Regola di S. Benedetto

Prologo:  " Venite, figli, ascoltatemi, vi insegnerò il timore di Dio.
Correte, finché avete la luce della vita, perché non vi colgano le tenebre della morte"...

"Non sai che con la sua pazienza Dio vuole portarti alla conversione?". Difatti il Signore misericordioso afferma: "Non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva".

 Capitolo IV - Gli strumenti delle buone opere: " ...- anelare con tutta l'anima alla vita eterna, - prospettarsi sempre la possibilità della morte. ..."

Capitolo VII - L'umiltà - Dobbiamo quindi guardarci dalle passioni malsane, perché la morte è annidata sulla soglia del piacere.

Capitolo XXV - Le colpe più gravi - Il monaco colpevole di mancanze più gravi .... Attenda da solo al lavoro che gli sarà assegnato e rimanga nel lutto della penitenza, consapevole della terribile sentenza dell'apostolo che dice: "Costui è stato consegnato alla morte della carne, perché la sua anima sia salva nel giorno del Signore".


MORTE

A cura di Pierre Grelot

Voce del “Dizionario di Teologia Biblica” ed. Marietti - 1980

 

VECCHIO TESTAMENTO

 

I. PRESENZA DELLA MORTE

 

1. L'esperienza della morte. - Tutti fanno l'esperienza della morte. Lungi dal distoglierne lo sguardo per rifugiarsi in sogni illusori, la rivelazione biblica, a qualunque stadio la si esamini, comincia col guardarla lucidamente in faccia: morte delle persone care, che, una volta scambiati gli addii (Gn 49), provoca l'angoscia in coloro che restano (Gen 50, l; 2 Sani 19, 1...); morte che ciascuno deve considerare per se stesso, perché anch'egli « vedrà la morte » (Sal 89, 49; Lc 2, 26; Gv 8, 51), « gusterà la morte » (Mt 16, 28 par.; Gv 8, 52; Eb 2, 9). Pensiero amaro per colui che fruisce dei beni dell'esistenza, ma prospettiva desiderabile per colui che la vita opprime (cfr. Sir 41, 1 s): mentre Ezechia piange sulla sua morte imminente (2 Re 20, 2 s), Giobbe la invoca a gran voce (Gb 6,9; 7,15).

 

2. L'oltretomba. - Il defunto « non è più » (Sal 39, 14; Gb 7, 8. 21; 7, 10): prima impressione di inesistenza, perché l'oltretomba sfugge alle prese dei viventi. Nelle credenze primitive, conservate a lungo dal VT, la morte non è tuttavia un annientamento totale. Mentre il corpo è deposto in una fossa sotterranea, qualcosa del defunto, un'ombra, sussiste nello shéol. Ma questi inferi sono concepiti in modo molto rudimentale: un buco spalancato, un pozzo profondo, un luogo di silenzio (Sal 115, 17), di perdizione, di tenebre, di dimenticanza (Sal 88, 12 s; Gb 17, 13). Ivi tutti i morti radunati partecipano alla stessa misera sorte (Gb 3, 13-19; Is 14, 9 s), anche se vi sono gradi nella loro ignominia (Ez 32, 17-32): sono consegnati alla polvere (Gb 17, 16; Sal 22, 16; 30, 10) ed ai vermi (Is 14, 11; Gb 17, 14). La loro esistenza non è più che un sonno (Sal 13,4; Dn 12, 2): non c'è più speranza, conoscenza di Dio, esperienza dei suoi miracoli, lode da innalzargli (Sal 6, 6; 30, 10; 88, 12 s; 115, 7; la 38, 18). Dio stesso dimentica i morti (88, 6). E una volta passate le porte dello shéol (Gb 38, 17; cfr. Sap 16, 13), non c'è più ritorno (Gb 10, 21 s).

