LA LETTERATURA SIRIACA PRIMITIVA [1]

CAPITOLO VIII

di René Lavenant

Estratto da "Le antiche chiese orientali: storia e letteratura"

Paolo Siniscalco, Michel van Esbroeck

Città Nuova, 2005

- Introduzione

- Il siriaco

- Gli scritti precristiani

- Edessa

- I primi testi della letteratura siriaca

- L’Impero persiano

- Ai confini dell’impero: Efrem di Nisibi (306-373)

- Il Liber Graduum

- Verso la «grande lacerazione»

- Bibliografia

 

Introduzione

L’obiettivo di queste pagine, come il titolo stesso indica, non è quello di delineare pur a grandi linee un panorama di tutta la letteratura siriaca. Altri l’hanno già fatto e ci sembra superfluo ripetere questo tipo di esposizione [2]. Ci limiteremo invece al periodo precedente le grandi lacerazioni, sorte in seguito alle controversie cristologiche, per tentare di individuare il carattere originale di questa letteratura, Vogliamo sottolineare i rapporti con l’ambiente religioso e socio-culturale entro cui essa è fiorita, prima che le dispute dottrinali, dando origine a tradizioni divergenti se non antagoniste, rendessero confusa l'immagine di un cristianesimo ricco invece di una sua originalità ben rimarcata.

D’altra parte, proprio a questa radice del cristianesimo siriaco indiviso vogliono ricollegarsi le differenti tradizioni, quando ciascuna di esse rivendica l’esclusività di un patrimonio che è invece un bene comune.


 

Il siriaco

Tale patrimonio è costituito e trasmesso tramite il dialetto aramaico di Edessa, o siriaco. Si tratta di uno dei tre dialetti orientali [3] derivato dall'aramaico imperiale, che fu la lingua franca dell'Impero achemenide, dal Nilo all’indo. Sostituito dal greco, divenuto lingua ufficiale in seguito alle conquiste di Alessandro, l’aramaico continuò ad evolversi, diversificandosi in molti dialetti, orientali e occidentali, secondo le regioni e gli ambienti culturali.

Con il declino della dominazione ellenistica sulla Mesopotamia, i dialetti locali ebbero modo di svilupparsi e di giungere al livello di lingua letteraria,

Per quanto riguarda il siriaco, fu grazie al cristianesimo che poté affermarsi come lingua di un’immensa letteratura, le cui opere si situano tra il II e il XIII secolo.

Il consolidamento definitivo della lingua avvenne nel IV secolo, all’epoca della revisione della prima versione siriaca dell’AT, la Peshitta.

Da questo momento il siriaco diventa, con una certa approssimazione, la medesima lingua usala ad Edessa, a Nisibi, fino in Persia. La separazione tra Chiese siro-orientali e siro-occidentali [4], dovuta alle controversie cristologiche del V secolo, non introducono cambiamenti a livello di lingua, ma provocano differenze nella pronuncia delle vocali [5].

Per quanto riguarda la scrittura, oltre all'alfabeto detto estranghelo, dei più antichi manoscritti, comparve nell’VIII secolo un nuovo tipo più compatto, il serto, usato ai giorni nostri nelle comunità siro-occidentali. Qualche secolo dopo i siro-orientali adottarono un’altra scrittura derivata dall’estranghelo detta scrittura caldea o nestoriana.

La conquista araba nel 636 impose l’arabo alle regioni conquistate e provocò quindi la graduale scomparsa del siriaco come lingua parlata. All'inizio del IX secolo il siriaco è ormai una lingua morta, scritta e parlata solamente negli ambienti colti, così come il latino nell'Europa del Medio Evo e del Rinascimento. [6]


 

Gli scritti precristiani

Come abbiamo detto, il siriaco divenne una lingua letteraria grazie al cristianesimo. Precedentemente alle prime opere cristiane abbiamo tuttavia quattro scritti, che può essere interessante esaminare, pur rapidamente.

Inizieremo con La sapienza di Ahiqar, un testo sapienziale che presenta punti di contatto con l'AT. Vedremo quindi due testi pagani, il primo dei quali contiene un’allusione a Cristo, il secondo attribuisce a un pagano di Harran alcune profezie su Cristo. Infine, un testo di carattere storico, tratto dagli archivi di Edessa, che testimonia la presenza di una comunità cristiana nella città.

 

Ahiqar [7]

Questo personaggio, di cui sembra provata la storicità, è l’eroe di un antico racconto di origine babilonese, tradotto in aramaico nel VI secolo a.C. Ahiqar fu un vizir o scriba assiro che godette i favori di Sennacherib (704-681 a.C.) e di Assarhaddon (681-669 a.C.). A causa di un complotto tramato da Nadan, suo nipote e figlio adottivo, smanioso di succedergli, Ahiqar perde il favore del suo signore ed è condannato a morte, ma è salvato in extremis dal boia, che lo nasconde presso di sé avendolo sostituito con un altro condannato. Dopo la supposta morte di Ahiqar, il re dell’Egitto si sente più libero di creare difficoltà contro il re della Siria, gli impone folli pretese che nessun inviato assiro riesce a soddisfare.

Si rivelano più che mai indispensabili la saggezza e la capacità politica di Ahiqar. È venuto il momento, per il salvatore di Ahiqar, di farlo uscire dal suo nascondiglio e di presentarlo al re, che lo reintegra nel suo rango. Ahiqar va in Egitto, risponde abilmente a tutte le richieste egiziane e al proprio ritorno ottiene dal re di poter infliggere a Nadan la pena suprema. Prima ancora di essere affidato ai carnefici, costui vede il proprio corpo gonfiare e scoppiare, come giusta punizione della sua condotta criminosa.

Questo racconto è posto tra due serie di massime, consigli ed esortazioni rivolte a Nadan da parte di Ahiqar, La prima serie ha lo scopo di perfezionare l'educazione del giovane e renderlo idoneo a succedere al proprio padre adottivo nei suoi alti incarichi presso il re. Nella seconda Ahiqar trae insegnamenti dall'indegno comportamento di Nadan, preludio del terribile castigo che ricadrà su di luì.

Tale opera, che si ispira al libro biblico dei Proverbi, a sua volta è stata utilizzata dal Siracide e dal redattore della versione greca del libro di Tobia, che presenta Ahiqar come il nipote di quest’ultimo [8]. Un frammento lacunoso della versione aramaica risalente al V secolo è stato scoperto negli archivi della colonia militare giudaica di Elefantina. La versione siriaca è forse una traduzione diretta del testo aramaico, eseguita all'inizio della nostra era. Questo testo interessa non soltanto per la straordinaria fortuna di cui ha goduto in Oriente e in Occidente, ma anche per i dati geografici, storici e filologici che contiene e che si ritroveranno come sfondo di numerosi racconti di martiri e di fondazioni monastiche.

Sappiamo quale fortuna avranno successivamente tali generi letterari.

 

Lettera di Mara Bar Serapione [9]

Si tratta, qui, di una testimonianza umana ricca di accenti patetici. Mara Bar Serapione, originario di Samosata e prigioniero, in qualche luogo, dei romani, indirizza al figlio da cui è separato una lettera per invitarlo a perseguire con zelo infaticabile l'acquisizione della scienza, per esortarlo al disprezzo dei beni di questo mondo e alla forza d’animo davanti alle avversità.

L’autore di questa toccante lettera era uno stoico, pagano, o credente in un Dio unico? Non ci sono certezze, a questo riguardo. Non si può escludere che i copisti cristiani, trascrivendo la lettera, abbiano volutamente omesso i due punti del plurale sul termine siriaco indicante Dio, per far apparire monoteista il nostro autore. D’altronde, questa lettera contiene un’allusione chiara a Cristo, là dove evoca la morte inflitta dai giudei al saggio re «che aveva instaurato nuove leggi».        ’

Nessuna notizia precisa riguardante avvenimenti contemporanei permette di datare tale testo con esattezza. Non ci sono elementi per farlo risalire all'occupazione romana di Samosata nel 72, né per farlo slittare oltre il IV secolo. La prigionia di Mara Bar Serapione potrebbe datarsi piuttosto nella seconda metà del III secolo, al tempo del flusso e riflusso delle armate sasanidi e romane. Sarebbe insomma la vicenda di un nativo del luogo - e con lui, quanti altri! - abbandonato nelle mani del conquistatore o, meglio, del predone di turno.

 

Baba di Harran [10]

Questo personaggio viene presentato da uno scrittore cristiano anonimo come un profeta pagano precedente la nostra era, che lasciò alcune profezie su Cristo.

Il carattere artificiale dell'insieme, accentuato dalle reminiscenze bibliche (Ad es. Lc 2,34 e Mc 13,2), sembra evidente. Sicuramente siamo di fronte a testi costruiti o rimaneggiati con uno scopo apologetico contro il paganesimo ancora ben presente ad Harran.

