MONACHESIMO E ORDINI MENDICANTI

Luigi Pellegrini

 

Estratto da “IL MONACHESIMO ITALIANO NELL’ETA’ COMUNALE

ITALIA BENEDETTINA XVI

CESENA – BADIA DI SANTA MARIA DEL MONTE 1998

 

Duo novae conversationis ordines in provincia et praecipue in ipsa civitate Magdeburgensi haberi coeperunt, unus eorum, qui sanctos Praedicatores se nominat, alter eorum, qui Minores frates appellantur; de quibus ferunt, quod ante hoc tempus viginti annis instituti et ab Innocentio papa fuerint confirmati. Et prior quidem clericorum tantum est; sequens vero et clericos et laicos recipit, quem dicunt ab institore quodam initium accepisse. Quid autem est huismodi novitatis introductio, nisi quaedam exprobratio neglectae et otiosae conversationis eorum, qui in ordinibus constituti sunt, in quibus Ecclesia primitus est fundata? Denique beatissimus Augustinus et Benedictus, qui ita docuerunt ut vixerunt, ad quantum sanctitatis culmen ex sua conversatione pervenerint, notum est, quorum praeceptis si quis oboedientiam servare voluerit, nullis novis institutionibus videbitur indigere. Nam si eisdem novis institutionibus sanctitas quaeritur, illa posset sufficere ad quam praedicti patres sanctissimi secundum suas vivendo regulas pervenerunt. Non enim facile credi potest, quod quisquam vel ex ordine sanctorum Praedicatorum vel Minorum Fratrum Augustino vel Benedicto sanctior sit futurus. Absit autem, ut quorumdam bonis studiis derogando haec dixerim, sed quia dolendum et valde dolendum est, quod primitivi ordines ex eorum, qui eosdem professi sunt, inordinata conversatione ad tantum deducti sunt contemptum, ut saeculo renuntiare volentibus ad salutem sufficere non credantur. Si enim posse sufficere putarentur, numquam novi alii qaererentur.

Due ordini che presentano un nuovo modo di vita religiosa cominciarono a stabilirsi nella provincia, soprattutto nella città di Magdeburgo. Uno di loro era chiamato dei Santi Predicatori; l'altro, dei Frati Minori. Si dice che sono stati fondati circa venti anni prima di questo tempo e sono stati confermati da Papa Innocenzo. Il primo di questi è formato soltanto da chierici; il secondo riceve sia chierici che laici, e si dice che iniziò con un commerciante. Ma perché sono state introdotte queste novità, se non come una sorta di rimprovero contro il modo trascurato e indolente della vita religiosa di quelli (di noi) che vivono in ordini su cui la Chiesa fu fondata? In realtà, i benedetti Agostino e Benedetto hanno vissuto come hanno insegnato ed è noto a quali grandi altezze di santità essi sono saliti vivendo il loro modo di vita religiosa. Certo, se qualcuno avesse la volontà di seguire docilmente i loro precetti, sembrerebbe non aver bisogno di nessuna nuova istituzione. Perché se queste nuove istituzioni sono alla ricerca della santità, allora la santità alla quale i due padri santissimi sono arrivati vivendo secondo le loro regole dovrebbe essere sufficiente. Non è facile credere che chiunque proveniente dall'Ordine dei Santi Predicatori o dall’Ordine dei Frati Minori diventerà più santo di Agostino o Benedetto! Ora lungi da me, quando dico queste cose, dal voler screditare gli sforzi zelanti di nessuno. Ma io dico che bisogna deplorare, sì, vigorosamente deplorare, il fatto che gli antichi ordini sono stati condotti in tale discredito dal modo disordinato della vita di coloro che li professano, tanto che essi non sono più ritenuti sufficienti per la salvezza da coloro che desiderano rinunciare al mondo. Infatti, se fossero ancora considerati sufficienti, non ne sarebbero mai stati cercati di nuovi. (libera traduzione dal latino: N.d.R.)

 

Così nel 1224 annotava l’arrivo a Magdeburgo di minori e predicatori il cronista della canonica regolare di Petersberg (Chronicon Montis Sereni, edidit E. Ehrenfeuchter, in MGH, SS, 23, Hannoverae 1876, p. 220-221).

L’impressione forte della novitas dei due conversationis ordines dà corpo, anzi enfasi alla notizia e, ben al di là di una semplice e secca registrazione cronachistica, impegna il cronista in una riflessione sul significato stesso della vita religiosa. Le sue annotazioni sembrano dar voce alla reazione degli ambienti monastici tradizionali all’apparire dei mendicanti in forma ormai strutturata di comunità religiosa. L’amara presa d’atto della decadenza delle comunità monastiche è resa più acuta dalla consapevolezza del ruolo fondamentale nella chiesa svolto in tempi purtroppo passati e dalla convinzione della perfezione insuperabile delle « forme di vita dei beatissimi Agostino e Benedetto». La concorrenza dei nuovi ordini religiosi nella capacità di reclutamento appare ormai insostenibile, altra constatazione amara di una situazione alla quale sembra che l’unico rimedio sarebbe il ritorno all’antica disciplina monastica; ma pare che il cronista lo avverta come chimera. Non resta dunque che prendere atto dell’alternativa proposta dalla novitas della vita mendicante.

Purtroppo le fonti monastiche italiane non registrano, che io sappia, particolari reazioni in proposito per quegli anni. Si cominciano ad avere dei riscontri quando ormai i due nuovi ordini religiosi nel loro processo evolutivo hanno assorbito più di un elemento dall’organizzazione monastica e soprattutto quando la canonizzazione ufficiale e solenne ha ormai fatto assurgere i due fondatori tra i grandi protagonisti della santità e della vicenda storica della chiesa. Bisogna attendere che l’autore del Chronicon Marchine Tarvisinae et Lombardiae, o Annales S. Iustinae, attorno agli anni settanta del secolo, sottolinei il molo profetico nella chiesa e nel mondo dei due nuovi ordini religiosi e dei loro fondatori, o che il monaco di Vallingegno presso Gubbio, autore della cosiddetta Legenda de passione s. Verecundi, nella seconda metà del secolo XIII registri con compiacimento l’accoglienza cordiale riservata da quella comunità monastica a Francesco, l’ospitalità offerta al « capitolo dei [suoi] primi trecento frati» e altri racconti che hanno lo scopo di evidenziare come il giovane e ormai affermato ordine religioso sia sorto e si sia sviluppato grazie alla cordiale disponibilità dei monaci di S. Verecondo nei confronti dei primi francescani.