Tale è la prospettiva desolante che la morte apre all'uomo per il giorno in cui dev'essere « riunito ai suoi padri » (Gen 49, 29). Qui le immagini non fanno che dare una forma concreta ad impressioni spontanee che sono universali ed a cui si limitano ancora molti dei nostri contemporanei. Se il VT è rimasto a questo livello di credenze sino ad un'epoca tarda, è segno che, a differenza della religione egiziana e dello spiritualismo greco, ha rifiutato di svalorizzare la vita terrena per rivolgere le sue speranze verso un'immortalità immaginaria. Ha atteso che la rivelazione illuminasse coi suoi mezzi propri il mistero dell'oltretomba.

 

3. Il culto dei morti. I riti funebri sono un fatto universale: fin dalla lontana preistoria, l'uomo ci tiene ad onorare i suoi morti ed a rimanere in contatto con essi. Il VT conserva l'essenziale di queste tradizioni secolari: atti di lutto che manifestano il dolore dei vivi (2 Sam 3,31; Ger 16,6); seppellimento rituale (1 Sam 31, 12 s; Tb 2, 4-8), perché è una maledizione non ricevere sepoltura (Dt 21,23; 1 Re 14,11; Ger 16, 4); cura dei sepolcri, che tocca così da vicino la pietà familiare (Gen 23; 49, 29-32; 50, 12 s); pasti funebri (Ger 16, 7), e persino offerte sulle tombe dei defunti (Tb 4,17), benché siano deposte « dinanzi a bocche chiuse » (Sir 30, 18).

Tuttavia la rivelazione impone già dei limiti a queste usanze, che nei popoli vicini sono legate a credenze superstiziose: di qui il divieto delle incisioni rituali (Lv 19, 28; Dt 14, 1), e soprattutto la proscrizione della necromanzia (Lv 19, 31; 20, 27; Dt 18, 11), tentazione grave in un tempo in cui la magia era fiorente e si praticava l'evocazione dei morti (cfr. Odissea) come oggi ci si dedica allo spiritismo (1 Sam 28; 2 Re 21, 6). Nel VT non c'è dunque, a rigore, culto dei morti come c'era presso gli Egiziani: l'assenza di luce sull'oltretomba aiutò certamente gli Israeliti a guardarsene. '

 

4. La morte, destino dell'uomo. - La morte è la sorte comune degli uomini, « la via di tutta la terra » (1 Re 2,2; cfr. 2 Sam 14, 14; Sir 8, 7). Ponendo fine alla vita di ciascuno, essa appone un sigillo sulla sua fisionomia: morte dei patriarchi « sazi di giorni » (Gen 25, 7; 35, 29), morte misteriosa di Mosè (Dt 34), morte tragica di Saul (1 Sam 31)... Ma dinanzi a questa necessità ineluttabile, Come non sentire che la vita, così ardentemente desiderata, è soltanto un bene fragile e fuggitivo? È un'ombra, un soffio, un nulla (Sal 39, 5 ss; 89, 48 s; 90; Gb 14, 1-12; Sap 2, 2 s); è una vanità, poiché la sorte finale di tutti è identica (Qo 3; Sal 49,8 ...), anche quella dei re (Sir 10, 10)! Constatazione malinconica da cui nasce talvolta, dinanzi a questo destino obbligatorio, una rassegnazione priva di illusioni (2 Sam 12, 23; 14, 14).

Tuttavia la vera sapienza va più lontano; accetta la morte come un decreto divino (Sir 41, 4), che sottolinea l'umiltà della condizione umana di fronte al Dio immortale: chi è polvere ritorna alla polvere (Gen 3,19).

 

5. Il potere della morte. - Nonostante tutto, l'uomo vivente sente nella morte una forza nemica. Spontaneamente le dà un volto e la personifica. È il pastore funebre che chiude gli uomini negli inferi (Sal 49, 15); penetra nelle case per falciare i bambini (Ger 9, 20). Certamente nel VT riveste pure la figura dell'angelo sterminatore, esecutore delle vendette divine (Es 12, 23; 2 Sam 24, 16; 2 Re 19, 35), nonché quella della parola divina che stermina gli avversari di Dio (Sap 18, 15 s). Ma questa fornitrice degli inferi insaziabili (cfr. Pr 27, 20) ha piuttosto i tratti di una potenza dal basso, di cui ogni malattia ed ogni pericolo fanno presentire il subdolo avvicinarsi. Perciò l'ammalato si vede già « annoverato tra i morti » (Sal 88, 4 ss); l'uomo in pericolo è circondato dalle acque della morte, dai torrenti di Belial, dalle reti dello shéol (Sal 18, 5 s; 69, 15 s; 116, 3; Gn 2, 4-7). La morte e lo shéol non sono quindi soltanto realtà dell'al di là; sono potenze in azione quaggiù - e guai a chi cade sotto i loro artigli! che è infine la vita, se non una lotta angosciosa dell'uomo alle prese con la morte?