 

Uno scritto degli Archivi di Edessa [11]

Nella Cronaca di Edessa - la cui redazione definitiva risale ai VI secolo -, si trova inserito, trascritto tale e quale, il racconto redatto, sembra, da un testimone oculare dell'inondazione che nel novembre del 201 d.C. devastò la città di Edessa. Sono ricordati, oltre le 2000 e più vittime che perirono, annegate durante il sonno, i danni provocati al palazzo reale, ai negozi e alle case dei privati, così come alla chiesa dei cristiani.

Possiamo qui fare due osservazioni. In primo luogo, pur lasciando intravedere che il cristianesimo, a quell’epoca, era ancora ai margini della vita ufficiale, questa relazione dimostra per lo meno che all’inizio del III secolo esisteva ad Edessa una comunità cristiana organizzata, con un proprio luogo di culto. Inoltre il ricorso a periti e a geometri per la ricostruzione della città, le misure adottate dal re Abgar e autenticate da un atto notarile per fronteggiare nel futuro il ripetersi di una simile catastrofe e circoscriverne i disastri, tutto questo indica come a Edessa agisse una amministrazione veramente degna di questo nome.

 

Edessa [12]

Edessa aveva ereditato l'amministrazione dei seleucidi, che l’avevano istituita nel 302 a.C. Quando, 170 anni più tardi, nel 132 essi abbandonarono la Mesopotamia per ritirarsi a ovest dell’Eufrate, la città poté affermarsi come il centro religioso e letterario della reazione aramaica contro l'ellenismo. Governata ormai da una dinastia autoctona, essa favorì di buon grado il fiorire di una letteratura che si esprimesse nella lingua locale.

Il cristianesimo trovò subito un ambiente culturale particolarmente favorevole ad esprimere il messaggio evangelico con i simboli e le categorie mentali dell’Antico e del Nuovo Testamento.

Anche se il greco era ancora largamente conosciuto e compreso, la lingua e la letteratura aramaica erano portati a preferire la visione simbolica e sintetica della realtà, propria della fede cristiana, all’approccio analitico e speculativo del pensiero greco [13].

Infine, la posizione geografica di Edessa, posta all’incrocio di tutte le vie di commercio tra i paesi mediterranei, l’est della Mesopotamia e la Persia, lascia pensare che la sua evangelizzazione abbia avuto inizio molto presto.     *

Alla ricerca delle origini

Come molte Chiese d’Oriente e di Occidente, anche la Chiesa di Edessa volle rivendicare un’origine apostolica. Essa cercò addirittura di collegarsi a Gesù stesso. Eusebio di Cesarea riferisce di aver trovato negli archivi della città un documento, di cui ha lasciato la traduzione greca [14] in cui si trovano due lettere. L’una è del re di Edessa Abgar V a Gesù, in cui gli chiede dì venire ad Edessa per guarirlo dalla sua malattia. L’altra è di Gesù, che gli risponde e che non può acconsentire alla richiesta, ma dice che gli manderà uno dei propri discepoli per guarirlo. Il documento riferisce ancora che dopo l'Ascensione l’apostolo Tommaso inviò ad Abgar Taddeo, uno dei settanta discepoli, che si recò ad Edessa e mediante l’imposizione delle mani, in nome di Gesù, guarì non soltanto il re, ma anche molti altri malati. Il re gli permise perciò di predicare il Vangelo.

Tale racconto fu ripreso e ampliato con altri elementi leggendari nello scritto intitolato Dottrina di Addai [15] ritenuto generalmente del V secolo. L’evangelizzatore di Edessa non si chiama più, qui, Taddeo, ma Addai, che appare come un personaggio storico. Si tratta di uno solo, o di due distinti personaggi? La questione è dibattuta.

In secondo luogo nella Dottrina di Addai non si parla più di una risposta scritta bensì orale, da parte di Gesù all'inviato di Abgar, il segretario o scriba Hanan. Altro particolare leggendario: Hanan dipinge il ritratto di Gesù e lo porta ad Abgar, che lo riceve con gioia e lo colloca nel posto più degno dei suo palazzo.

Un ulteriore ampliamento è dato dal lungo discorso di Addai, che narra il ritrovamento della Croce a Gerusalemme e traccia un resoconto fedele, anche se incompleto, della situazione dei cristianesimo a Edessa nel IV secolo.

Il successore di Addai è Aggai che prima di morire chiede al proprio successore, Palut di andare ad Antiochia e dì farsi ordinare da Serapione (200 d.C.). Il racconto sottolinea che Serapione stesso era stato ordinato da Zefirino, vescovo di Roma e successore di Pietro.

Malgrado II carattere leggendario, il testo contiene tuttavia, oltre al riferimento storico dell'ordinazione di Palut, un particolare che potrebbe essere autentico. Quando Addai giunge a Edessa prende alloggio presso un mercante giudeo chiamato Tobia, certo un personaggio ricco e influente, visto che è lui a introdurre il missionario cristiano presso il re. Conoscendo la violenta polemica anti-giudaica che si sarebbe sviluppata ben presto nella comunità cristiana siriaca, è difficile pensare che questo dettaglio sia stato inventato in seguito.

Questo, insieme ad altre considerazioni (che non è il caso qui di rilevare), ci porta a cercare le origini del cristianesimo siriaco nel territorio a est di Edessa, nella provincia di Adiabene, dove si trovavano fiorenti comunità giudaiche di lingua siriaca. Fu senza dubbio all'interno di questo ambiente che il cristianesimo fece i suoi primi adepti e l’influenza di questi giudeo-cristiani segnò dunque profondamente i primi scritti della letteratura siriaca.

Passando da questo racconto leggendario alle testimonianze storiche della presenza di una comunità cristiana a Edessa, vediamo che esse non risalgono oltre il II secolo. Riassumendo i dati esposti dal P.I. Ortiz de Urbina [16], vediamo, in ordine cronologico: 1) l'Iscrizione di Abercio (seconda metà del sec II), che contiene un’allusione sulla presenza di una comunità cristiana nell'Osroene, cioè nella regione di Edessa. Abbiamo una conferma di ciò in Eusebio di Cesarea (HE V, 23,4), là dove riporta che sotto il pontificato di papa Vittore I la Chiesa di Osroene fece pervenire a Roma il proprio parere sulla questione pasquale. 2) Il testo della Cronaca di Edessa riguardante l'inondazione del 201, di cui si è parlato sopra [17]. 3) Giulio Africano (†240 ca.) nella sua opera intitolata Kestoi o Ricami [18] dice di avere incontrato alla corte di Abgar IX, re di Edessa (176-213), un certo filosofo parto chiamato Bardesane, esperto nel tiro dell’arco. 4) Lo stesso Bardesane, nel suo Libro delle leggi dei paesi (di cui si parlerà più avanti), dà una testimonianza esplicita della presenza dei cristiani ad Edessa, in Siria e persino nell'Impero partico e in Persia [19].

Vediamo dunque come tutti questi scritti - soprattutto l’ultimo, quello di Bardesane - testimonino l’esistenza di comunità cristiane radicate, organizzate e capaci di affermare con la testimonianza della vita, la superiorità della loro fede nei confronti delle deviazioni morali dell’ambiente circostante. Molti decenni furono necessari per arrivare a tale maturazione e perciò è verosimile far risalire l’inizio dell’evangelizzazione di Edessa alla fine del I secolo o, al più, all’inizio del II.

 

I PRIMI TESTI DELLA LETTERATURA SIRIACA

La Peshitta dell’Antico Testamento

«Il più antico monumento della letteratura siriaca è indubitabilmente la versione dell’Antico Testamento». Nonostante le incertezze riguardanti la sua genesi e il suo sviluppo, sono oggi acquisiti alcuni elementi. La sua origine è da ricercarsi nell’ambiente giudaico o giudeo-cristiano dell’Adiabene, la provincia situata a est di Edessa, le cui comunità giudaiche mantenevano ben consolidati rapporti con la Palestina [20].

L’opera fu realizzata a tappe ed è frutto del lavoro di più traduttori. Lo stile di ciascun libro, o gruppo di libri, manifesta chiaramente tale diversità. Un problema dibattuto per lungo tempo riguarda il testo su cui si è basata la traduzione. Sembra ormai appurato che non si possa più parlare, oggi, di un’influenza di poco significato dei Settanta sul primitivo testo della Peshitta. Secondo alcuni studiosi, qualsiasi affermazione contraria è priva di significato, altri specialisti, e non dei minori, come A, Baumstark e A, Vööbus, hanno formulato l'ipotesi secondo cui la Peshitta sarebbe una sorta di Targum, cioè una traduzione parafrasata, comprendente elementi haggadici. Al contrario, studi recenti hanno mostrato che, malgrado la presenza di numerosi punti di contatto con la tradizione esegetica giudaica, il testo che il traduttore aveva sotto gli occhi era il testo massoretico, o per lo meno un testo molto vicino.