E appunto nei decenni centrali del sec. XIII che l’attenzione a questo nuovo fenomeno della vita religiosa si va diffondendo tra i cronisti monastici nelle varie regioni d’Europa: si pensi per la Germania ai premonstratensi, Burcardo di Ursperg e Aimone di Witterwierum, al cronista benedettino di Ebersmünster (Ebersheim), al cistercense Cesario di Heisterbach, per l’area francese al benedettino Richerio di Sens, al cistercense Alberico des Trois Fontaines, si pensi ai due cronisti dell’abbazia inglese di S. Albans, Ruggero di Wendover e Matteo Paris. I toni e gli accenti che assumono i riferimenti monastici al fenomeno mendicante man mano che le due nuove istituzioni religiose si vanno consolidando evidenziano una singolare capacità di cogliere con notevole senso storico il progressivo diversificarsi dei due organismi religiosi rispetto alle caratteristiche che ne avevano connotato le origini. Si va dagli atteggiamenti iniziali di cauta riserva, pur nel dovuto riconoscimento della positività della nuova esperienza, come fanno appunto il cronista di Petersberg e Cesario di Heisterbach, o dall’atteggiamento di incondizionata ammirazione, alla segnalazione della difformità, o addirittura dello stridente contrasto nei confronti dell’evangelica semplicità delle origini: si pensi alle puntuali osservazioni di Matteo Paris a proposito delle progressive trasformazioni delle sedi e delle modalità di vita dei frati minori, o ai rapidi, ma significativi rilievi di Richerio di Sens a proposito dell’allentamento della tensione originaria sia presso i predicatori, che presso i minori; si giunge anche a denunziare le tendenze devianti dall’ortodossia da parte di qualche membro dei nuovi ordini religiosi, come fa Alberico des Trois Fontaines. Qualunque sia l’atteggiamento dei cronisti, non v’è dubbio che la singolarità di questa forma di vita religiosa e il suo successo nella società e nella chiesa dell’epoca colpirono l’ambiente monastico transalpino e meritarono « l’onore delle cronache », che accompagnò il fenomeno dal suo primo apparire alla sua più matura espressione.

La constatazione della relativa ricchezza di riferimenti ai due nuovi ordini religiosi presso i cronisti monastici d’oltralpe suscita in noi più di una curiosità a proposito dell’accoglienza riservata ai nuovi ordini dal mondo monastico al di qua delle Alpi. Per cogliere indicazioni sulle reazioni nei confronti di una forma di vita religiosa, che si presentava come alternativa e senz’altro fortemente concorrente rispetto all’esperienza religiosa del monachesimo tradizionale, e per evidenziare, ciò che più conta in questa sede, momenti e modalità di rapporto risulterebbero preziose tali annotazioni cronachistiche: fenomeni ed eventi vengono segnalati in base all’importanza che il cronista vi annette; le riflessioni e i commenti e, quando il cronista si attenga alla scarna registrazione, il tono stesso della segnalazione evidenziano l’impatto emotivo, più o meno razionalizzato, e la risonanza che il fenomeno registrato ha nell’ambiente, di cui il cronista si fa portavoce. Ma, come è noto, la grande vena della storiografia monastica, che in Italia tra secolo XI e XII aveva offerto i suoi più numerosi e validi prodotti, sembra esaurirsi nei due secoli successivi. Il Chronicon Marchiae Tarvisinae et Lombardiae, redatto nel monastero padovano di S. Giustina, rappresenta forse l’unica, significativa eccezione, accanto ad opere di ben minor rilievo e respiro, come appunto la Passio s. Verecundi e il Chronicon del monastero di S. Michele di Tivoli, che ci dà la prima segnalazione dell’insediamento minoritico nella cittadina laziale. Segno anche questo di un declino dell’istituzione monastica in area italiana, fenomeno che non va certo né generalizzato né assolutizzato - le notevoli eccezioni di area veneta, specificamente del Padovano e del Trevigiano ne rappresenterebbero un’eloquente smentita - ma di cui non si può non prendere atto. Sembra in proposito molto realistica l’osservazione del cronista francescano Salimbene: «Ordo s. Benedicti, quantum ad monachos nigros, longe melius servatur in partibus ultramontanis quam in partibus Italicis » : la ben diversa vitalità della produzione storiografica in ambiente monastico nelle due aree geografiche dell’Europa del secolo XIII è in proposito fenomeno rivelatore. L’osservazione del cronista francescano appare del resto molto realistica anche nel circoscrivere la crisi ai monaci nigri, benché le ancor vivaci congregazioni dei vallombrosani, dei certosini e dei pulsanesi diano ormai più di un segno di declino, di cui beneficeranno, e lo si vedrà, i nuovi ordini mendicanti, anche per quanto riguarda i complessi insediativi. Anche alcuni dei compiti precedentemente assunti dai cistercensi passeranno, per iniziativa convergente del papato e dei nuovi movimenti religiosi maschili e femminili, agli ordini mendicanti, nonostante che in più di un caso tentassero di sottrarvisi.

Dobbiamo dunque concepire i mendicanti come un fenomeno di netta frattura con le tradizionali modalità di vita e organizzazione religiosa, che viene a soppiantare il vecchio monachesimo? In tale linea interpretativa sembra collocarsi l’autocoscienza storica del maturo movimento mendicante, soprattutto nelle più consapevoli, e in qualche caso radicalizzate espressioni di provenienza minoritica, dove appaiono funzionali a una forte sottolineatura della novitas mendicante in genere, e francescana in specie, le reinterpretazioni e i più o meno abili adattamenti, in chiave autoapologetica, della rilettura della storia proposta da Gioacchino da Fiore. Anche se non v’è dubbio che presso gli autori più accorti, come un Bonaventura da Bagnorea, sia vivo il senso della continuità di una vicenda storica, di cui i novissima tempora, i novissimi dies appaiono sì come avvio di una nuova e definitiva era, ma anche come logica conclusione di alcune fra le più positive premesse rappresentate dalle migliori esperienze religiose delle epoche precedenti. D’altra parte sono spesso gli stessi autori monastici a sottolineare come i duo novi ordines rispondano a una ricerca religiosa che si colloca su una linea diversa, o addirittura alternativa rispetto alle modalità ormai consolidate anche presso le più recenti forme di vita monastica. E’ del resto perfino superfluo ribadire in questa sede come soprattutto le scelte originarie dei francescani abbiano ben poco a che vedere con le strutture monastiche: si pongono piuttosto sulla linea dei movimenti religiosi laici attratti e stimolati dalla provocazione evangelica. Appaiono estranee a tale linea anche quelle che comunemente, e giustamente, sono state individuate come « anticipazioni » delle modalità di vita che saranno caratteristiche dei mendicanti, ivi comprese la rinuncia a ogni genere di proprietà e le modalità per procacciarsi i mezzi di sussistenza, come pure l’impegno in attività pastorali, o in ruoli collegati alla politica ecclesiastica del papato.