 

II. SENSO DELLA MORTE

 

1. Origine della morte. - Poiché l'esperienza della morte risveglia nell'uomo simili risonanze, è impossibile ridurla ad un semplice fenomeno naturale di cui l'osservazione oggettiva esaurirebbe tutto il contenuto. La morte non può essere spogliata di significato. Contraddicendo con violenza al nostro desiderio di vivere, essa pesa su di noi come un castigo; perciò, istintivamente, vediamo in essa la sanzione del peccato. Di questa intuizione comune alle religioni antiche, il VT fa una ferma dottrina che sottolinea il significato religioso di un'esperienza amarissima: la giustizia vuole che l'empio perisca (Gb 18,5-21; Sal 37,20.28.36; 73,27); l'anima che pecca deve morire (Ez 18,20).

Ora questo principio fondamentale illumina già il fatto enigmatico della presenza della morte quaggiù: all'origine, la sentenza di morte non è stata pronunziata contro gli uomini se non dopo il peccato di Adamo, nostro primo padre (Gen 2,17; 3,19). Dio infatti non ha creato la morte (Sap 1, 13); aveva Creato l'uomo per l'incorruttibilità, e la morte non è entrata nel mondo che per l'invidia del demonio (Sap 2, 23 s). Il potere che essa ha su di noi riveste quindi un valore di segno: manifesta la presenza del peccato in terra.

 

2. La via della morte. - Una volta scoperto questo legame tra il peccato e la morte, tutto un aspetto della nostra esistenza rivela il suo vero volto. Non soltanto il peccato è un male perché è contrario alla nostra natura ed alla volontà divina; ma inoltre è per noi, concretamente, la « via della morte ». Tale è l'insegnamento dei sapienti: chi persegue il male va verso la morte (Prov 11, 19); chi si lascia sedurre dalla signora follia, cammina verso le valli dello shéol (7, 27; 9, 18). Già gli inferi dilatano la loro gola per inghiottire i peccati (Is 5, 14), Come Korakh ed i suoi seguaci che vi discesero vivi (Nm 16,30 ...; Sal 55, 16). L'empio è quindi su una strada sdrucciolevole (Sal 73, 18 s). Virtualmente è già un morto, perché con la morte ha fatto un patto ed è caduto in suo potere (Sap 1, 16); perciò la sua sorte finale sarà di diventare un oggetto di obbrobrio tra i morti, in eterno (Sap 4, 19). Questa legge del governo provvidenziale non è senza ripercussioni pratiche nella vita di Israele: i colpevoli dei peccati più gravi devono essere puniti di morte (Lv 20, 8-21; 24, 14-23). Nel caso dei peccatori la morte è quindi qualcosa di diverso da un destino naturale: privazione del bene più caro che Dio abbia dato all'uomo, la vita, essa prende l'aspetto di una dannazione-

 

3. L'enigma della morte dei giusti. - Ma che dire allora della morte dei giusti? Che i peccati di un padre siano puniti con la morte dei suoi figli, è ancora in certo modo comprensibile, se si tiene Conto della solidarietà umana (2 Sam 12,14 ...; cfr. Es 20, 5). Ma se è vero che ciascuno paga per se stesso (cfr. Ez 18), come giustificare la morte degli innocenti? Apparentemente Dio fa perire allo stesso modo il giusto ed il colpevole (Gb 9, 22; Qo 7, 15; Sal 49, 11): la loro morte ha ancora un senso? Qui la fede del VT urta contro un enigma. Per risolverlo, bisognerà che si chiarisca il mistero dell'al di là.

