2. IL MONACHESIMO CENOBITICO

2.1 Pacomio

Questa relazione è liberamente tratta dal Cap. 4 del primo volume di A. ELLI. Storia della Chiesa Copta, 3 volumi,

Franciscan Printing Press, Il Cairo – Gerusalemme, 2003.

Incontri di ecumenismo dell'Abbazia di Viboldone "VOCI E VOLTI DELL’ORIENTE CRISTIANO" -

5 Novembre 2007 - www.viboldone.it

 

Accanto all’anacoretismo nelle sue diverse varianti (la cosidetta formula antoniana del monachesimo), nella prima metà del IV secolo si sviluppò in Egitto un’altra forma di monachesimo, a opera di Pacomio (“L’aquila”): il monachesimo cenobitico (o pacomiano), col quale la vita religiosa ebbe un ulteriore sviluppo. A volte si trova l’espressione monachesimo antoniano, posto sullo stesso piano e in contrapposizione al monachesimo pacomiano: tuttavia, mentre Pacomio è l’inventore del tipo di monachesimo che a lui si richiama, Antonio non ha “inventato” nulla: egli è solo il più noto rappresentante del monachesimo anacoretico, che viene pertanto a volte indicato col suo nome (corretta è invece l’espressione succitata: “formula antoniana del monachesimo”).

Nato da genitori pagani verso il 287, nella Tebaide, forse a Diospolis Parva, nella regione di Esna (Shne, la Latopolis dei Greci), Pacomio conobbe il Cristianesimo nel 312, durante il servizio militare nell’esercito romano: arruolato di forza durante la campagna di Massimino Daia contro Licinio, venne rinchiuso in una caserma a Tebe insieme coi suoi compagni e qui restò profondamente edificato dal gesto di carità di alcuni Cristiani, che si presero amorevolmente cura di loro, vedendoli nell’afflizione. Promise così che se fosse stato liberato dalla triste condizione in cui si trovava avrebbe servito il Dio dei Cristiani per tutta la vita, amando tutti gli uomini. Il giorno dopo venne inviato insieme con le altre reclute ad Antinoe e qui, giunta notizia della vittoria di Licinio, furono tutti congedati. Pacomio però non tornò a casa, ma si fermò nel villaggio di Sheneset (Khenoboskion nei testi greci; odierna Qasr al-Sayyad), in Alto Egitto, sulle riva destra del Nilo, dove trascorse tre anni praticando l’ascetismo e dove, nella notte di Pasqua del 313, ricevette il battesimo. Desideroso di praticare la radicalità evangelica, Pacomio divenne discepolo del monaco Palamone, un anacoreta che viveva nei pressi del villaggio, vivendo in obbedienza presso di lui per quattro anni. È in questo periodo che una voce interiore lo esortò a costruire un monastero, per accogliere i molti monaci che sarebbero accorsi presso di lui. Palamone, riconoscendo in ciò la volontà di Dio, lo esortò a dare inizio alla sua opera. Pacomio si stabilì allora nel villaggio di Tabennesi, presso Dendera, nella Tebaide, sulla riva orientale del Nilo, dove numerosi discepoli si riunirono ben presto attorno a lui, attratti dalla sua fama; il primo fu il fratello maggiore Giovanni, seguito poi da Psentaesi, Surus e Psoi.