È un cronista canonico regolare a cogliere con intelligenza storica lo stretto rapporto tra le origini istituzionali dei due nuovi ordini religiosi sotto l’egida del pontificato di Innocenzo III e la richiesta di riconoscimento pontificio da parte dei gruppi religiosi laici, sui quali gravavano precedenti condanne: mi riferisco alla testimonianza, pur discutibile per alcune sostanziali inesattezze, di Burcardo di Ursperg. Il gruppo di Francesco e quello di Domenico (o meglio del suo vescovo, Diego di Osman) possono dunque fruire della favorevole contingenza del nuovo indirizzo impresso alla politica religiosa del papato dall’azione energica ed accorta di Innocenzo III nell’intento di ricondurre entro l’alveo del controllo centrale dell’istituzione ecclesiastica - e quindi, nell’ottica pontificia, dell’ortodossia - il fervido mondo dell’iniziativa religiosa dei laici. Tra i due nuovi ordini religiosi e il papato s’instaura ben presto un forte e assolutamente privilegiato legame di stretto raccordo, di cui è chiaro segno anche la scelta dell’ufficio liturgico secundum ordinem sancte Romane ecclesie: Francesco nel suo Testamentum ribadisce vigorosamente la normativa precisa della Regula in proposito e significativamente ne indica la sua osservanza come segno di ortodossia. L’adozione di tale liturgia curiale romana rappresenta un’innovazione rispetto alla tradizione monastica, che anche nell’elaborazione della liturgia rifletteva una temperie e una concezione « particolaristica » della struttura ecclesiastica, ben diversa rispetto al pensiero e alla pratica ecclesiale che il papato andò elaborando tra i secoli XI e XII e che proprio con Innocenzo III raggiunse la sua più vigorosa espressione. Significativo dei riflessi anche in ambiente monastico della temperie ormai profondamente mutata il fatto che nel secolo successivo la nascente istituzione olivetana decidesse per l’ufficio liturgico secondo il rito romano: una scelta da collegare non tanto, o almeno non soltanto, alla mancanza di codici liturgici monastici, quanto piuttosto al ruolo centralizzatore ormai decisamente assunto dal papato in tutti i settori e aspetti dell’apparato ecclesiastico, ivi compreso lo stretto raccordo tra istituzioni religiose e papato, che aveva avuto precisi riflessi presso le nuove forme di vita religiosa sul piano liturgico, grazie anche alla maggior semplicità e « praticità » della preghiera liturgica invalsa nella curia romana e diffusa in tutto l’occidente ad opera dei mendicanti, soprattutto dei frati minori.

Saranno del resto proprio i mendicanti, sollecitati dagli attacchi dei magistri saeculares di Parigi, a elaborare un’ecclesiologia, che pare estranea alla tradizione monastica, in quanto teorizza una struttura ecclesiastica fondata su un vincolo sacro e intangibile, in forza del quale ogni ruolo, ministero e potere nella chiesa trova nella suprema sollicitudo del pontefice romano la sua fonte e la sua legittimazione. Non v’è dubbio che l’istituto dell’esenzione - almeno per quel tanto che veniva inteso come raccordo diretto con la sede romana, capace di superare, per non dire annullare, i vincoli di dipendenza dall’autorità ecclesiastica locale in forza della superiore autorità del pontefice romano - potè costituire sul piano pratico, e in parte anche su quello teorico, una premessa a tale teorizzazione. Ma tale istituto, originato e sviluppatosi sulla base di esigenze specifiche dell’istituzione monastica, veniva inteso e praticato in modo diversificato e spesso strumentale. Emblematico in proposito lo scontro che aveva contrapposto, anche sul piano teorico, Callisto II, e poi Onorio II, e Ponzio di Cluny, il quale, sia pur strumentalmente, giunse a rivendicare - stando al racconto del De miraculis di Pietro il Venerabile - la propria dipendenza diretta, come abate di Cluny, da Pietro in cielo e dunque l’illegittimità delle censure sulla sua persona da parte del pontefice romano. Nella grande tradizione monastica vige semmai la consapevolezza del proprio ruolo moralizzatore anche nei confronti della chiesa di Roma e del papato, la citazione di Bernardo di Chiaravalle è qui persino superflua. La profonda diversificazione di atteggiamento nei confronti del papato tra mendicanti e monaci in ambito italiano si evidenzia in occasione dello scontro con Federico II, in cui i mendicanti, nonostante la funzione mediatrice ed equilibratrice di fra Elia, pagarono un duro scotto - e non solo nell’ambito del regno meridionale - per l’appoggio dato a Gregorio IX e Innocenzo IV con decreti di espulsione, confische, condanne anche capitali da parte dell’imperatore, che contestualmente si mostrava munifico protettore delle comunità monastiche, particolarmente dei cistercensi.

