. Tradotto da Suor Clotilde Barbé, O.S.B. - Abadía Santa Escolástica (Buenos Aires).

[2 ] Prol. RB 21. D'ora in poi faremo riferimento alla nostra edizione: La Règle de saint Benoît. I-II, Parigi, 1972 (Sources chrétiennes 181-182).

[3]  Prol. 33-34 (Mt 7,24-25).

[4] Panégyrique de saint Benoît(1665), in BOSSUET, Oeuvres oratoires, ed. J. LEBARQ, t. IV, Parigi, s.d., p. 630.

[5] Questo è il significato di “pressis”, parola desueta che il curatore spiega in una nota (p. 630, n. 1).

[6] Si noti tuttavia che questa parola si è evoluta anche nel suo significato. “Istituzioni” qui significa senza dubbio “insegnamenti” per Bossuet.

[7] Cfr. l’articolo “Notre situation de moines et de moniales au XXe siècle”, in Collectanea Cisterciensia 33 (1971), pp. 171-178.

[8] Pensiamo qui al recente lavoro di O. DU ROY e alla critica che ne abbiamo fatto, sotto quel titolo, in Benedictina 19 (1973), pp. 227-238.

[9] Rimandiamo alla nostra edizione: La Règle du Maitre, t. I-II, Parigi, 1964 (Sources chrétiennes 105-106).

[10] Abbiamo confrontato le indicazioni della nostra edizione con quelle di S. PAWLOWSKY, Die biblischen Grundlagen der Regula Benedicti, Wien, 1965, pp. 106-107, che ci hanno fornito alcuni riferimenti aggiuntivi.

[11] Cfr. Chr. MOHRMANN, “La langue de saint Benoît”, in La Règle de saint Benoît, Séminaire pour maitresses de novices cisterciennes, Laval, 1972, pp. 22-32.

[12] Cfr. il nostro articolo Regole cenobitiche d'Occidente che apparirà nel Dizionario Enciclopedico dei Religiosi, Edizioni Paoline, Roma.

[13] Questo errore potrebbe benissimo essere stato commesso da noi qua o là nel nostro recente Commentaire historique et critique, Parigi, 1971 (Sources chrétiennes 184-186), come ci rimprovera A. BORIAS: "Une nouvelle édition de la Règle de Saint Benoît, in RHS 49 (1973), pp.126-127.L'esempio da lui riportato è però mal scelto: se si considera non solo la forma, molto banale, ma anche e soprattutto il contenuto dell'esordio di RB 37,1, la relazione di questo passo con i testi romani che ho citato non lascia spazio a dubbi, come ha ben notato il revisore inglese di JTS 24 (1973), p. 269

[14] Prol. 45.

[15] Prol. 50.

[16] RM Ts 45-46.

[17] RB 29.

[18] Mt 18,21-22, testo citato in RM 14,15 riguardo alla riconciliazione degli scomunicati e che è stato spesso invocato riguardo alla reintegrazione dell'apostata (vedi i commenti di DELATTE e HERWEGEN su RB 29).

[19] RM 64,1-4.

[20] Cfr. RM 12 e RB 23.

[21] Gli ottimi commenti di DELATTE, HERWEGEN e STEIDLE non lo sottolineano, così come non lo fanno le edizioni di PENCO, HANSLIK e Montserrat.

[22] RB 38,1.

[23] RM 24,4-5.

[24] RB 58,24.

[25] RM 87,13-15.

[26] RM  34,3; RB16.3.

[27] RM 34,2: «ut uetustatis mos est et patrum instituta sanxerunt (secondo l’antica tradizione e la regola stabilita dalle istituzioni dei Padri)».

[28] 1 Ts 5,17; Lc 18,1.

[29] Cfr. il nostro articolo “Le sens de l'office divin d'après la Règle de saint Benoît”, in RAM 42 (1966), pp. 389-404, nonché gli ulteriori sviluppi del nostro Commentaire doctrinal et spirituel che appariranno nella raccolta Sources chrétiennes.

[30] RM 3,1-2; RB 4.1-2.

[31] Questo fatto è stato reso evidente nel nostro Commentaire dottrinal et spirituel de RB 4.

[32] Vedi il nostro Commentaire historique et critique in La Règle de saint Benoît. IV, Parigi 1971 (Sources chrétiennes184), pp. 352-354. Meno coerente del Maestro, Benedetto ne sopprime la conclusione escatologica.

[33] CASSIANO, Ist. 4,39.

[34] Fil 2,5-11.

[35] Cfr. RM9 2 (cfr Mt 20,26-27). Commento in A. de VOGÜÉ, La Communauté el l'Abbé dans la Règle de saint Benoît, Parigi, 1961, pp. 355-359.

[36] Cfr. A. de VOGÜÉ, “Les pièces latines du dossier pachomien”, in RHE 67 (1972), pp. 26-27, soprattutto pp. 47-56.

[37] Cfr. R. HANSLIK, “Neutestament-Zitate in den altesten Klosterregeln”, in Festschrift Franz Loidl, t. I, Vienna, 1970, pp. 57-64, in particolare p. 58.

[38] Pensiamo alle recenti norme che abbiamo citato nell’articolo “Sub Regula uel abbate. Etude sur la signification théologique des règles monastiques anciennes”, in Coll. Cist. 33 (1971), pp. 209-241 (vedi p. 223). È appena apparsa una nuova edizione del Livre de vie monastique, Laurac-en-Vivarais 1973

[39] Ecco perché, diciamolo di sfuggita, non crediamo che sia possibile fare a meno di qualsiasi regola fuori del Vangelo, come vorrebbe una certa evangelizzazione. Sarebbe esigere dal Vangelo qualcosa di diverso da ciò che è e da ciò che offre. L'ideale di una comunità cristiana è quello di eliminare quanto più possibile dalle proprie regole ciò che non proviene in linea retta dal Vangelo, per giungere a quella che viene chiamata “semplicità evangelica”?

[40] Su questa fine del Prologo si veda il nostro commento in La Règle de saint Benoît, t. IV (SC 184), pp. 62-65. Uno studio sulla nozione di schola (sia “scuola” che “luogo di raduno”) si trova nel Commentaire doctrinal et spirituel.

 


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4 dicembre 2023                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net