Nonostante le difficoltà iniziali, dovute alle incomprensioni e alle opposizioni dei primi discepoli, tra i quali lo stesso Giovanni, che mal comprendevano questa “rivoluzione” nella tradizione monastica, il numero dei monaci crebbe così velocemente che egli, dopo aver organizzato la comunità di Tabennesi, si trovò, verso il 329, quasi costretto a fondare per essi, nei pressi di Phbow (odierna Faw al-Qibli, non distante da Nag Hammadi), a qualche ora di marcia da Tabennesi, una seconda comunità (chiamata, con termine greco, koinonia, da koinós “comune”) monastica, che divenne in seguito la casa principale. A queste due prime comunità, altre ne seguirono, così che alla morte di Pacomio esistevano già ben dieci monasteri, alcuni da lui direttamente fondati, altri costituiti da colonie di monaci laureotici che avevano chiesto e ottenuto di essere aggregati alla koinonia pacomiana, accettandone le regole. A volte erano i vescovi stessi che chiedevano espressamente a Pacomio di fondare delle comunità nelle loro diocesi, anche se non mancarono casi di opposizione da parte della gerarchia ecclesiastica, che angustiarono gli ultimi anni della vita di Pacomio. Nella regione di Tabennesi sorsero anche tre conventi femminili: due furono fondati da Pacomio stesso e la direzione del primo di essi, fondato verso il 340 a Tabennesi, fu affidata alla sorella Maria; un terzo venne fondato successivamente dal discepolo Teodoro a Becne. Per tutti i suoi monaci, Pacomio fu sempre un vero padre spirituale, aiutato in ciò da un eccezionale carisma di discernimento spirituale, che gli faceva leggere nel cuore.

Il fondatore della koinonia morì nel 347, “il 14 del mese di pakhons, alla decima ora del giorno” (ossia alle quattro del pomeriggio del 9 maggio), durante una grave epidemia di peste che causò la morte di moltissimi monaci. Alla sua morte migliaia di monaci abitavano nei monasteri pacomiani, anche se il numero di essi è variamente riportato dagli storici (1).


 2.2 Struttura e regola delle comunità pacomiane

 Col crescere del numero dei monaci che, attratti dalla sua fama, venivano a lui, Pacomio si rese ben presto conto della necessità di incanalare e di disciplinare con leggi e insegnamenti fermi e precisi l’onda impetuosa dell’entusiasmo monastico. È così che divenne il primo legislatore del monachesimo, stendendo per i suoi monaci una “regola” per la vita religiosa in comune (cenobitica; da koinós “comune” e bíos “vita” ): l’attività della comunità, centrata sui tre capisaldi della preghiera, della disciplina e del lavoro, veniva così regolata fin nei minimi dettagli. E questa organizzazione “giuridica”, gerarchizzata e centralizzata, è la principale differenza tra la formula antoniana del monachesimo e il monachesimo pacomiano. Tale regola fu detta “dellangelo” perché, secondo la leggenda, Pacomio l’avrebbe ricevuta dall’alto. Nonostante tale leggenda, che la vuole ispirata direttamente da Dio, la regola pacomiana non fu concepita come un tutto in sé concluso, ma si formò gradualmente, sotto la pressione degli avvenimenti, accompagnando, con successive aggiunte, variazioni e precisazioni, la non facile crescita della comunità. Il centro della vita monastica non era più la venerata tradizione orale tipica degli anacoreti, ma ad essa si sostituiva una regola scritta, il cui modello era desunto dalla Scrittura e il cui principio fondamentale era il servizio ai fratelli, lo stesso gesto di disinteressato amore che aveva fatto di Pacomio, pagano, un innamorato di Cristo. Si evitava inoltre ogni esagerazione nelle pratiche ascetiche, riportandole a un livello accessibile all’uomo medio; pur lasciando a ogni monaco la facoltà di imporsi mortificazioni più severe, si sottolineava come la perfezione non consistesse in un’ascesi rigorosissima, ma in una stretta osservanza della regola. Da un movimento che si affidava alla pietà individuale degli anacoreti, il monachesimo venne trasformato, da Pacomio e dai suoi successori, in una formidabile organizzazione, pilastro fondamentale della Chiesa Copta. Anche per i monaci pacomiani valevano ovviamente i due principi fondamentali della vita anacoretica: condurre una vita ascetica e assicurarsi il sostentamento col lavoro delle proprie mani. Ma mentre presso gli anacoreti questi fini erano perseguiti individualmente, nel cenobitismo ci si muoveva in un quadro collettivo, che impediva anche tutte quelle stravaganze ascetiche alle quali spesso gli anacoreti si dedicavano.