La stessa organizzazione dei mendicanti rispecchia del resto una visione rigorosamente unitaria e gerarchizzata della realtà ecclesiastica e anch’essa rappresenta una profonda divaricazione rispetto al mondo monastico, che certamente aveva offerto in proposito qualche notevole anticipazione, da cui i mendicanti avevano preso lo spunto, perfezionandone gli elementi ed erigendoli a sistema organizzativo. Si pensi all’organizzazione centralizzata, quale stabilita dalle Consuetudines Fructuarienses, in forza della quale l’abate generale nomina e depone i responsabili delle comunità locali; si pensi ai capitoli generali, introdotti nel secondo decennio del secolo XII dai cistercensi, fin dalla prima redazione della Carta caritatis, e precisati nelle loro funzioni dalle successive redazioni. Un istituto, quello del capitolo generale, che, come è noto, ebbe molta fortuna nel secolo XII presso gli ordini monastici e canonicali recentemente organizzati o riorganizzati e che aveva assunto fin dalla prima metà del secolo XII un ruolo di primaria importanza nella struttura gerarchica dei certosini. I mendicanti dunque non fecero che rivedere le modalità e le competenze di un istituto già da tempo sperimentato in ambiente monastico, cosi da adattarle alle loro specifiche esigenze organizzative. Anche i capitoli provinciali avevano avuto un notevole precedente in ambiente monastico: le norme in proposito stabilite dal Lateranense IV per tutte le comunità monastiche non fanno che codificare e perfezionare un istituto già sperimentato dai monasteri dell’una o dell’altra provincia ecclesiastica, un istituto che Innocenzo III aveva cercato di diffondere in altre aree, come l’Inghilterra e l’Italia centro-settentrionale ben prima di proporlo come norma generale nel concilio.

Ma il mondo monastico, nonostante tali iniziative di coordinamento, era rimasto sostanzialmente ancorato all’idea di un’ampia autonomia dei singoli monasteri. Anche le tendenze all’organizzazione accentrata, affermatesi man mano che sul ceppo dell’antico monachesimo si andavano costituendo congregazioni o ordini - eloquente l’esempio dei vallombrosani, alle cui Consuetudines peraltro è stato supposto che si sia ispirata la prima legislazione cistercense - e irrobustita presso i cistercensi, premonstratensi e certosini, non intaccava sostanzialmente il regime autonomo dei singoli monasteri. Gli ordini mendicanti si erano invece strutturati fin dall’inizio in organismi unitari. L’evoluzione successiva non pregiudicò certo la compattezza interna, che venne anzi irrobustita attraverso una rigorosa gerarchizzazione, che collegava in un digradare di stretti vincoli di dipendenza il ministro (o priore) generale all’ultimo frate, attraverso i ministri (o priori) provinciali, i custodi responsabili delle sottocircoscrizioni minoritiche all’interno delle singole province e i superiori locali, guardiani o priori. Tale tipo di organizzazione rifletteva certo un’idea fortemente unitaria della struttura sociale ed ecclesiale, concepita in ordine a un suo corretto funzionamento.

I canoni organizzativi della « riforma » della vita religiosa applicati dai mendicanti riflettevano dunque l’ormai compiuto progetto di centralizzazione della società ecclesiastica, soprattutto in Italia. Non a caso il modello organizzativo mendicante trovò più di un riscontro nelle congregazioni monastiche italiane del sec. XIII, come i silvestrini, mentre sulle costituzioni domenicane si modellavano gli statuti degli albi e anche ordini monastici di tradizione ormai secolare, come i cistercensi, subivano in area italiana l’influsso della spiritualità e dell’organizzazione mendicante. Nel secolo successivo saranno gli olivetani a cogliere più di un elemento caratteristico della struttura organizzativa dei mendicanti, ivi compreso il rapporto del singolo monaco con la dirigenza della congregazione - in forza del quale i capitoli generali potevano di volta in volta ristrutturare le singole comunità monastiche - e la fatale attrazione nell’orbita delle attività pastorali. Non v’è dubbio comunque che la struttura centralizzata degli ordini sorti in ambito benedettino fra Due e Trecento risenta fortemente del modello cistercense e premonstratense, con i cui moduli costituzionali è stato dimostrato lo stretto rapporto nella prima normativa silvestrina. La centralizzazione di silvestrini e olivetani, che legava strettamente i singoli monasteri all’abbazia madre, richiama da vicino il modello cistercense e in genere le tipologie specifiche delle aggregazioni monastiche attorno al movimento riformatore diffuso dai grandi centri monastici.

Ben diverso il modello mendicante, strutturato sulla concezione rigorosamente unitaria dei membri appartenenti al corpo dell’ordine. Un’unità che non fa riferimento a un monastero-fondatore, ma a un organismo, il capitolo generale, e al superiore generale espressione di tale organismo che lo ha eletto e che ha il diritto-dovere di controllarne l’operato e, all’occorrenza, di deporlo. Ma più di un elemento di tale modello organizzativo venne assunto dalle nuove congregazioni monastiche e andò a comporsi con gli elementi assunti dalla tradizione monastica. Si pensi al principio innovativo rispetto a tale tradizione, in forza del quale i singoli monaci professavano la loro appartenenza non al monastero, ma all’ordine, il cui capitolo generale aveva autorità di scegliere e trasferire priori locali e monaci dei singoli monasteri, un principio introdotto nella normativa e nella prassi dei silvestrini e codificato nelle costituzioni di Andrea di Giacomo all’inizio del secolo XIV. Una struttura organizzativa che riscontriamo anche nelle costituzioni olivetane risalenti alla metà del secolo XIV.

L’attrazione esercitata dall’impegno pastorale sulle correnti di riforma monastica tra secolo XIII e XIV portò progressivamente a riconsiderare lo statuto e la posizione nell’ambito del monastero di coloro che già in ambiente cistercense nella prima metà del secolo XII venivano chiamati i fratres laici. Alla soluzione del problema del loro ingresso a pieno titolo, pur nella netta differenziazione di ruoli e attività, nella comunità monastica - che rispondeva a precise rivendicazioni, esplicitate a volte anche in modo clamoroso nel corso del secolo XIII - offrirono un modello le soluzioni attuate dagli ordini mendicanti, soprattutto quelle introdotte ad opera dei frati minori, un ordine indiscriminatamente aperto a chierici e laici nel primo trentennio della sua storia, benché in seguito, a partire dalla deposizione di fra Elia nel 1239, risultassero vincenti le tendenze all’emarginazione dei frati laici. Conseguenza questa di un fenomeno che appare caratteristico - e ancora una volta diversificante rispetto all’ambiente monastico - dei mendicanti: il reclutamento massiccio fra i clerici acculturati, e quindi più specificamente nell’ambiente universitario, fin dai primi decenni della storia delle due istituzioni religiose. Un segno anche questo della più incisiva capacità di risposta alle esigenze socio-culturali di un ambiente e di un’epoca.