A proposito del nome Peshitta, «la Semplice» attribuita a questa versione dopo il IX secolo, sì è pensato che sia stato dato per distinguerlo dalla siro-esaplare, versione del VII secolo, condotta sul testo greco dei Settanta contenuto nelle Esapla di Origene, Oggi si è sempre più convinti che il termine significhi versione comune, o Vulgata, come la versione latina di san Girolamo

 

Taziano e il Diatessaron

Il Diatessaron o «Vangelo armonizzato» è il nome greco di un testo che armonizza ingegnosamente i quattro Evangeli in un solo testo. È la forma unica e la più antica del testo evangelico utilizzato per quasi tre secoli dalla cristianità siriaca, fino al suo divieto imposto dal vescovo di Edessa Rabbula (†435). Inoltre, da questo testo derivarono rimaneggiamenti in arabo, neerlandese, italiano e persiano e il suo influsso è presente in moltissime altre versioni bibliche.

Il suo autore, Taziano, dice di essere «nato nel paese degli Assiri», cioè a est di Edessa, forse nell’Adiabene, verso il 120, Giunto a Roma verso il 150, si converte al cristianesimo, senza dubbio sotto l'influenza del suo maestro, il filosofo, apologeta e martire san Giustino (†165).

Spirito intransigente, inclina ben presto verso l'eresia, specie verso l’encratismo, che lo porta a equiparare il matrimonio alla fornicazione. Si distacca dalla Chiesa di Roma e verso il 175-180 ritorna in Mesopotamia. Da questo momento si perdono completamente le sue tracce.

«L’opera che ha reso celebre Taziano è il suo Diatessaron» [21]. Sfortunatamente è in gran parte perduto. Ciò che ne rimane si trova nella versione armena del commento ad esso di sant’Efrem (†373). Questa versione, dopo una prima pubblicazione nel 1876 a cura di Moesinger, fu riproposta più completa nel 1953-54 da Dom Louis Leloir [22]. Lo stesso nel 1963 pubblicò alcuni frammenti in siriaco, scoperti poco prima. In seguito, altri folia sono stati scoperti e pubblicati.

Taziano padroneggiava perfettamente il greco, pur essendo il siriaco la sua lingua materna. Lo prova la sua Qratio ad graecos scritta all’epoca della conversione. Proprio partendo da ciò si pone il problema della lingua originale del Diatessaron, cosi come del luogo in cui venne scritto.

Su queste due questioni rispondiamo con Dom L. Leloir: «Allo stato attuale delle nostre conoscenze, non è possibile determinare se il Diatessaron fu scritto in Oriente o in Occidente, se la lingua in cui fu scritto fosse il siriaco o il greco. Purtuttavia, l’origine siriaca pare la più probabile».

Nel Diatessaron sembrano presenti, assieme ad altre, le influenze dell’encratismo. Taziano ha cercato di minimizzare tutto ciò che nel testo evangelico si riferisce al matrimonio, che per lui è equivalente alla prostituzione. Uguale sorte tocca all’uso del vino.

Uno dei tratti caratteristici del cristianesimo siriaco primitivo è proprio l'ascetismo spinto a forme estreme, che giunge alle volte fino alla condanna del matrimonio. Dobbiamo però ricordare che autori come Afraate ed Efrem, pur tenendo in altissima considerazione la verginità e la continenza, non cadono in questi eccessi e difendono la legittimità del matrimonio.

 

 

La Vetus Syra

È la versione chiamata anche «I Vangeli separati», per distinguerla dai «Vangeli armonizzati», o Diatessaron. Di essa esistono due recensioni scoperte nel secolo scorso, l’una da W. Cureton, donde ha preso il nome di Curetoniana; l'altra da Agnes Smith Lewis e Margaret Dunlop Gibson, detta Sinaitica, essendo stata conservata nel monastero di Santa Caterina del Sinai. Pare che la Curetoniana sia una revisione della Sinaitica.

La datazione della Vetus Syra rimane incerta, anche se oggi siamo sicuri che è posteriore al Diatessaron, di cui ha subito l'influenza. Secondo le più recenti valutazioni i modelli su cui sono state copiate le due recensioni della Vetus Syra devono appartenere al IV secolo, dopo la formazione dei grandi modelli del testo greco. Per quanto riguarda i due manoscritti, questi sono del V secolo.

La Vetus Syra comprendeva anche gli Atti degli Apostoli e il Corpus paolino, di cui però non sono pervenuti i manoscritti. Tale versione non pare essere mai stata utilizzata per il culto, neppure da Afraate o da Efrem.

 

La Peshitta del Nuovo Testamento

Si tratta di una versione che non è una nuova traduzione del testo greco, ma una revisione della Vetus Syra, per renderla più vicina al testo greco. Sembra che questo lavoro di revisione sia durato fino all’inizio del V secolo, Da quel momento soppiantò la Vetus Syra e il Diatessaron, e divenne il testo di base per tutte le Chiese della Siria. Essa mantiene tuttavia, qua e là, tracce delle antiche versioni, come testimoniano alcuni manoscritti e sue citazioni, presenti in autori posteriori.

La Peshitta del Nuovo Testamento comprendeva in origine 22 libri. Mancavano le lettere cattoliche minori (2 e 3 Giovanni, 2 Pietro, Giuda) e l'Apocalisse, che furono tradotti solo nel VI secolo. Anche in seguito un certo numero di versetti isolati, o pericopi, rimasero mancanti, come l’episodio dell’adultera (Gv 7,53-8, 11), o Lc 22, 17-18, At 8, 27; 15, 34; e 28, 29. Nelle edizioni a stampa tali passi furano presi da versioni posteriori.

Si è creduto per lungo tempo che la Peshitta del Nuovo Testamento fosse l'opera del grande vescovo di Edessa Rabbula che, come si è detto, aveva bandito l'uso del Diatessaron nella liturgia. Tale attribuzione è considerata oggi poco verosimile, anche se Edessa con la sua famosa Scuola, avrebbe potuto essere il centro di diffusione di tale versione nella sua forma definitiva

 

Bardesane ( 154-222) [23]

Con Taziano, Marcione e Mani, Bardesane si pone, nel II-III secolo, come una delle figure significative del cristianesimo edesseno.

Nato l'11 luglio 154 da genitori appartenenti alla nobiltà che viveva presso la corte di Abgar VIII, ricevette conseguentemente l'educazione accurata di cui godeva la gioventù nobile del tempo. Insieme alla letteratura greca, la filosofia e l'astrologia, era insegnata anche la pratica delle arti marziali, come il tiro all'arco. Non sappiamo come egli arrivò ad abbracciare il cristianesimo. Vi contribuiremo forse in qualche modo la sua naturale curiosità intellettuale e la sua propensione per una sorta di sincretismo. Diventato maestro a sua volta, si circondò di allievi e si gettò nella polemica anti-marcionita.

Dal 216 la sua vita mutò radicalmente, quando Caracalla pose fine all'indipendenza di Edessa, Come oppositore politico e come pensatore geloso della propria libertà, Bardesane dovette espatriare. È verosimile la tradizione che parla della sua vita errante, come propagatore del cristianesimo in Armenia.

Bardesane morì nel 222. Non conosciamo il luogo e le circostanze della sua morte. Ignoriamo anche la sorte del suo o dei suoi figli. È certo invece che il gruppo dei discepoli, disperso nel 216 all'epoca della partenza del maestro, si costituì più avanti in setta gnostica che si manterrà viva almeno fino all'VIII secolo.

Si è tentato più volte di delineare la personalità di Bardesane e di definire il suo pensiero. Si è visto in lui, volta a volta, uno gnostico, un astrologo, un filosofo influenzato dallo stoicismo e ancora, un sincretista scettico. L’incertezza nasce innanzitutto dalla scomparsa dei suoi 150 Inni o Poemi, che egli compose per favorire la diffusione delle proprie idee tra il popolo di Edessa. Ne rimangono solo due citazioni, riportate dal suo grande avversario, Efrem di Nisibi (†373). L’altra opera, il Libro delle leggi dei paesi, che si presenta come l'esposizione delle sue idee, non appartiene alla sua mano. Si tratta della trascrizione fatta dal discepolo Filippo di un dialogo che Bardesane avrebbe avuto con un marcionita, l'astrologo Avida.

Anche se Filippo ha cercato, come vuole qualcuno, di cancellare certi elementi di carattere dualistico e gnostico, si può tuttavia individuare in quest’opera un sistema abbastanza coerente. È presente innanzitutto una cosmogonia dove convergono la speculazione giudaica sui primi capitoli della Genesi e l’astrologia caldea. Alla triade formata dagli elementi primordiali, dal moto degli astri e dal corso del mondo, retta, rispettivamente, dalla libertà, dal destino e dalla natura, corrisponde nell'uomo la triplice divisione dello spirito, dell’anima e del corpo. Lo spirito viene da Dio ed è principio di libertà, mentre l’anima viene dalle sfere planetarie attraversate dallo spirito nella sua discesa ed è sottomessa al destino, che è retto dagli astri. Infine il corpo è composto dai quattro elementi.