A causa dei numerosi discepoli di cultura greca che erano entrati a far parte della koinonia pacomiana e che non conoscevano il copto, le regole di Pacomio e dei suoi successori Teodoro e Orsiesi vennero ben presto tradotte in greco. Una traduzione latina fu poi eseguita da Girolamo (Pachomiana latina). La Pachomiana latina contiene in effetti quattro differenti testi; la loro analisi rivela concezioni diverse dell’autorità e della comunità, difficilmente riconducibili a un’unica persona e corrispondenti pertanto con molta probabilità a tempi e situazioni diverse; essi rispecchierebbero il graduale cammino di istituzionalizzazione della koinonia: dalla pura regola evangelica dell’amore fraterno stilata inizialmente da Pacomio si giunge, per successive aggiunte e modifiche, a una regolamentazione minuziosa, che sarebbe opera dei successori Orsiesi e, soprattutto, Teodoro. È tale rigida regolamentazione finale che ha fatto paragonare da molti la koinonia a una caserma rigorosamente organizzata.

Secondo la prefazione alla Pachomiana latina di Girolamo, ogni monastero pacomiano (“villaggio” se ci si attiene alla terminologia copta, o “cenobio”, coenobium, con termine occidentale) era, come tutti i villaggi copti dell’epoca, circondato da un alto muro e al suo interno si trovavano da trenta o quaranta “case”, ognuna delle quali ospitava gruppi di quaranta fratelli; tre o quattro case costituivano una “tribù”. I monaci erano suddivisi nelle varie case a seconda dei lavori che venivano loro affidati: vi era così la casa dei contadini, dei fratelli incaricati dell’accoglienza degli ospiti, degli incaricati del forno, ecc. Oltre alle “case”, destinate ad accogliere le celle dei monaci, altre costruzioni permettevano lo svolgimento delle varie attività vitali della comunità: di queste, la più importante era certamente la chiesa, luogo di riunione (sinassi) per le pratiche religiose comuni, ma si trovavano anche un refettorio, un forno, delle officine per le diverse attività artigianali svolte dai monaci, stalle, depositi e magazzini, un’infermeria, una portineria e una foresteria per gli ospiti. Come per i Padri del deserto, anche per i monaci pacomiani l’attività principale consisteva nella fabbricazione di stuoie e di ceste, da vendersi nei mercati dei villaggi vicini; accanto a questa attività tradizionale dei monaci, se ne aggiungevano comunque molte altre, indispensabili per la sopravvivenza di comunità così numerose, quali il lavoro dei campi e la pastorizia, nonché le molteplici occupazioni interne alla comunità stessa, dai lavori di lavanderia alla preparazione del pane, ai vari lavori nei laboratori artigianali, all’accoglienza degli ospiti, alla cura dei malati.

Autorità suprema di ogni monastero era un superiore (pater o princeps monasterii nella traduzione di Girolamo, “l’uomo dell’assemblea”, prome ent-soouh in copto), al quale, oltre al compito generale di vigilare sull’intera comunità, spettavano alcune funzioni in particolare, quali decidere l’accoglienza tra i novizi di quanti si presentavano alla portineria chiedendo di essere ammessi alla koinonia o l’allontanamento di quei monaci che si erano mostrati indegni di rivestire l’abito monacale, sovraintendere alle molteplici attività lavorative dalle quali dipendeva la sopravvivenza materiale del monastero, vigilare sul rispetto delle regole; il suo compito principale era tuttavia quello di provvedere alla formazione spirituale dei monaci, al quale ottemperava con le catechesi tenute nei giorni di sabato e domenica. I padri di tutti i monasteri riconoscevano poi come loro capo il padre del monastero di Phbow.