Mentre una particolare categoria di monaci, i fratres laici appunto, a partire dal secolo XIII andava penetrando all’interno del monastero, attorno a monasteri e conventi degli ordini mendicanti - in uno spazio significativamente chiamato campus, almeno in area veneta, e denominato col titolo della chiesa monastica, canonicale o conventuale - si coagulavano gruppi di laici devoti più o meno organizzati in fraternitates e societates di penitentes. Anche in questo caso i mendicanti subentravano alle più attive e influenti fra le istituzioni monastiche nel costituire un preciso punto di riferimento, anche insediativo, per le fraternitates e societates di laici dediti a una vita, il cui impegno religioso gareggiava con quello dei monaci nelle forme penitenziali di rinuncia, nell’assiduità alla liturgia e alla pratica devozionale e spesso assumeva una sua specificità nelle attività socio-assistenziali di vario tipo, come è documentato per il Vicentino.

A partire dal secondo-terzo decennio del secolo XIII giungono dunque a maturazione le sperimentazioni avviate nel secolo precedente in ambiente monastico per dare nuova linfa all’annoso ceppo della vita religiosa istituzionalizzata, che rischiava di inaridire a causa del radicamento in un terreno, ormai eccessivamente sfruttato e troppo estraniato dal nuovo humus che andava fecondando il vasto campo delle più vivaci aree della società dell’Occidente europeo. Tali sperimentazioni, che pur non riuscirono a salvare dalla crisi le tradizionali forme di vita monastica, si trasformarono in efficaci suggestioni per elaborare nuovi modelli organizzativi della vita religiosa istituzionalizzata dentro e fuori dell’alveo del monachesimo di ispirazione benedettina. A partire dalla prima metà del secolo XIII si fa strada una certa tendenza all’omologazione nelle forme ed esperienze di vita religiosa, ivi comprese le fondazioni di recente istituzione nell’ambiente monastico benedettino in Italia. Un’omologazione che ha come referente i moduli organizzativi e i tipi di attività in base ai quali si era strutturata la tipologia mendicante. Ciò non significa affatto l’appiattimento delle nuove aggregazioni, o degli ordini monastici di recente costituzione, sul modello mendicante. Anzi le antiche aspirazioni alla vita eremitica, che si orienta verso forme associate e normalizzate sulla base della regola benedettina, sembrano riprendere nuovo vigore e strutturarsi in nuovi e robusti organismi istituzionali: si pensi ai silvestrini e ai celestini. Ma non v’è dubbio che la tipologia mendicante, anche e soprattutto per l’intervento del papato, esercita una forte attrazione anche sulle comunità e congregazioni di stampo eremitico. I gruppi confluiti nella grande unione voluta da Alessandro IV nel 1256 rappresentano solo il più corposo esempio in tale direzione. Tali gruppi erano sorti con intenti e caratteristiche ben diversi rispetto alle originarie scelte mendicanti, e avevano tentato di dare una risposta ad aspirazioni di vita individuale e comunitaria che in qualche modo risultavano alternative nei confronti delle esigenze di impegno religioso nel vivo della società e particolarmente dell’ambiente urbano e colto, più sensibile alle domande religiose di quella società, sulle quali facevano presa i mendicanti per il proprio reclutamento. Le difficoltà della « grande unione », dalla quale scaturirono gli eremitani di s. Agostino, costituiscono di per sé una prova di tale profonda diversità. Anche l’esito della vicenda dei carmelitani, dei servi di Maria, degli apostolici e dei saccati, pur nella varietà dell’impulso originario e della sorte definitiva, confluiscono, come è noto, nel grande filone religioso esemplato sui due primi e maggiori ordini mendicanti.

Del processo di omologazione a cui si è accennato è emblematico il modello di organizzazione territoriale, adottato in modo sistematico e collaudato nei primi decenni della vicenda di minori e predicatori. Non v’è dubbio che tali moduli organizzativi abbiano avuto una notevole anticipazione nelle esperienze di vita e organizzazione monastica avviate nel secolo precedente. Si pensi alle circarie dei premonstratensi, alle camerarie dei cluniacensi, e alle analoghe organizzazioni territoriali degli ordini cavallereschi, le commende. Del resto i successi di tali moduli organizzativi e il loro sviluppo e perfezionamento presso i mendicanti non dovette essere ininfluente allorché il cistercense Benedetto XII, nel suo tentativo di riforma della vita monastica, stabiliva con la Summi magistri del 20 giugno 1336 di raggruppare i monasteri benedettini in trentasei province. In tale ripartizione territoriale non si può non notare una certa analogia con le trentaquattro province dell’ordine minoritico. Il complesso dei monasteri d’Italia venne articolato sulla base delle province ecclesiastiche. Certo i parallelismi non vanno forzati, né va dimenticato che la riforma di Benedetto XII non riproponeva la struttura provinciale quale concepita e attuata dai mendicanti, ma semplicemente un organismo di controllo e di coordinamento, che trovava nei visitatori e soprattutto nel capitolo provinciale con scadenza triennale il suo stesso motivo di essere e il suo momento di massima importanza, come efficace strumento di restaurazione della disciplina nei monasteri delle singole regioni.

Anche la temporaneità della carica di superiore (abate o priore) dei singoli monasteri - introdotta come norma, ormai da decenni presso alcune delle nuove congregazioni monastiche, come quella dei silvestrini e, un decennio prima della Summi magistri, dagli olivetani in analogia a quanto stabilito presso i mendicanti per le cariche dei ministri e dei priori provinciali e locali - veniva individuata come strumento di riforma da Benedetto XII per non svuotare di significato il diritto di controllo assegnato al capitolo provinciale sui responsabili delle singole comunità monastiche. Si noti che il cronista francescano Salimbene da Parma individuava proprio nell’eccessiva durata delle cariche di prelatura negli ordini religiosi il motivo di fondo di troppi abusi. L’esempio in negativo gli era offerto dalle distorsioni derivanti dalla durata a vita della carica abbaziale presso l’ordine benedettino: «Notandum quod conservatio religionum est frequens mutatio prelatorum, triplici de causa. Prima ne nimis insolescant, si diu prefuerint, ut patet in abbatibus ordinis s. Benedicti, qui, quia quousque vivunt durant et non deponuntur, vilificant subditos suos et tantum eos reputant quantum quintam rotam plaustri, que nihil est; et abbates cum secularibus carnem manducant, monachi vero in refectorio legumina comedunt. Et alia multa incomoda et disconvenientia faciunt erga subditos suos, que non sunt facienda, cum ipsi velint splendide vivere et in maxima libertate» «Va notato che per la conservazione degli ordini religiosi occorre cambiare frequentemente i prelati, per tre ragioni. La prima perché può diventare troppo molle, se sta al suo posto per lungo tempo, come è evidente negli abati dell'ordine di s. Benedetto, che, perché durano finché vivono e non rinunciano alla loro carica, sviliscono i loro sudditi e li reputano come la quinta ruota del carro che non conta nulla; e gli abati mangiano la carne come i secolare mentre i monaci nel refettorio mangiano verdure. E fanno molte altre cose, che non devono essere fatte, dannose e sconvenienti verso i loro sudditi, mentre essi stessi desiderano vivere in splendore e nella massima libertà». (libera traduzione dal latino N.D.R)