 

III. LA LIBERAZIONE DALLA MORTE

 

1. Dio salva l'uomo dalla morte. - Non è in potere dell'uomo salvare se stesso dalla morte: occorre la grazia di Dio, che solo è per natura il vivente. Quando perciò il potere della morte si manifesta sull'uomo, in qualsiasi modo, egli non può che rivolgere a Dio un appello (Sal 6, 5; 13, 4; 116, 3). Allora, se è giusto, può nutrire la speranza che Dio « non abbandonerà la sua anima allo shéol » (Sal 16, 10), « libererà la sua anima dagli artigli dello shéol » (Sal 49, 16). Una volta guarito o salvato dal pericolo, renderà grazie a Dio per averlo liberato dalla morte (Sal 18, 17; 30; Gen 2, 7; Is 38, 17), perché appunto di una tale liberazione avrà fatto l'esperienza concreta. Ancor prima che le prospettive della sua fede abbiano superato i limiti della vita presente, egli saprà così che la potenza divina prevale su quella della morte e dello shéol: primo germe di una speranza che si evolverà infine in una prospettiva di immortalità.

 

2. Conversione e liberazione dalla morte. - Questa liberazione dalla morte nella cornice della vita presente Dio d'altronde non l'accorda in modo capriccioso. Occorrono strette condizioni. Il peccatore muore per il suo peccato; e Dio non trova gusto nella sua morte: preferisce che si converta e viva (Ez 8, 33; 33, 11). Se con la malattia egli pone l'uomo in pericolo di morte, lo fa per correggerlo: una volta che si sarà convertito dal suo peccato, Dio lo strapperà alla fossa infernale (Gb 33,19-30). Di qui l'importanza della predicazione profetica che, invitando l'uomo a convertirsi, cerca di salvare la sua anima dalla morte (Ez 3,18-21; cfr. Gc 5, 20). Lo stesso vale per l'educatore che corregge il bambino per ritrarlo dal male (Pr 23, 13 s). Dio solo libera gli uomini dalla morte, ma non senza una cooperazione umana.

 

3. La liberazione definitiva dalla morte. - Tuttavia la speranza di essere liberati dalla morte sarebbe vana se non superasse i confini della vita terrena; di qui l'angoscia di Giobbe ed il pessimismo dell'Ecclesiaste. Ma, in epoca tarda, la rivelazione del VT vede più lontano. Annunzia un trionfo supremo di Dio sulla morte, una liberazione definitiva dell'uomo strappato al suo potere. Quando instaurerà il suo regno escatologico, Dio distruggerà per sempre questa morte che non aveva fatta alle origini (Is 25, 8). Allora, per partecipare al suo regno, i giusti che dormono nella polvere degli inferi risusciteranno per la vita eterna, mentre gli altri rimarranno nell'eterno orrore dello shéol (Dn 12, 2; cfr. Is 26, 19). In questa nuova prospettiva gli inferi finiscono per diventare il luogo della dannazione eterna, il nostro inferno. Viceversa, l'oltretomba si illumina. Già i salmisti formulavano la speranza che Dio li avrebbe liberati per sempre dal potere dello shéol (Sal 16, 10; 49, 16). Questo desiderio diventa ora realtà. Al pari di Enoch rapito senza aver visto la morte (Gen 5, 24; cfr. Eb 11, 4), i giusti saranno rapiti dal Signore che li prenderà nella sua gloria (Sap 4,7 ...; 5, 1-3. 15). Perciò, già in terra, la loro speranza è piena d'immortalità (Sap 3, 4). Ci si spiega come, animati da una simile fede, i martiri dei tempi maccabaici abbiano potuto affrontare eroicamente il supplizio (2 Mac 7, 9. 14. 23. 33; cfr. 14, 46) mentre Giuda Maccabeo, nello stesso pensiero, inaugurava la preghiera per i morti (2 Mac 12, 43 ss). Più che la vita presente, conta ormai la vita eterna.