Vediamo qui un tentativo di conciliare la dottrina cristiana e le concezioni astrologiche dell’ambiente culturale di Edessa. Il fine di Bardesane fu quello di mostrare come l’uomo non sia interamente sottomesso al destino e che, anche se dal corpo viene la possibilità del male, è non di meno la volontà che gli dà l'impulso. Per quanto riguarda la sua cristologia, se il carattere più evidente è quello del docetismo, gli altri elementi che la compongono non costituiscono una sintesi coerente. In effetti, in questo campo rimangono molte ambiguità.

Detto questo, Bardesane non fu però quello gnostico che alcuni polemisti o eresiologi hanno creduto di vedere in lui. Sembra piuttosto che siano stati i suoi successori, i daisaniti, ad aver radicalizzato in senso dualista il pensiero del loro maestro. A quel punto però incorse lui stesso, inevitabilmente, nella condanna che colpì coloro che si presentavano come gli eredi del suo pensiero.

Se valutiamo il pericolo mortale per la fede cristiana rappresentato dalle diverse gnosi, con le cristologie aberranti che implicavano, comprendiamo meglio l’ostilità accanita di cui fu oggetto la figura di Bardesane da parte di Efrem, come pure la scomparsa totale delle sue opere. Tutto ciò ha senza dubbio contribuito a creare come un alone di mistero intorno a una personalità che continua ad affascinare.

 

Le Odi di Salomone

Scoperta nel 1904 da Rendel Harris, la collezione dei 42 inni raccolti sotto il nome dì Salomone non era del tutto sconosciuta in precedenza, dal momento che, oltre alle citazioni sparse in diverse opere, cinque di tali odi si trovano nella Pistis Sophia, scritto gnostico del sec. III-IV pervenutoci nella versione copta.

Gli studi e le discussioni sviluppatisi immediatamente dopo la scoperta dell’opera hanno cercato di risolvere gli interrogativi che conferiscono a questi testi un alone di mistero.

Ciò che colpisce immediatamente è il sapore arcaico della teologia sottesa alla profusione di simboli e di immagini, talvolta singolari o contraddittori, che fluiscono dalla bocca del poeta per cantare la sua gioia di essere battezzato e la sua unione mistica con Cristo risorto.

Basandosi sull’uso di certi termini e di certe immagini che si ritrovano in altri scritti, molti studiosi banno definito questa teologia come gnostica. A tale critica è possibile obiettare, a ragione, che, contrariamente a questi altri scritti, le Odi non contengono quella teologia dualista che è l’elemento fondamentale di ogni gnosticismo eterodosso. Al contrario, se c’è gnosticismo, questo è perfettamente ortodosso. Seguendo le affermazioni di J. Daniélou, si potrebbe piuttosto parlare di «strutture di ciò che noi indichiamo come teologia giudeo-cristiana, utilizzate sia dagli gnostici sia dagli ortodossi» [24].

Il carattere giudeo-cristiano delle Odi si manifesta innanzitutto nella loro dottrina trinitaria, dove il Nome indica il Verbo, e dove lo Spirito Santo è visto al femminile. Ugualmente sono significativi altri temi, come la discesa del Figlio, tenuta nascosta agli angeli, la Chiesa preesistente, la concezione e la maternità verginali di Maria. Ma i due temi più importanti di questa teologia arcaica sono la discesa di Cristo agli inferi, descritta nell’Ode 42, l’ultima della raccolta, e il ritorno al paradiso grazie al battesimo, di cui le Odi sviluppano un interessante tipologia.

Numerosi elementi del rito battesimale ricchi di simbolismo sono d’altronde ancora oggi in uso nelle Chiese siriache, in particolare il rito dell’unzione con l'olio, cui un’opera gnostica come gli Atti di Tommaso attribuiscono una funzione essenziale nell'iniziazione battesimale, come vedremo più avanti.

I temi cui abbiamo ora accennato si ritroveranno più tardi incisivamente sottolineati in Efrem di Nisibi (†373). Non dobbiamo perciò basarci esclusivamente sul tipo di teologia presente nelle Odi per attribuire loro una datazione molto antica. Il III secolo sembra essere la data più comunemente accettata. La lingua originale e l'ambiente in cui le Odi vennero concepite sono stati l’oggetto di molte ipotesi e discussioni. Dopo aver ipotizzato il greco, oggi si è piuttosto a favore del siriaco, a motivo delle somiglianze con l'innologia siriaca posteriore.

Quanto all'ambiente, l’ipotesi di una matrice giudaica non è più sostenuta da nessuno. L'ambiente edesseno, interamente bilingue e molto permeabile alle differenti correnti che si riversavano nel cristianesimo di Edessa del II-III secolo sembra invece essere del tutto plausibile

 

Gli Atti di Tommaso

Questo apocrifo, la cui lingua originale è molto probabilmente il siriaco, risale ai primi decenni del III secolo e potrebbe venire dalla Scuola di Bardesane.

In 13 episodi l’autore narra le vicende e il martirio dell'apostolo Tommaso in India, dove fu inviato da Cristo per predicare il Vangelo. L’apostolo compie là numerosi miracoli e conversioni, preceduti e seguiti da avvenimenti dove il meraviglioso rivaleggia con il fantastico più sfrenato.

La caratteristica essenziale tuttavia non risiede tanto in questi elementi, quanto piuttosto, in primo luogo, nell’encratismo, che appare chiaramente fin dal primo episodio. Vi è rappresentato Cristo che, con le sembianze di Tommaso, appare alla figlia del re indiano e al suo sposo la sera delle loro nozze, per esprimere la totale condanna del matrimonio per convincerli che la paternità e la maternità sono una degradazione. In secondo luogo è attribuita una grande importanza, nel rito del battesimo, all’unzione mediante l’olio, visto già come sigillo di per sé sacramentale [25].

Il nono episodio di questo racconto contiene un lungo e bel poema, l'Inno dell’anima, detto anche Canto della perla, ricco di tutto un simbolismo esoterico e gnostico. L’eroe, un giovanetto, figlio del re, è mandato dai genitori alla ricerca della propria anima, simbolizzata in una perla custodita da un terrificante serpente. Egli discende in Egitto, simbolo di questo basso mondo che gli è estraneo. Colpisce con un sortilegio il serpente, s’impadronisce della perla e, dopo essersi spogliato del travestimento che era stato costretto ad indossare per non essere riconosciuto come straniero dalla gente del posto, prende la strada del ritorno verso il regno del padre, la sua patria celeste.

Prima di giungere a destinazione ecco che vede venire verso di lui, tenuto disteso da due tesorieri, il meraviglioso vestito di luce mandato dai suoi genitori. Si riconosce in esso come in uno specchio, se ne riveste e risale verso il padre a cui porta la perla. Abbiamo in questo poema, una perfetta illustrazione di ciò che la gnosi definisce «conoscenza di sé», conoscenza insieme di ciò che si era originariamente, di ciò che si è diventati quaggiù, e di ciò che si sarà oppure di ciò che si ridiventerà.

 

L'IMPERO PERSIANO [26]

 

Siamo rimasti fin qui nell’area e nell'ambiente del cristianesimo di Edessa. Vi erano, oltre a questa, nel II secolo — e lo si è visto attraverso la testimonianza di Bardesane — comunità cristiane nell’impero partico e in Persia. Tali comunità si collegano tradizionalmente a un discepolo di Addai, Mari, considerato come il fondatore della Chiesa di Seleucia-Ctesifonte. In quale data Mari sarebbe venuto a Ctesifonte, capitale dell’allora Impero partico? Fondandosi su considerazioni di geografia locale, il J-M. Fiey colloca l’arrivo del missionario cristiano tra la fine del I secolo e l’inizio del II, dunque grosso modo nello stesso periodo in cui Addai evangelizzava Edessa [27]. Occorre tuttavia attendere fino al 336 per veder apparire, con Afraate, il Saggio persiano, il primo scrittore siriaco dell'Impero persiano.

Nel frattempo l'Impero partico era scomparso per far posto, a partire dal 226, alla dominazione sasanide. Dopo un periodo di radicamento e di crescita senza storia sotto la dinastia panica degli arsacidi, la Chiesa persiana conobbe una forte espansione dovuta, sembra, all'arrivo massiccio di popolazioni che i sovrani sasanidi avevano deportato dalle regioni conquistate, tra cui si contavano numerosi cristiani, e anche alcuni vescovi.

La presenza di popolazioni di origini etniche e di mentalità differenti pose alla comunità cristiana seri problemi di ordine interno: rivalità nazionali, contrasti sulle influenze reciproche, conflitti di giurisdizione tra sedi episcopali confinanti, competizione per la supremazia su tutte le Chiese persiane: problemi tipici di una Chiesa cristiana in piena espansione, in una situazione politica perturbata.