Anche per quanto concerne i moduli organizzativi dell’elaborazione e della trasmissione del sapere i mendicanti introdussero una struttura centralizzata e gerarchizzata, che assumeva dal modello universitario la gradualità funzionale degli studi, ma la adattava alle esigenze di coordinamento e di distribuzione organica nelle singole articolazioni territoriali, con una capillare distribuzione di studia particularia, concepiti come gradi preparatori e imprescindibili per accedere agli studia generalia, che lungo il secolo XIII si andarono moltiplicando ed equamente distribuendo sul territorio in progressiva sostituzione all’iniziale concentramento nelle grandi sedi universitarie. L’esigenza di studi ben programmati fino al massimo livello era certo indotta dalle nuove strutture di un sapere che, soprattutto in ambiente urbano, si andava sempre più capillarmente diffondendo. Da tale esigenza derivano anche le norme impartite nella Summi magistri - a proposito degli studia generalia, organizzati a partire dalla metà del secolo XIII anche dai più vitali e attivi tra gli ordini monastici, come per esempio i cistercensi che avevano costituito i propri Studia presso i principali centri universitari di Francia, a partire dal collegio di S. Bernardo a Parigi (1245), e d’Inghilterra. Tali norme, dettate certo anche dalla personale esperienza del pontefice, vengono però inserite nel quadro tradizionale dello spirito e dell’impegno monastico, mentre per i mendicanti lo studio e la sua organizzazione sono intesi essenzialmente a un dignitoso ed efficace svolgimento dei compiti connessi con la cura animarum.

La stessa organizzazione territoriale è considerata funzionale a tale impegno: basti pensare alla significativa denominazione di praedicationes data dai domenicani alle loro circoscrizioni conventuali. Il tutto era dunque funzionale a una caratteristica, che in quanto costitutiva della vita religiosa, risultava certamente innovativa nei confronti della tradizione monastica, anzi delle stesse concezioni teologico-spirituali sulla vita religiosa e delle conseguenti norme giuridico-canoniche: l’attività pastorale intesa come impegno primario e imprescindibile, anzi come connotazione giustificativa della vita religiosa nella chiesa non trova certamente riscontro nelle teorizzazioni di estrazione monastica e nella prassi eretta a sistema. Non v’è dubbio che il cronista francescano Salimbene si faccia portavoce di precisi atteggiamenti mentali ampiamente diffusi tra francescani e domenicani, quando denuncia l’inutilità per la società e per la chiesa di istituzioni religiose che non si dedichino alle attività pastorali, benché la polemica salimbeniana rimanga circoscritta alle istituzioni mendicanti recentemente soppresse dal concilio Lionese II.

Delle due istituzioni religiose che diedero l’avvio al movimento mendicante quella dei frati predicatori si pone sulla linea di maggior continuità rispetto alle tradizionali forme di vita religiosa istituzionalizzata: si tratta di un gruppo di canonici regolari costituito secondo le migliori tradizioni di tale istituzione, ivi compreso il carattere rigorosamente comunitario del possesso dei beni. Del resto il modello ispiratore della nuova fondazione non fu il vasto movimento laico, che si orientava verso scelte di radicale povertà comunitaria. Diego di Osman e Domenico si rifacevano piuttosto alle tendenze rigoristiche della riforma canonicale, prendendo come modulo di riferimento quello premonstratense, sui cui statuti i predicatori esempleranno ben presto le proprie norme costituzionali. Solo dopo che i predicatori, travalicate le Alpi, incroceranno le vie dei frati minori, ormai vistosamente presenti in tutte le regioni d’Italia, la scelta della spropriazione totale, anche comunitaria, e della mendicità come mezzo, almeno sussidiario, di sostentamento opereranno lo stacco rispetto alla tradizione monastico-canonicale. Ma la povertà non costituirà mai un problema assillante e dilaniante per i domenicani e non lo fu certo nel mondo monastico, nonostante l’impegno vigoroso per la povertà, anche comunitaria, di Stefano di Muret, che « anticipò » in proposito e per più di un aspetto le scelte francescane; lo fu invece, e continuerà ad esserlo per secoli, per i francescani, la cui storia, anche in questo, si caratterizza, differenziandosi nettamente nei confronti del mondo monastico, alla cui tradizione per molti aspetti si conformerà ben presto.

Per struttura e per mentalità le due istituzioni, quella monastica e quella mendicante, rimasero nettamente divaricate: nonostante le tendenze mimetiche e le influenze reciproche, mantennero ciascuna una propria e precisa identità, che anzi difesero puntigliosamente. Se in ambiente mendicante vennero messe in atto le più sottili argomentazioni a sostegno teorico della nuova forma di vita religiosa contro gli attacchi dei magistri saeculares di Parigi, che si rifacevano alla tradizione monastica per denunziare le incongruità delle modalità introdotte dai mendicanti nella vita religiosa - soprattutto quelle relative alla questua eretta a sistema - e l’illegittimità della loro invasione del campo delle attività pastorali, le comunità monastiche dovettero difendersi sul piano pratico per arginare l’invadenza degli spazi monastici da parte dei due nuovi ordini religiosi. E ben vero che di fatto non si registrano se non sporadici casi di passaggio di comunità monastiche, di vecchio o di nuovo tipo, nelle file dei mendicanti, a differenza di quanto era avvenuto e stava tuttora avvenendo per le congregazioni monastiche sorte nel secolo precedente, particolarmente per i cistercensi. Bernard Gui nella sua Notitia provinciarum et domorum ordinis praedicatorum del 1303 elenca nell’ambito della provincia romana - comprendente in tale data le attuale regioni di Lazio, Toscana e Umbria - un non meglio precisato convento domenicano di S. Benedetto ubi monachi facti fuerunt praedicatores; francamente non conosco altri casi del genere.