 

4. Fecondità della morte dei giusti. - D'altronde la rivelazione, ancor prima di aprire a tutti simili prospettive, aveva illuminato di nuova luce l'enigma della morte dei giusti, attestandone la fecondità. Il fatto che il giusto per eccellenza, il servo di Yahvé, sia colpito a morte e « strappato via dalla terra dei viventi », non è privo di significato: la sua morte è un sacrificio espiatorio offerto volontariamente per i peccati degli uomini; con essa si compie il disegno di Dio (Is 53, 8-12). Si svela così in anticipo il tratto più misterioso dell'economia della salvezza, che la storia di Gesù porrà in atto.

 

NUOVO TESTAMENTO

 

Nel NT le linee maestre della rivelazione precedente convergono verso il mistero della morte di Cristo. Qui tutta la storia umana appare come un gigantesco dramma di vita e di morte: fino a Cristo e senza di lui,.c'era il regno della morte; Cristo viene e, con la sua morte, trionfa della morte stessa; da questo istante la morte cambia senso per la nuova umanità che muore con Cristo per vivere con lui eternamente.

 

I. IL REGNO DELLA MORTE

 

1. Richiamo alle origini. - Il dramma ha avuto inizio alle origini. Per la colpa di un solo uomo, il primo padre del genere umano, il peccato è entrato nel mondo, e con il peccato la morte (Rm 5, 12. 17; 1 Cor 15, 21). Da allora tutti gli uomini « muoiono in Adamo » (15, 22), cosicché la morte regna sul mondo (Rm 5, 14). Questo sentimento della presenza della morte, che il VT esprimeva in modo così forte, corrispondeva dunque ad una realtà oggettiva, e dietro il regno universale della morte si profila quello di Satana, il « principe di questo mondo », « omicida » fin dall'origine (Gv 8,44).

 

2. L'umanità sotto il potere della morte. - Ciò che conferisce forza a questo potere della morte è il peccato: esso è il « pungiglione della morte » (1 Cor 15, 56 = Os 13, 14), perché la morte è il suo frutto, il suo termine, il suo salario (Rm 6, 16.21. 23). Ma lo stesso peccato ha nell'uomo un complice: la concupiscenza (7, 7); essa fa nascere il peccato, che a sua volta genera la morte (Gc 1, 15); in altre parole: la carne è quella il cui desiderio è la morte e che fruttifica per la morte (Rm 7, 5; 8, 6); con ciò il nostro corpo, creatura di Dio, è diventato « corpo di morte » (7, 24). Invano, nel dramma del mondo, la legge è entrata in scena per opporre una barriera a questi strumenti della morte che operano in noi; il peccato ne ha preso occasione per sedurci e procurarci più sicuramente la morte (7, 7-13). Dando la conoscenza del peccato (3,20) senza la forza di trionfarne, condannando inoltre il peccatore a morte in modo esplicito (cfr. 5, 13 s), la legge è diventata « la forza del peccato » (1 Cor 15, 56). Perciò il ministero di questa legge, in se stessa santa e spirituale (Rm 7, 12. 14), ma semplice lettera che non conferiva la potenza dello Spirito, è stato di fatto un ministero di morte (2 Cor 3,7). Senza Cristo l'umanità era quindi immersa nell'ombra della morte (Mt 4,16; Lc 1, 79; cfr. Is 9, 1); perciò la morte fu, in ogni tempo, una delle componenti della sua storia, e rimane una delle calamità che Dio invia sul mondo peccatore (Ap 6, 8; 8, 9; 18, 8). Di qui il carattere tragico della nostra condizione: per sé, noi siamo abbandonati senza remissione al potere della morte. Come potrà quindi realizzarsi nei fatti la prospettiva di speranza dischiusa dalle Scritture?