Questa crescita preoccupò la potente casta sacerdotale dei magi e suscitò la loro gelosia. Così, quando Costantino pubblicò l’editto di Milano che concedeva alla Chiesa dell'Impero romano oltre alla tolleranza anche uno statuto giuridico privilegiato, i cristiani dell’Impero persiano dovettero apparire come nemici interni, come traditori, almeno in potenza se non di fatto. Non ci fu bisogno d’altro perché, verso il 340, i magi fomentassero una persecuzione che durò 40 anni e che in certe regioni, come l'Adiabene, fu molto sanguinosa. Se aggiungiamo poi a questo clima di violenza endemica il pericolo più insidioso e ancor più reale delle dottrine di Marcione, di Valentino, del manicheismo e del giudaismo, quest’ultimo ben introdotto in quell'epoca presso la corte, avremo un’idea del contesto socio-politico e religioso in cui visse e lottò Afraate.

 

Afraate (inizio sec. IV-345ca) [28]

Il nome di Afraate non ricorre mai nei tre manoscritti della British Library: Add. 14619, 17182 e Or 1017 (sec. V-VI) che contengono le sue opere. Vi è chiamato una volta il «Saggio persiano», e due volte «Mar Giacomo». Il nome di Afraate compare per la prima volta nel lessico siriaco-arabo di Bar Bahlul (†963).

L’identità dello scrittore è dunque rimasta lungamente avvolta nel mistero. Ugualmente ignoriamo le date precise della sua vita. Nacque senza dubbio tra il 260 e il 275 e morì poco dopo il 345. Fece parte dei «Bnay (bnât) qyâmâ», espressione siriaca che si traduce con «Figli (Figlie) del Patto». Né eremiti né monaci, costoro erano asceti che, pur vivendo nel mondo, erano votati al celibato. Afraate, come indica chiaramente la sua opera, fu insignito di una dignità elevata nella comunità. Con molta probabilità fu vescovo, anche se non ne siamo del tutto certi.

Il nome dì Giacomo fu senza dubbio da lui adottato al momento del suo ingresso negli ordini sacri. Nacque di qui la confusione con Giacomo di Nisibi, fatta dalla traduzione armena (fine sec. V).

La sua opera comprende 23 Dimostrazioni di cui le prime 22 sono disposte in acrostico, e la XXIII è un sommario dell’insieme. La parola siriaca che noi traduciamo abitualmente con «Dimostrazione» deriva dalla radice verbale «mostrare». Questa traduzione non soddisfa, perché connota una logica deduttiva, estranea al tipo di pensiero dell’autore. Una traduzione recente di rutta l’opera (cf. Bibliografia infra) propone «Esposizioni», che rappresenta già un miglioramento, ma resta ancora troppo segnato dal modo di pensare occidentale. Altre traduzioni, come «lettere» - infatti il testo si presenta in forma di risposte a un interlocutore - oppure «omelie», «discorsi», «capitoli», «trattati», ecc, si riferiscono a termini siriaci usati da Afraate stesso per caratterizzare il testo. Tutto ciò, per sottolineare la difficoltà di definire il genere letterario.

Gli argomenti trattati, invece, sono nettamente definiti. Le prime dieci «Esposizioni» sviluppano temi dogmatici e ascetici e furono scritti, secondo la testimonianza stessa di Afraate, nel 337. Si rivolgono innanzitutto ai «Figli (Figlie) del Patto». Le undici seguenti si collocano nel 344, e la ventitreesima nel 345, cioè all'inizio della persecuzione provocata da Sapore II. In questo secondo gruppo di testi, Afraate sviluppa soprattutto la polemica contro le norme pratiche della religione giudaica, il cui abbandono aveva suscitato inquietudine in alcuni fedeli che provenivano dal giudaismo. La quattordicesima «Esposizione» è una sorta di lettera sinodale indirizzala ai vescovi e ai fedeli della Chiesa di Seleucia-Ctesifonte per condannare gli svariati abusi commessi da pastori indegni.

La comunità dei «Figli (Figlie) del Patto», a cui sono indirizzate le «Esposizioni», è senza dubbio di origine o di tradizione giudaica. Il Saggio persiano di origine pagana sembra aver fatto parte di quei proseliti che conoscevano a fondo l'Antico Testamento e i commentari rabbinici. Il suo pensiero segue in tutto la tradizione, lontano dalle argomentazioni filosofiche della filosofia neo-platonica o aristotelica. Vuole essere, secondo le sue stesse parole, «discepolo delle Sante Scritture». Nelle sue «Esposizioni» analizza il testo scritturistico secondo i metodi ermeneutici della haggada della Torah orale. Nella sua pagina si ritrovano così molti temi derivati dai Talmûds e dal Midrâsh. Per questo sarebbe errato voler giudicare la teologia di Afraate, come la sua cristologia, secondo i concetti della dogmatica post-nicena. Ad esempio egli ignora i concetti di natura e di persona. Accostandosi al mistero non si limita ad una sola prospettiva, esaustiva di ogni significato, ma piuttosto giustappone i differenti e talora opposti aspetti di una verità di fede, usando un linguaggio ricco di immagini, pregnante e suggestivo, È in questo senso che si può parlare del carattere semitico del pensiero di Afraate.

Per quanto riguarda invece i modelli retorici presenti ad Afraate nella redazione delle «Esposizioni», qui egli dipende in realtà dal giudaismo detto “ellenistico”, distinto da un giudaismo di carattere più puramente semitico. Inoltre, alcuni procedimenti letterari da lui utilizzati risentono di vecchi modelli mesopotamici, passati più tardi nella retorica ellenistica. Tutto ciò manifesta, in conclusione, il “carattere ibrido” della sua matrice culturale.

«Quest’opera così originale e così interessante non ebbe seguito». L’«Esposizione» 23 si colloca nel 345, quattro anni dopo il 17 aprile del 341, che segna l’inizio della sanguinosa persecuzione suscitata da Sapore II e destinata a durare per un mezzo secolo, fino al 399.

Durante questo periodo, a parte racconti di martiri e formule liturgiche, non viene alla luce alcuna opera letteraria. Bisogna attendere fin verso la metà del V secolo perché si presenti, con Narsai (399-502), uno scrittore e un teologo degno di questo nome. Ma in quel momento la Chiesa di Persia avrà definitivamente optato per il nestorianesimo e per le controversie cristologiche, impegnandosi così in una via ben diversa da quella aperta dal Saggio persiano.

 

AI CONFINI DELL’IMPERO: EFREM DI NISIBI (306-373) [29]

Efrem di Nisibi, il più conosciuto tra i Padri siriaci, al momento stesso della morte godette di una celebrità che lo ha posto al livello dei più famosi Padri greci. Molto presto sono apparse le traduzioni delle sue opere in greco e in armeno, poi, lungo i secoli, in latino, arabo, copto, slavo ecc. Nella gran massa di tutti questi testi e versioni posti sotto il nome del grande dottore, la critica ha cercato di stabilire l’elenco delle opere autentiche, sia correggendo le attribuzioni errate, sia scartando le composizioni di falsificatori che utilizzarono il nome di Efrem per far passare alla posterità le loro mediocri produzioni. Non è uno dei minori meriti dell’editore moderno dell’opera di Efrem, Dom Edmund Beck o.s.b. (†1991 ) quello di aver compiuto, oltre all’edizione critica dei testi, anche questo lavoro di discernimento.

Analogo lavoro si è dovuto intraprendere con i numerosi testi - soprattutto greci e siriaci - che vogliono fornirci la biografia autentica di Efrem. Continuamente rimaneggiata, nel corso dei secoli questa si è appesantita nelle sue redazioni successive, di elementi leggendari mutuati sui modelli in uso nell’agiografia greca e siriaca.[30]

La prima di queste biografie, contenuta nella Historia Lausiaca scritta nel 419/420, dunque solo 46 anni dopo la morte di Efrem, giunge persino a descrivere il suo itinerario spirituale secondo gli schemi della spiritualità dotta di Evagrio Pontico. È un solo esempio delle aggiunte posteriori che hanno contribuito non poco a creare un’immagine abbastanza deformata del dottore siriano.

Gli avvenimenti certi della sua vita si riducono a poca cosa. Nato verso il 306 a Nisibi, città crocevia ai confini degli imperi romano e persiano e quindi aspramente contesa, Efrem vi trascorse i primi 57 anni della sua vita. Fu battezzato durante la giovinezza, quindi visse in un primo tempo a contatto con i quattro primi vescovi di Nisibi, che lo formarono alla vita ascetica. È quasi certo che abbia fatto parte, come Afraate, della confraternita dei «Figli del Patto» e che sia stato ordinato diacono. Senza dubbio Efrem iniziò nella sua città natale a insegnare, cioè a commentare le Scritture, «anche se non è sicuro che sia stata fondata una Scuola teologica dal vescovo Giacomo, l’indomani del concilio di Nicea».

Il santo dottore non avrebbe probabilmente abbandonato Nisibi, se la città, sempre esposta agli attacchi degli eserciti persiani, non fosse stata ceduta nel 363 dall’imperatore Gioviano (363-364) in cambio della pace. Dopo qualche tempo Efrem dovette espatriare con altri esuli e si stabilì a Edessa. Solo allora scoprì il diffondersi delle dottrine eretiche e delle sette che proliferavano nella città diventata la sua nuova patria: ariani, marcioniti, manichei, discepoli di Bardesane, per non citare che i più conosciuti. A Edessa proseguì la sua attività nell’insegnamento, «il che spiega come il suo nome sia rimasto legato alla fondazione della celebre Scuola teologica dei Persiani».