Si registra invece un altro fenomeno, e abbastanza corposo nei decenni centrali del secolo XIII: il « sequestro » - e il termine in più di un caso appare appropriato - di monasteri, anche antichi e con un glorioso passato, a favore dei mendicanti. Tale fenomeno è da collegare al convergente processo di inurbamento delle comunità monastiche e delle sedi mendicanti. Non è certamente questa la sede per ritornare su un aspetto ben noto della vicenda monastica italiana, se non per sottolineare come in più di un caso il processo di inurbamento dei monasteri, fosse esso spontaneo o imposto dagli organismi comunali, innescò, o almeno accelerò il processo di dissolvimento della comunità monastica, dopo averne snaturato le connotazioni originarie. Ad evitare comunque ogni tentativo di generalizzazione risulta eloquente la vivace e incisiva esperienza degli albi a Padova e il ruolo di primaria importanza politica e religiosa svolta dal loro fondatore Giordano Forzatè. Né vanno dimenticati i ruoli tecnico-amministrativi svolti dai cistercensi in alcune città d’Italia come Siena e Genova, ma l’impressione è che si tratti di brillanti eccezioni. Per i mendicanti invece il processo di inurbamento si sviluppa in parallelo con il consolidamento istituzionale e numerico e con il periodo di maggiore capacità di incidenza sulla società e sulla religiosità, fino a una sorta di generalizzazione di investimento delle capacità e delle energie in ruoli che, ben al di là delle esigenze pastorali, riguardano i rapporti sociali di ogni tipo e livello e le strutture politiche, amministrative e tecniche. Un raggio d’azione socio-politica che appare ben più vasto, non solo degli infrequenti ruoli di carattere tecnico-amministrativo affidati all’uno o all’altro membro di comunità monastiche urbane, ma anche degli incarichi di sovrintendeza ad opere pubbliche o degli uffici pubblici affidati frequentemente dai comuni dell’Italia centro-settentrionale a membri di comunità religiose recentemente riconosciute, quali quelle degli umiliati.

L’ambiente urbano diviene dunque il quadro di complessi rapporti tra monaci e mendicanti, un quadro che attende in troppi casi di essere attentamente ridisegnato. Certo situazioni come quella padovana, dove monasteri di diversa appartenenza e di grande vitalità affiancano i frati minori e i predicatori in una forte e incisiva presenza nelle grandi e drammatiche vicende cittadine dei decenni centrali del secolo XIII, possono sembrare ed essere di fatto eccezionali. Sono comunque rivelatori di un diverso tipo di rapporto del mondo monastico nei confronti della società urbana rispetto a quello instaurato dalle comunità mendicanti. Sia i monaci albi che quelli di S. Giustina, come del resto gli altri enti monastici padovani (e non) appaiono fortemente coinvolti anche, se non soprattutto, in forza di un profondo radicamento nel territorio con forti interessi sul piano economico e dell’esercizio del potere, cui vanno aggiunti i complessi e stretti legami con le famiglie feudali in conflitto per la preminenza sulla città. Le comunità mendicanti, a Padova particolarmente i francescani, si muovono su un piano ben diverso, in quanto - ancorati strettamente a un vasto organismo che ha ormai assunto un carattere internazionale - hanno i loro referenti ben al di fuori dei più o meno angusti ambiti territoriali. Molti di loro provengono da lontano (l’esempio di Antonio valga per tutti) e comunque sono organizzati in comunità, i cui membri, oltre ad avere una mobilità ad ampio raggio per l’espletamento di funzioni dentro e fuori l’ambito dell’ordine, non godono di stabilità residenziale: la loro appartenenza alla comunità locale assume per principio un carattere provvisorio e di fatto è il più delle volte solo temporanea, connessa, in più di un caso, con l’espletamento di attività pastorali, di carattere socio-politico, o tecnico.

 

Nella sua fase iniziale l’esperienza religiosa dei mendicanti in ambiente urbano sembra presentarsi, pur nella sua singolarità, come forza complementare e comunque in armonico rapporto con la realtà monastica locale. Man mano che tale esperienza prende corpo evidenzia sempre di più la sua capacità di diventare proposta alternativa e forza concorrenziale. Ciò appare evidente quando si consideri nella concretezza dei singoli casi lo sviluppo del fenomeno insediativo nel contesto del processo di inurbamento che coinvolse le sedi mendicanti nei decenni centrali del secolo XIII. Le prime chiese mendicanti in ambito extraurbano appartengono normalmente a complessi ospedalieri o a enti monastici. Nell’uno e nell’altro caso si tratta della trasformazione in sede stabile ed esclusiva per i frati di precedenti dimore, intese e vissute come provvisorie a titolo di ospitalità; esito, in più di un caso, dell’atteggiamento di benevola accoglienza del mondo monastico nei confronti dei primi gruppi mendicanti.

Il caso più noto è certamente quello della Porziuncola, che sappiamo essere appartenuta al monastero di S. Benedetto del Subasio prima di diventare il principale punto di riferimento dei frati minori. Interessante è constatare come nel 1244, data dell’atto di conferma di beni e possessi del monastero del Subasio da parte di Innocenzo IV, la Porziuncola risulti ancora di proprietà di quella comunità monastica: i frati minori vi risiedevano dunque in qualità di ospiti, coerentemente con il principio riaffermato da Francesco nel suo Testamentum ; nel frattempo il centro propulsore dell’ordine minoritico si era spostato presso la grandiosa basilica costruita da fra Elia.