 

II. IL DUELLO TRA CRISTO E LA MORTE

 

1. Cristo assume la nostra morte. - Le promesse delle Scritture si realizzano grazie a Cristo. Per liberarci dal potere della morte, egli ha voluto anzitutto far sua la nostra condizione mortale. La sua morte non è stata un caso. Egli l'ha annunziata ai discepoli per prevenire lo scandalo che poteva suscitare in loro (Mc 8, 31 par.; 9, 31 par.; 10, 34 par.; Gv 12, 33; 18, 32); l'ha desiderata come il battesimo che lo avrebbe immerso nelle acque infernali (Lc 12, 50; Mc 10, 38; cfr. Sal 18,5). Se si è turbato dinanzi ad essa (Gv 12, 27; 13, 21; Mc 14, 33 par.), come si era turbato dinanzi al sepolcro di Lazzaro (Gv 11, 33. 38), se ha supplicato il Padre che lo poteva preservare dalla morte (Eb 5, 7; Lc 22, 42; Gv 12, 27), ha infine accettato questo calice amaro (Mc 10, 38 par.; 14, 30 par.; Gv 18, 11). Per fare la volontà del Padre (Mc 14, 36 par.), è stato « obbediente sino alla morte » (Fil 2, 8). E questo perché era necessario che egli « compisse le Scritture » (Mt 26, 54): non era forse egli stesso il servo annunziato da Isaia, il giusto annoverato tra i malfattori (Lc 22, 37; cfr. Is 53, 12)? Effettivamente, quantunque Pilato non abbia trovato in lui nulla che meritasse la sentenza capitale (Lc 23, 15. 22; At 3, 13; 13, 28), egli accettò che la sua morte avesse l'apparenza di un castigo richiesto dalla legge (Mt 26, 66 par.). E questo perché, « nato sotto la legge » (Gal 4, 4) ed avendo preso « una carne simile alla Carne di peccato » (Rm 8, 3), era solidale con il suo popolo e con tutta la razza umana. « Dio l'aveva fatto peccato per noi » (2 Cor 5, 21; cfr. Gal 3, 13), per modo che il castigo meritato dal peccato umano doveva ricadere su di lui. Perciò morendo tolse ogni potere al peccato (Rom 6, 10): benché innocente, assunse sino alla fine la condizione dei peccatori, « gustando la morte » come essi tutti (Eb 2, 8 s; cfr. 1 Ts 4, 14; Rm 8, 34) e discendendo con essi « agli inferi »- Ma recandosi così « dai morti », egli apportava la buona novella che la vita sarebbe stata loro restituita (1 Pt 3, 19; 4, 6).

 

2. Cristo muore per noi. - Di fatto la morte di Cristo era feconda, come la morte del granello di frumento gettato nel solco (Gv 12, 24-32). Imposta apparentemente come un castigo del peccato, essa in realtà era un sacrificio espiatorio (Eb 9; cfr. Is 53, 10). Cristo, realizzando alla lettera, ma in altro senso, la profezia involontaria di Caifa, è morto « per il popolo » (Gv 11, 50 s; 18,14) e non soltanto per il suo popolo, ma « per tutti gli uomini » (2 Cor 5, 14 s). È morto « per noi » (1 Ts 5, 10), mentre eravamo peccatori (Rom 5, 6 ss), dandoci in tal modo il segno supremo di amore (5,7; Gv 15,13; 1 Gv 4, 10). Per noi: non al nostro posto, ma a nostro beneficio; infatti, morendo « per i nostri peccati » (1 Cor 15, 3; 1 Pt 3, 18), Ci ha riconciliati con Dio mediante la sua morte (Rm 5, 10) cosicché possiamo ricevere 1'eredità promessa (Eb 9, 15 s).

 

3. Cristo trionfa della morte. - Donde viene che la morte di Cristo abbia potuto avere questa efficacia salutare? Dal fatto che, avendo affrontato la vecchia nemica del genere umano, ne ha trionfato- Già durante la sua vita trasparivano i segni di questa vittoria futura, quando richiamava i morti alla vita (Mt 9, 18-25 par.; Lc 7, 14 s; Gv 11): nel regno di Dio che egli inaugurava, la morte indietreggiava dinanzi a colui che era « la risurrezione e la vita » (Gv 11,25). Infine, l'ha affrontata nel suo stesso regno, e l'ha vinta nel momento in cui essa credeva di vincerlo- Negli inferi egli è penetrato da padrone per uscirne a suo piacere, « avendo ricevuto la chiave della morte e dell'Ade » (Ap l, 18). E poiché aveva sofferto la morte, Dio lo ha coronato di gloria (Eb 2, 9). Si è realizzata per lui la risurrezione dei morti annunziata dalle Scritture (1 Cor 15, 4); egli è diventato « il primogenito di tra i morti » (Col l, 18; Ap l, 5). Ora, « liberato da Dio dagli orrori dell'Ade » (At 2, 24) e dalla corruzione infernale (At 2, 31), è chiaro che la morte ha perso su di lui ogni potere (Rm 6, 9); per ciò stesso, colui che aveva il potere della morte, cioè il demonio, si è visto ridotto all'impotenza (Eb 2, 14). Fu il primo atto della vittoria di Cristo. « La morte e la vita si affrontano in un duello prodigioso. Il Signore della vita mori; vivo, regna » (Sequenza di Pasqua).