Ogni casa era presieduta da un preposto (praepositus, o “l’uomo della casa”, prome enpei nei testi copti); a lui spettava il compito di vigilare su tutto ciò che accadeva all’interno della casa, aiutato in questo suo ministero da un “secondo” (secundus), la cui importanza è però variamente considerata nei diversi testi. A questa funzione amministrativa, egli aggiungeva anche quella di padre spirituale dei fratelli della sua casa: due volte alla settimana, nei due giorni di digiuno di mercoledì e venerdì (i giorni di digiuno erano limitati a due, così da conservare le forze anche per tutte le altre attività di interesse per la comunità; i monaci che desideravano praticare un’ascesi alimentare più rigorosa dovevano farlo senza ostentazione: era consuetudine, infatti, mangiare col cappuccio abbassato sulla fronte, così che nessuno potesse vedere quello che mangiavano gli altri (2)), egli teneva loro una catechesi biblica, il cui argomento serviva poi come tema di meditazione continua durante la giornata lavorativa.

Fondamentale nella formazione spirituale dei monaci pacomiani era lo studio assiduo della Bibbia: è dalla Bibbia, dall’Antico come dal Nuovo Testamento, che venivano tratti quegli esempi viventi che dovevano servire ai monaci come modelli di spiritualità. I Praecepta di Pacomio raccomandano con insistenza la necessità dello studio della Bibbia (già nella prima metà del IV secolo sarebbe esistita una versione in copto sahidico di quasi tutta la Bibbia), e richiedono esplicitamente che tutti conoscano a memoria almeno il Salterio e il Nuovo Testamento. Il rispetto di questa regola imponeva che tutti i monaci sapessero leggere, fatto degno di rilievo in un Paese e in un periodo in cui l’alfabetizzazione, soprattutto nell’ambiente contadino, dal quale la stragrande maggioranza dei monaci proveniva, era decisamente scarsa. Gli analfabeti venivano diligentemente istruiti e costretti a imparare a leggere, anche controvoglia.

 

NOTE


(1) PALLADIO,
HL, 7, 6, parla di tremila tabennesioti; in un altro passo di settemila (Ibidem, 32, 8-9). Secondo CASSIANO, Institutiones IV, 1, i monaci pacomiani erano cinquemila, mentre per SOZOMENO, HE, 6, 28 e per la Historia monachorum 3, 1 erano tremila. Occorre poi tener conto anche delle monache pacomiane che, secondo PALLADIO, HL, 33, 1, erano circa quattrocento. Le stime sul numero totale dei monaci e delle monache sono molto variabili; tutte, comunque, indicano che la percentuale dei Copti che avevano abbracciato la vita religiosa rappresentava una frazione significativa della popolazione totale, mai più ritrovata nell'ecumene cristiana, sì che l'Egitto stesso di quei secoli è stato definito “un vasto monastero”. Jean Maspero parla addirittura di più di mezzo milione tra monaci e monache; ed E.R. Hardy stima la popolazione monacale nell'ordine da centomila a duecentomila unità. Queste cifre vanno considerate in rapporto alla popolazione totale dell'Egitto. Mentre Giuseppe Flavio (37-103 circa) parla di circa otto milioni di persone, J.R. Crussel propone una popolazione più ridotta, di 4.5 milioni al I secolo, scesa a 2.8 milioni al VII secolo.

 
(2) Come più volte sottolineato, il regime di vita degli anacoreti era molto duro: secondo il monaco Palamone, primo maestro di Pacomio, gli anacoreti si astenevano dall'olio, dal vino, dalla carne e dai cibi cotti, con esclusione del pane; solitamente si concedevano un solo pasto giornaliero e praticavano frequenti e prolungati digiuni. Pur rispettando l'astinenza dalla carne, dal vino e dalla salsa di pesce, liquamen ex piscibus (nel Monastero Bianco di Shenute sarà poi vietato anche il consumo di formaggio e di uova), il regime di vita delle comunità pacomiane era invece più moderato ed equilibrato: i monaci si riunivano per i pasti due volte al giorno, anche se alla sera era concesso, a chi voleva, di prendere un po' di cibo nella propria cella.


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28 aprile 2015        a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net