Il suo ministero di diacono gli permise di introdurre nella liturgia i suoi inni contro le eresie e - cosa del tutto straordinaria per l’epoca - di farli eseguire da un coro di vergini, senza dubbio membri come lui della confraternita dei «Figli (Figlie) del Patto». Per quanto riguarda la sua attività caritativa e sociale, questa ebbe certamente molte occasioni di svilupparsi, soprattutto al momento della carestia del 373, l’anno della sua morte.

Una tradizione molto posteriore, d’origine monastica, ha voluto presentare Efrem come un monaco anacoreta. In realtà è molto poco verosimile che il diacono di Edessa abbia potuto condurre una vita eremitica assolvendo il doppio compito dell’insegnamento e del servizio alla comunità. Poté dunque praticare la vita anacoretica solo per brevi periodi.

Benché Efrem abbia goduto di una celebrità, come abbiamo detto sopra, pari a quella dei grandi dottori della Chiesa greca, l’insieme della sua opera è rimasta inedita quasi fino al sec. XVIII. Si possono trovare due motivazioni per questo fatto apparentemente sorprendente. Primo, la prevalenza della teologia di lingua greca, con il suo carattere speculativo e analitico rafforzato dalle controversie teologiche, lasciava poco spazio a una visione simbolica e sintetica come quella di Efrem. Anche la stessa Scuola di Edessa, dal V secolo (come vedremo in seguito) si dedicò a tradurre in siriaco una quantità considerevole di opere dei Padri greci. Si produsse allora una svalutazione del pensiero dello scrittore siriaco. Il che spiega forse il motivo per cui andò perduta gran parte o la totalità del testo siriaco di certe opere, conservatesi solo in versione armena. Secondo, la conquista islamica, che ebbe luogo nella prima metà del VII secolo e che impose l’egemonia araba, provocò la scomparsa progressiva della lingua e della cultura siriaca.

L’insieme del corpus di Efrem è stato pubblicato, nel corso degli anni 1742, 1743, 1746 da Giuseppe Simone Assémani, coadiuvato da Stefano Evodio Assémani e dal gesuita Pietro Mobarak. Esso occupa 6 volumi in folio, i primi tre contenenti l’Efrem greco, i tre seguenti l’Efrem siriaco, il tutto accompagnato da una traduzione latina. Non torneremo qui sugli errori di questa edizione, già tante volte segnalati.

Nel corso del XIX secolo furono pubblicate altre opere, a partire dai manoscritti della British Library. Ma anche molte di queste edizioni lasciavano a desiderare dal punto di vista critico. Divenne indispensabile una riedizione che soddisfacesse tutte le esigenze della critica moderna. Questo lavoro fu compiuto tra il 1955 e il 1979 da Dom Edmund Beck, che «ha rieditato criticamente in 38 volumi del CSCO praticamente tutta l’opera poetica di Efrem Siro, comprese le opere dubbie e apocrife».

L’opera di Efrem viene divisa abitualmente secondo i generi letterari:

1 - Opere in prosa: a) Opere polemiche. Sotto il titolo generale di Confutazioni in prosa queste comprendono opere polemiche contro Mani, Marcione e Bardesane. Malgrado la loro difficoltà questi testi costituiscono «una delle maggiori fonti per la conoscenza delle dottrine marcionite, bardesanite e manichee nelle comunità della Mesopotamia del IV secolo» [31]. b) Commenti biblici. I più importanti riguardano la Genesi, l’Esodo e il Diatessaron. Benché tradizionalmente si colleghi Efrem alla Scuola di Antiochia, dobbiamo escludere ogni tipo di imitazione diretta dei modelli greci. Uguale osservazione vale per l’esegesi rabbinica, di cui troviamo numerose tracce nei commenti e negli inni. Dato il suo antigiudaismo [32], sembra più verosimile affermare che se ci fu imitazione questa avvenne soltanto attraverso le comunità cristiane che da tempo avevano acquisito e assimilato i metodi dei commentari giudaici.

2 - Omelie metriche (in versi di 7 + 7 sillabe). Sono indicate genericamente con il nome siriaco di Memra (plurale Memre). Un gran numero di queste composizioni sono andate perdute e molte di quelle pervenute non sono autentiche. Si considerano autentiche: a) sei Mentre sulla fede; b) Mentre su Nicomedia composte in occasione del terremoto del 358. Possiamo collegare a questi Memre quello De Domini nostro e l'Epistola a Publio.

3 - Inni. È la parte più importante dell’opera di Efrem pervenutaci. È anche quella che mostra con maggiore chiarezza il suo genio di poeta teologo. Non è provato che le origini di queste composizioni poetiche debbano essere cercate in Bardesane, anche se la grande diffusione dei suoi inni hanno spinto Efrem ad adottare il medesimo modello. «Per quanto riguarda la struttura, Efrem talora forse inconsapevolmente riprende antichi generi letterari mesopotamici, come quello della “disputa di prevalenza”, di cui esistono esempi già in lingua sumerica».

Dopo la morte di Efrem, gli inni - dei quali più di quattrocento sono a noi pervenuti - sono stati suddivisi in 9 volumi: Sulla natività, Sul digiuno, Su Nisibi (Carmina Nisibena), Sulla Chiesa e sulla Verginità, Sulla fede, Sulle dottrine e Sul Paradiso, Sui confessori e Sui defunti.

I Carmina Nisibena, nonostante il titolo, appartengono al periodo nisibeno solo per i primi 21 inni, mentre gli altri 56 sono del periodo edesseno. Si datano del periodo nisibeno gli inni sul Paradiso. Al contrario, gli Inni contro le dottrine erronee e gli Inni sulla fede che combattono i marcioniti, i bardesaniti, i manichei, gli astrologi e gli ariani, così come gli Inni sulla Chiesa e sulla Verginità, si collocano nel periodo edesseno [33].

Efrem ha raccolto nella sua opera una triplice eredità. Innanzitutto l’eredità culturale mesopotamica. Ciò risulta evidente dall’uso del genere letterario conosciuto con il nome di «disputa di prevalenza», che mette in scena due avversari in una sorta di duello oratorio, in cui ciascuno cerca di provare la propria superiorità sull’altro. Troviamo infatti in Efrem circa una mezza dozzina di poemi in cui si affrontano, ad esempio, Satana e la Morte, nel LII inno dei Carmina Nisibena, o il matrimonio e la verginità.

In secondo luogo Efrem ha largamente attinto alla tradizione giudaica, prima di tutto sicuramente all’Antico Testamento, ma anche alla letteratura post-biblica, Targûm e Midrâsh. Come si è detto, questa eredità non gli è pervenuta direttamente, ma attraverso le tradizioni delle scuole esegetiche che nelle comunità cristiane della Mesopotamia l’avevano da lungo tempo assimilata.

Infine, pur non conoscendo il greco, Efrem ha subito l’influenza delle opere scritte in quella lingua. Ne conobbe forse alcune tramite l’ausilio di traduzioni. Ad esempio ricorda i differenti punti di vista degli autori greci sulla natura dell’anima. Ugualmente, si è individuata nelle sue opere l’influenza del pensiero stoico.

L’originalità del genio di Efrem consiste nella sintesi da lui operata di tutti questi differenti apporti, per giungere ad esprimere il mistero cristiano in una visione simbolica. La parola chiave intorno a cui costruisce questa visione è la parola siriaca di origine persiana raza, che significa segreto, mistero, simbolo e anche, secondo il contesto, sacramento. Efrem vuole in ogni modo evitare di avvicinarsi al mistero tramite definizioni o schemi teologici, che possono essere pericolosi e perfino mortali per la fede cristiana. Questo era vero soprattutto per la polemica contro gli ariani, il cui errore consisteva nel cercare di elaborare una definizione razionale della generazione del Figlio da parte del Padre. Efrem, ponendo la realtà divina come al centro di un cerchio, contempla tale realtà senza cercare di rinchiuderla in una visione immobile e statica. La sua visione simbolica «propone invece in modo paradossale una serie di opposti e li pone in punti differenti della circonferenza. Unendo le coppie di opposti le une alle altre si ottiene una visione fondamentalmente dinamica». Gli stessi simboli presi dalla Bibbia sono usati in modo da non poterli dissociare gli uni dagli altri, in quanto simboli che rivelano il mistero di Cristo.

Per questo modo di procedere possono accedere a una simile comprensione globale solo coloro che a una perfetta conoscenza dell’Antico e del Nuovo Testamento aggiungono uno sguardo illuminato dalla fede. Così, a proposito del Paradiso, questo sguardo permette al credente «di inglobare il paradiso primordiale all’interno, allo stesso tempo, di una topografia sacra e di una teoria salvifica, che lo fanno corrispondere al Paradiso escatologico restaurato da Cristo e anticipato sacramentalmente dalla Chiesa».