A partire da questo momento fu mutato il rapporto fra gli uomini e la morte; infatti Cristo vincitore illumina ormai « coloro che sedevano nell'ombra della morte » (Lc 1, 79); li ha liberati da quella « legge del peccato e della morte » di cui fino allora erano schiavi (Rm 8, 2; cfr. Eb 2,15). Infine, al termine dei tempi, il suo trionfo avrà una splendida consumazione nella risurrezione universale. Allora la morte sarà distrutta per sempre, « ingoiata nella vittoria » (1 Cor 15, 26. 54 ss). Infatti la morte e l'Ade dovranno allora restituire le loro prede, dopo di che saranno gettati con Satana nel lago di fuoco e di zolfo, il che è la seconda morte (Ap 20, 10. 13 s). Tale sarà il trionfo finale di Cristo: « O morte, sarò la tua morte; inferno, sarò il tuo morso » (Antifona delle Lodi del Sabato Santo).

 

III. IL CRISTIANO DINANZI ALLA MORTE

 

1. Morire con Cristo. - Cristo, prendendo la nostra natura, non ha soltanto assunto la nostra morte per farsi partecipe della nostra condizione di peccatori. Capo della nuova umanità, nuovo Adamo (1 Cor 15,45; Rm 5, 14), egli ci conteneva tutti in sé quando è morto sulla croce. Per tale fatto, nella sua morte, « tutti sono morti » in certo modo (2 Cor 5, 14). Tuttavia bisogna che questa morte diventi una realtà effettiva per ciascuno di essi. Questo è il senso del battesimo, la cui efficacia sacramentale ci unisce a Cristo in croce: « battezzati nella morte di Cristo », siamo «sepolti con lui nella morte », « Configurati alla sua morte » (Rm 6, 3 ss; Fil 3, 10). Ormai siamo dei morti, la cui vita è nascosta in Dio con Cristo (Col 3, 3). Morte misteriosa, che è l'aspetto negativo della grazia di salvezza. Infatti, ciò a cui in tal modo moriamo, è tutto l'ordine delle cose per mezzo del quale il regno della morte si manifestava quaggiù: moriamo al peccato (Rm 6,11), all'uomo vecchio (6, 6), alla carne (1 Pt 3, 18), al corpo (Rm 6, 6; 8, 10), alla legge (Gal 2,19), a tutti gli elementi del mondo (Col 2,20).-.

 

2. Dalla morte alla vita. - Questa morte con Cristo è quindi, in realtà, una morte alla morte. Quando eravamo prigionieri del peccato, proprio allora eravamo morti (Col 2, 13; cfr. Ap 3, 1). Ora siamo dei vivi, « risorti da morte » (Rm 6, 13) e «liberati dalle opere morte » (Eb 6, 1; 9, 14). Come ha detto Cristo: chi ascolta la sua parola, passa dalla morte alla vita (Gv 5, 24); Chi crede in lui, non ha nulla da temere dalla morte: quand'anche fosse morto, vivrà (Gv 11, 25). Tale è la posta della fede. Viceversa, colui che non crede, morrà nei suoi peccati (Gv 8, 21. 24), il profumo di Cristo diventa per lui odore di morte (2 Cor 2, 16). Il dramma dell'umanità alle prese con la morte si svolge così nella vita di ciascuno; dalla nostra scelta dinanzi a Cristo ed al vangelo dipende per noi la sua conclusione: per gli uni, la vita eterna perché, dice Gesù, « chi osserva la mia parola non vedrà mai la morte » (Gv 8, 51); per gli altri, l'orrore della « seconda morte » (Ap 2, 11; 20, 14; 21, 8).

 

3. Morire ogni giorno. - Tuttavia la nostra unione alla morte di Cristo, realizzata sacramentalmente nel battesimo, dev'essere ancora attualizzata nella nostra vita di tutti i giorni. Questo è il senso dell'ascesi, mediante la quale « mortifichiamo », cioè: « facciamo morire » in noi le opere del corpo (Rm 8, 13), le nostre membra terrene con le loro passioni (Col 3, 5). Questo è pure il senso di tutto ciò che manifesta in noi la potenza della morte naturale; infatti la morte ha mutato senso dopo che Cristo ne ha fatto uno strumento di salvezza. Se l'apostolo di Cristo, nella sua debolezza, appare agli uomini come un morente (2 Cor 6, 9), se è continuamente in pericolo di morte (Fil 1, 20; 2 Cor 1, 9 s; 11, 23), se « muore ogni giorno » (1 Cor 15, 31), ciò non costituisce più un segno di sconfitta: egli porta in sé la mortalità di Cristo, affinché la vita di Gesù si manifesti pure nel suo corpo; è consegnato alla morte a motivo di Gesù, perché la vita di Gesù sia manifestata nella sua carne mortale; quando la morte compie la sua opera in lui, la vita opera nei fedeli (2 Cor 4, 10 ss). Questa morte quotidiana attualizza quindi quella di Gesù e ne prolunga la fecondità nel suo corpo che è la Chiesa.

 

4. Dinanzi alla morte corporale. - Nella stessa prospettiva la morte corporale assume per il cristiano un nuovo senso. Non è più soltanto un destino inevitabile al quale ci si rassegna, un decreto divino che si accetta, una condanna in cui si incorre per effetto del peccato. Il cristiano « muore per il Signore » come aveva vissuto per lui (Rm 14, 7 s; cfr. Fil 1, 20). E se muore martire di Cristo, versando il suo sangue in testimonianza, la sua morte è una libagione che ha valore di sacrificio agli occhi di Dio (Fil 2, 17; 1 Tm 4, 6). Questa morte, mediante la quale egli « glorifica Dio » (Gv 21, 19), gli merita la corona di vita (Ap 2, 10; 12, 11). Da necessità angosciosa essa è quindi diventata oggetto di beatitudine: « Beati Coloro che muoiono nel Signore! Si riposino ormai dalle loro fatiche! » (Ap 14, 13). La morte dei giusti è un ingresso nella pace (Sap 3, 3), nel riposo eterno, nella luce senza fine. Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis! La speranza di immortalità e di risurrezione che si faceva strada nel VT ha trovato ora, nel mistero di Cristo, la sua salda base. Infatti, non soltanto l'unione alla sua morte ci fa vivere attualmente di una vita nuova, ma ci dà la sicurezza che « colui che ha risuscitato Cristo Gesù di tra i morti, darà pure la vita ai nostri Corpi mortali » (Rm 8, 11). Allora, con la risurrezione, entreremo in un mondo nuovo dove « non ci sarà più morte » (Ap 21, 4); o meglio, per gli eletti risorti con Cristo, non ci sarà « seconda morte » (Ap 20,6; cfr. 2,11): questa sarà riservata ai reprobi, al demonio, alla morte, all'Ade (Ap 21, 8; cfr. 20, 10. 14). Perciò, per il cristiano, morire è in definitiva un guadagno, perché Cristo è la sua vita (Fil 1,21). La condizione presente, che lo lega al suo corpo mortale, è per lui opprimente: preferirebbe lasciarla per andare a dimorare presso il Signore (2 Cor 5,8); ha fretta di indossare la veste di gloria dei risorti, affinché ciò che c'è in lui di mortale sia assorbito dalla vita (2 Cor 5, 1-4; cfr. 1 Cor 15, 51-53). Desidera andarsene per essere Con Cristo (Fil 1,23).

 P. GRELOT


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14 febbraio 2015                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net