 

Il Liber Graduum [34]

Tale opera, che si è conosciuta dopo il 1926 al momento della sua edizione ed è composta di 30 Memre o omelie, è anonima. Si ritiene comunemente che la sua composizione risalga al IV secolo. «Essa costituisce una testimonianza preziosa, per le tendenze dottrinali che esplicita, della spiritualità più arcaica della Chiesa della Mesopotamia».

Il nucleo fondamentale di questa spiritualità è la distinzione tra due categorie di fedeli, i “giusti” e i “perfetti”. I primi sono tenuti all’osservanza dei “piccoli comandamenti” e la loro condotta si fonda su tre precetti essenziali: il digiuno, la preghiera, l’elemosina. Occorre aggiungere anche l’osservanza della “regola d’oro”. I “perfetti”, da parte loro, praticano i precetti della rinuncia al matrimonio, alla famiglia e ai beni di questo mondo, comprese le cariche e le dignità nella Chiesa. Le virtù del “perfetto” sono un grande amore per tutti gli uomini fondato sull’estrema umiltà. La sua preghiera e il suo digiuno sono continui.

La distinzione tra “giusti” e “perfetti” dipende da una differenza più profonda, che riguarda la parte più o meno grande di Spirito ricevuto da ciascuno. Mentre i “giusti” hanno ricevuto solo l’arra, cioè una parte limitata dello Spirito, i “perfetti” invece l’hanno ricevuto in pienezza. La vita spirituale è dunque composta da moltissimi “gradi”, secondo la quantità di Spirito che ciascuno possiede. C’è tuttavia una tappa decisiva, quella in cui il fedele riceve il battesimo nel fuoco e nello Spirito, cioè nella pienezza dello Spirito. Si tratta di un battesimo «che fa entrare l’uomo nella Chiesa celeste... e lo ristabilisce nella condizione in cui era Adamo prima della caduta, liberandolo da ogni concupiscenza e restituendogli l’accesso all’albero della vita».

Molti commentatori, tra i quali l’editore e traduttore dell’opera, hanno creduto di rintracciare qui le tesi tipiche dell’eresia dei messaliani o eutichiani. Oggi pare invece che si sia pervenuti a un parere se non opposto, almeno molto sfumato. Effettivamente, se la distinzione tra “giusti” e “perfetti” e tra Chiesa visibile e Chiesa invisibile portava i messaliani a separarsi dalla grande Chiesa e a costituirsi in setta, l’autore del Liber graduum, al contrario, «insiste sulla necessità, per chi vuole pervenire alla Chiesa invisibile, di passare attraverso la Chiesa visibile».

Infatti occorre piuttosto vedere in questa distinzione tra “giusti” e “perfetti” «uno degli elementi fondamentali e permanenti della spiritualità siriaca dalle origini fino ai grandi mistici nestoriani del VII e VIII secolo».


 

Verso la «grande lacerazione» [35]

 

Fino a questo momento siamo rimasti nell’ambiente di una cristianità siriaca indivisa. Tuttavia, dopo la condanna di Nestorio al concilio di Efeso (431), i germi di divisione erano già all’opera in seno alla cristianità di Edessa. Con l’arrivo di numerosi emigrati dall’impero sasanide venne a crearsi nella celebre Scuola dei Persiani, resa famosa da Efrem, un partito nestoriano molto potente. Dapprima tale partito trovò in Rabbula, vescovo dal 411 della città, un avversario accanito, ma il successore Ibas (457), autore della famosa Lettera a Maris [36], fu suo sostenitore. Ci è pervenuto poco della produzione letteraria di Rabbula: due omelie, alcuni testi canonici, alcune lettere e un frammento di lettera a san Cirillo, con la risposta di quest’ultimo. Sappiamo che vietò l’uso del Diatessaron nella liturgia a favore dei Vangeli separati.

Delle opere di Ibas, a parte la Lettera a Maris, non ci rimane niente. Sappiamo però che fece parte di quel gruppo di giovani sacerdoti trasferitisi da Nisibi alla Scuola di Edessa per intraprendere l’impresa gigantesca di tradurre i Padri greci e autori come Eusebio di Cesarea, Tito di Bostra, insieme ad autori profani. «Si rimane meravigliati della grande quantità di testi che furono in questo modo tradotti, con tutto l’ardore e l’entusiasmo che vi potevano infondere questi giovani strappati, per amore dello studio, alle loro case e alla loro patria». Fu così che con l’aiuto di due suoi discepoli Ibas tradusse le opere di Diodoro di Tarso (†394), di Aristotele e soprattutto i Commentari di Teodoro di Mopsuestia (†428), autore che la Chiesa di Persia adotterà nel 484 come esegeta ufficiale e che onorerà con il nome di «Interprete», titolo attribuitogli ancora oggi dai siro-orientali.

Dopo la morte di Ibas avvenuta nel 457, i suoi seguaci furono cacciati da Edessa e si ritirarono in Persia [37].

Nel frattempo, nel 451, il monofisismo era condannato a Calcedonia. I vescovi siriaci, nella maggior parte, rifiutarono di aderire al concilio e dettero vita alla Chiesa monofisita. Da quel momento tutta la cristianità siriaca rimase separata dalla grande Chiesa e, in più, essa stessa si divise in due Chiese rivali e spesso nemiche, ciascuna di esse vivendo ormai una propria vita, ben presto con una sua gerarchia, suoi teologi e suoi polemisti che sapranno anche validamente difendere e valorizzare i propri sistemi cristologici.

Impegnandosi però in controversie teologiche, l’una e l’altra privilegeranno, d’ora in poi, una elaborazione speculativa, trascurando in questo modo gran parte di quella ricchezza che poteva loro venire da una visione simbolica del mistero cristiano [38].

 

Bibliografia

Lo strumento bibliografico di base, per ulteriori approfondimenti dei temi trattati, è il Catalogue of Syriac Printed Books and Related Literature in the British Museum, London 1962, curato da Cyril Moss.

In seguito si può consultare la rivista «Parole de l’Orient» (Université Saint-Esprit, Kaslik, Libano):

per gli anni 1960-1970: PdO 4 (1973) 393-465;

per gli anni 1971-1980: PdO 10 (1981/2) 291-412;

per gli anni 1981-1985: PdO 14 (1987) 289-360;

per gli anni 1986-1990: PdO 17 (1992) 211-301,

Queste bibliografie, a cura di S.P. Brock, sono state raccolte in un volume intitolato Syriac Studies. A Classified Bibliografy (1960-1990), PdO (1996). In PdO 23 (1998) 241-350, sempre a cura di S.P. Brock, è uscito un aggiornamento bibliografico Syriac Studies. A Classified Bibliography, per gli anni 1991-1995.



[1] La traduzione dal francese di questo testo è di Lella Scarampi.

N.d.R.: Il testo originale contiene molte altre note esplicativa che non ho riportato.

[2] Cf. P. Bettiolo, Lineamenti di patrologia siriaca in A, Quacquarelli (ed.), Complementi interdisciplinari di Patrologia, Città Nuova, Roma 1989, pp. 503-603. Come pure H. Eaton (ed.), Horizons in Semitic Studies, Birmingham 1980, pp. 1-68.

[3] I due altri dialetti sono, nella Bassa Mesopotamia, il mandeo, utilizzato da una setta battista dallo stesso nome all'inizio dell'era cristiana e, in Babilonia, il giudeo-babilonese, lingua del Talmud di Babilonia. Per quanto riguarda i dialetti occidentali, vi si annoverano tra gli altri, in Arabia dei Nord, il nabateo, in Palestina l'aramaico biblico e quello dei targums. Sono i due dialetti che a avvicinano maggiormente al galileo parlato da Gesù e dagli apostoli. Infine, il siro-palestinese (detto anche cristo-palestinese) in uso durante il III e il IV secolo nelle comunità cristiane melchite della Palestina.

[4] Per siro-occidentali si intende la Chiesa siriana ortodossa, detta anche monofisita o giacobita, dal nome del suo organizzatore, Giacomo Batadeo (†578), e la Chiesa siriana cattolica, così come la Chiesa maronita interamente cattolica. La Chiesa siro-orientale, da parte sua, include anche un ramo cattolico, i Caldei, mentre i siro-orientali non uniti a Roma, un tempo erano chiamati nestoriani e oggi sono gli assiri. Sotto le denominazioni di «siro-malabaresi» e «siro-malankaresi» si ritrovano le medesime suddivisioni nelle Chiese siriache dell'India, Per una documentazione più completa, cf. R. Roberson, The Eastern Christian Churches. A Brief Survey, Edizioni «Orientalia Christiana», Roma 1999.

[5] La pronuncia orientale è generalmente riconosciuta come più arcaica. La grafia e la pronuncia delle vocali sono inoltre più complesse di quelle del siriaco occidentale.

[6] I cristiani siriaci di Turchia, Iraq e Iran parlano ancora oggi diversi dialetti aramaici. Nonostante la denominazione generica di neo-siriaco con cui vengono alle volte indicati, questi dialetti non derivano dal siriaco classico, ma da altri dialetti parlati in queste regioni da tempo immemorabile. I più noti sono il soureth parlato in Iraq e in Iran e il tourani, dialetto dei cristiani siro-occidentali in uso lungo la frontiera nord-orientale della Siria. Cf. J. Rhétoré, Grammaire de la langue Soureth, Mossul 1012.

[7] Studio e tr. fr.: F. Nau, Histoire et Sagesse d'Aikar l'Assyrien, Paris 1909. Studio, edizione e tr. ingl.: The Story of Ahikar, by F.C. Conybeare - J. Rendel Harris - A. Smith Lewis, Cambridge, 1913.

[8] Cf. Tb 1,21-22.

[9] Ediz. E tr. Ingl.: W. Cureton, Spicilegium Syriacum, London 1855, pp. 43-48.

[10] A. Baumstark: Geschichte der syrischen Literatur  (GSL) 11.

[11] Ed. e tr. Lat.: I. Guidi, Chronica Minora, CSCO 1,2 (1903).

[12] Edessa: in siriaco Urbay, oggi Urfa in Turchìa, a 200 km circa a nord-est di Aleppo, La città prese il nome da quello dell'antica capitale della Macedonia, probabilmente in seguito al formarsi di una colonia macedone. Furono i romani a creare nel 216 d.C, la provincia di Osroene con Edessa capitale. Cf. J.-B. Segai, Edessa, the "Blessed City", Oxford 1970.

[13] Non fu cosi sul piano dei modelli retorici dove, al contrario, avvenne una vera e propria osmosi tra le culture ellenica e semitica, dando luogo a quello che fu definito un ambiente culturale "ibrido". Cf. R. Murray, Some Rhetoricai Pattern» in Early Syriac Literature, in A Tribute to A. Vööbus, Chicago 1977, pp, 109-131.

[14] Eusebio di Cesarea, Historia Ecclesiatica, (HE) I, 1, 13, Sources Chrétiennes (SC 31) (1952), pp. 40-45.

[15] Testo e tr. ingl. G, Howard, The Teachìng of Addai, Scholars Press Chico, California, 1981.

[16] In "Gregorianum", 15 (1934) 82-91.

[17] Ed. e tr. Lat.: I. Guidi, Chronica Minora, CSCO 1,2 (1903).

[18] Testo greco: J.K Vìeillefond, Jules Africain. Fragments des Cestes, "Les Belles Lettres", Paris 1932, pp. 49-50.

[19] Al contrario, l’affermazione attribuita a Bardesane (PS 2,607) che parla dell’adesione di Abgar IX alla fede cristiana pare di dubbia autenticità. Eusebio di Cesarea, che dà la traduzione greca di questo passo del Libro delle leggi dei paesi, non si pronuncia al riguardo (cf. Praep. Evang. VI, 10,44, SC 266 [1980], 230).

[20] Le fonti talmudiche forniscono interessanti dettagli geografici sulle vie di comunicazione che collegavano le comunità giudee della diaspora mesopotamica con la Terra Santa. Le iscrizioni trilingui della sinagoga di Dura-Europos sull’Eufrate sono una conferma delle svariate provenienze dei giudei che vi sostavano.

[21] L, Leloir, Éphrem de Nisibe, Commentaire de l'Évangile Concordant ou Diatessaron, SC 121 (1966), p, 15.

[22] CSCO 137, p. 145.

[23] Lo studio fondamentale su Bardesane resta l'opera di H.J.W. Drijvers, Bardesan of Edessa, Assen 1966. Il testo del Libro delle leggi dei paesi è stato edito con una trad. lat. da F. Nau, in PS 2, pp. 490-657.

[24] Dictionnaire de la Bible Supplément [DBS] 6 (1960), p. 680.

[25] Un punto questo che è stato sottolineato a proposito delle Odi di Salomone.

[26] Per notizie più complete, cf. J. Labourt, Le Christianisme dans l'empire perse sous la dynastie des Sassanides (224-632), Paris 1904. Per una critica e una messa a punto dello scritto di Labourt, cf. J.-M. Fiey, Jalons pour une histoire de l'Église en Iraq, CSCO 310 (1970), pp. 1-99.

[27] Cf. J.-M. Fiey, op. cit. pp. 52-44, Un’altra tradizione raccolta da Eusebio di Cesarea (HE III, 1 SC 31 [1952] 97), attribuisce 1’evangelizzaaione dell’Impero partico a san Tommaso. Di fatto, nel IV secolo esisteva a Edessa una tomba che secondo la tradizione conteneva i resti dell’apostolo. Cf. la testimonianza di Egeria in SC 296 (1982), 202 e l’allusione di Efrem, Carmina Nisibena 42, 1-2, CSCO 240 (1963), p. 37.

[28] Ed. e tr. lat.: D.J. Parisot, in PS 1 e 2, coll. 1-489; tr. fr. con introd. e note; M,-J. Pierre, Aphraate le Sage Persan, Les Exposés, vol. 1, SC 349 (1988); vol. 2, SC 359 (1989). Questo capìtolo su Afraate si ispira per la maggior parte all’Introduzione di M.-J. Pierre.

[29] II testo che segue deve molto all’articolo di A. de Halleux, Saint Ephrem le Syrien, in RTL 14 (1983) 328-355. Si è tenuto presente anche l’opera di S.P. Brock, The Luminous Eye, Placid Lectures, Roma 1985. Questo volume è stato pubblicato in traduzione francese a cura di Didier Rance con il titolo L'oeil de lumière, La vision spirituelle de saint Ephrem, Abbaye de Bellefontaine 1991. Alle pagine 339-348 vi si trova una buona, anche se non esaustiva, bibliografia aggiornata sulla figura e l’opera di Efrem.

[30] Occorre considerare come leggende e clichés agiografici, la nascita di Efrem da un padre sacerdote degli idoli, il suo incontro con san Basilio, il suo soggiorno in Egitto presso Padri del deserto, la sua vita come eremita ecc. Possiamo notare a questo proposito che l’appellativo di «Diacono di Edessa», attribuito tradizionalmente a Efrem, proviene dall’ambiente cristiano ellenico. Di fatto, il santo dottore ha trascorso a Edessa soltanto gli ultimi dieci anni della sua vita. Per maggiori dettagli cf. B. Outtier, Saint Ephrem d’après ses biographes et ses oeuvres, PdO 4, 1/2 (1973) 11-33.

[31] Sulla storia delle edizioni del corpus efremiano, cf. J. Malki, Saint Ephrem le Syrien, un bilan de l’édition critique, PdO 11 (1983) 3-88.

[32] A proposito dell'antipatia di Efrem nei confronti dei giudei così si esprime S.P. Brock, op. cit., p. 164, nota 1: «...alcuni epiteti che egli usa verso di loro appaiono del tutto offensivi a un lettore contemporaneo, in particolare a un lettore europeo... Collocati tuttavia nel loro proprio contesto e nella tradizione a quei tempi in uso delle invettive, l’ostilità di Efrem diventa più comprensibile, soprattutto se c'è qualcosa di vero nell’ipotesi recentemente avanzata che egli fosse già a conoscenza delle storie oscene che circolavano presso i giudei, secondo le quali Gesù era il figlio di una prostituta e di un soldato romano, storie che ci sono giunte nelle diverse recensioni del Toledoth Yeshu. In ogni caso Efrem non si augurava certo di vederli votati alla Géhenna...» (segue una citazione in cui Efrem chiede per loro perdono al Signore). Cf. A. de Halleux, op. cit., p. 337.

[33] Il ristretto quadro di una esposizione come la presente non consente di parlare qui delle diverse versioni - armena, greca, araba, ecc. - dell’opera di Efrem, data l’inesistenza di una edizione completa e soddisfacente di tali versioni. Per questi problemi, cf. ibid., pp. 338-343 e J. Malki (cit. supra, n. 50).

[34] La sostanza del presente capitolo è desunta da A. Guillaumont, Liber graduum, in DSp 9 (1976), pp 749-54.

[35]

Espressione ripresa dal titolo del capitolo VI dell'opera di J.-M. Fiey, Jalons pour une histoire de l'Eglise en Iraq, CSCO 310 (1970), pp. 1-99.

[36] Testo greco e versione latina: Mansi, VII, coll. 241-249.

[37] La Scuola di Edessa sarà definitivamente chiusa dall'imperatore Zenone nel 489.

[38] I mistici costituiscono un caso a parte. Il loro contatto con l'indicibile li obbliga a utilizzare soprattutto un linguaggio simbolico. Così, quando tentano di concettualizzare le loro esperienze, il linguaggio si rivela totalmente inadeguato, oppure contraddice le posizioni tradizionali delle loro Chiese, ciò che attira loro le condanne da parte delle autorità ecclesiastiche, È ciò che avverrà per il mistico sire-orientale dell'VIII secolo Giovanni di Dalyatha.


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28 novembre 2018                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net