In proposito è molto eloquente anche la già ricordata notizia della Passio s. Verecundi a proposito dell’ospitalità offerta per uno dei primi capitoli dei frati minori, che da un lato evidenzia l’atteggiamento di benevola attenzione e accoglienza del monastero nei confronti del giovane ordine minoritico, e dall’altro ci apre uno spiraglio attraverso il quale riusciamo almeno ad intravedere interessanti aspetti della prima realtà minoritica, al di là dei correnti luoghi comuni, basati spesso acriticamente sui rigidi schematismi narrativi delle fonti biografiche di Francesco d’Assisi. La notizia fornita dalla Passio completa infatti il quadro offerto da alcune fonti francescane che ci presentano le comunità monastiche come luoghi aperti ad accogliere la nuova esperienza religiosa dei primi francescani, fossero singoli individui - come quel fra Stefano, che racconta di essere stato affidato per due anni a una non meglio precisata abbazia, o Chiara che fa la sua prima esperienza religiosa nel monastero benedettino di S. Paolo, presso Bastia - o fossero gruppi di frati minori, come pure di frati predicatori, nella loro prima fase insediativa nell’una o nell’altra località d’Italia o d’oltralpe. Non è del resto caso isolato che si debbano cercare le prime notizie sulla presenza minoritica e domenicana nell’una o nell’altra area del territorio italiano in fonti o in complessi documentari di provenienza monastica, in connessione spesso coll’insediarsi dei mendicanti in complessi abitativi monastici, oppure su terreni o in chiese di proprietà di qualche monastero; è il caso, per esempio, della chiesa di S. Maria in Trivio a Rimini, appartenente al monastero di Pomposa, o della chiesa di S. Romano di Lucca, ceduta ai domenicani dal monastero benedettino di S. Ponziano, o della chiesa di S. Maria sopra Minerva, appartenente al monastero femminile romano di S. Maria in Campo Marzio. La notizia inserita nella Passio s. Verecundi risulta particolarmente interessante, in quanto ci informa che è la nuova fraternità nel suo complesso, ormai forte di alcune centinaia di membri, e in un momento fondamentale per la sua vita e per l’elaborazione organizzativa a cercare e trovare accoglienza presso il monastero, che in tal modo ci appare rivestito del ruolo attribuito alla Porziuncola dalle fonti biografiche di Francesco d’Assisi e, sulla loro scia, da una storiografia troppo disinvolta e tutta protesa a enfatizzare il ruolo che avrebbe svolto S. Maria degli Angeli fin dai primordi della fraternità francescana.

Il processo insediativo dei frati minori a Roma è un tipico esempio dell’evolversi dei rapporti tra ordini mendicanti e mondo monastico, man mano che l’esperienza religiosa dei primi va penetrando nel cuore stesso della città. I frati minori trovano un primo punto d’appoggio a Roma presso la chiesa ospitaliera di S. Biagio di proprietà del monastero di S. Cosma in Trastevere; la chiesa con i suoi annessi si trasforma in sede stabile ed esclusiva dei frati nel 1229 dietro cessione da parte del monastero, sollecitata da una esplicita richiesta di Gregorio IX, e diventerà il primo convento francescano in Roma, S. Francesco alla Ripa. Il processo di inurbamento dei francescani avverrà di lì a un paio di decenni a spese della comunità monastica di S. Maria in Campidoglio (Ara-coeli). Questa volta il trasferimento dell’insediamento minoritico risultò problematico per le resistenze frapposte dalla comunità monastica e per le difficoltà connesse con la ristrutturazione dell’organizzazione pastorale in ambito urbano connessa con il passaggio di mano della chiesa da un ente monastico a una comunità mendicante, talché il procedimento dei passaggi delle consegne fu lungo e complesso, nonostante i reiterati interventi di Innocenzo IV, che dovette vincere le resistenze frapposte dai monaci e farsi carico dello « scandalo » da parte della popolazione preoccupata per le sorti della parrocchia annessa alla chiesa monastica. Di tale « scandalo » si fanno appunto scudo i monaci, di fronte all’intervento pontificio, attraverso il proprio intermediario, il sindaco del monastero di S. Maria in Campidoglio. Innocenzo IV, si era mosso dietro sollecitazione dei frati minori, desiderosi di riunire in un unica comunità cittadina i due scomodi e malsani conventi suburbani. Il papa dunque era stretto fra le pressanti richieste di un ordine religioso ormai potente e con forti influenze nella curia papale e le resistenze di una comunità monastica in netto e irreversibile declino. La scelta non dovette apparire troppo problematica: era fin troppo chiaro quale sarebbe stata la parte vincente. La dispersione della comunità monastica non rappresentava certo un fatto traumatico, poteva anzi apparire una conclusione quasi naturale, come la morte dopo una lunga agonia, mentre l’assegnazione del complesso monastico e del terreno adiacente alla fiorente comunità minoritica di Roma significava la salvaguardia, anzi il potenziamento del complesso religioso in questione. I beni del monastero suscitavano certo più di un appetito, la decisione papale andò in favore della confraternita dei cantori dell’Urbe. Più complesso il problema della ristrutturazione del territorio della parrocchia annessa alla chiesa di S. Maria in Aracoeli, di cui per principio i francescani non intendevano farsi carico; Innocenzo IV quattro anni dopo il passaggio del complesso monastico ai frati minori si riservava ancora di dare una soluzione definitiva al problema.

Nel conflitto tra comunità monastiche e mendicanti per la conquista degli spazi urbani non restano certamente spettatori passivi le varie componenti della società urbana e i loro rappresentanti, che vediamo schierati di volta in volta su fronti diversi, a seconda degli interessi in gioco, che spesso attengono alla compattezza stessa del nucleo parrocchiale di un preciso settore della città: lo « scandalo » dei parrocchiani di S. Maria in Aracoeli è solo uno dei tanti esempi. Ma un eloquente caso di coinvolgimento delle componenti civiche è quello di Tivoli. I frati minori, di fresco insediati nel monastero benedettino di S. Maria Maggiore, ne vennero allontanati con l’uso della forza. Difficile identificare gli attori e i fautori del gesto violento, che certo non può essere imputato, almeno esclusivamente, ai quattro o cinque monaci che erano stati espulsi e collocati nelle chiese di S. Clemente e di S. Angelo, dipendenti dal monastero. Certo i monaci, benché così ridotti di numero, avevano potuto offrire una lunga ed efficace resistenza all’iniziativa, di cui si era fatto carico Gregorio IX nel 1241 e che non aveva sortito alcun effetto neppure sotto il suo successore. Ma i monaci dovevano avere più di un supporto tra le componenti della società urbana, che Gregorio aveva cercato di coinvolgere nella persona dei consoli e del consiglio della città, talché il pontefice aveva dovuto interessare della questione il vescovo. Ma anch’egli dovette, o volle, temporeggiare, se undici anni dopo Innocenzo IV si rivolgeva di nuovo a lui, ingiungendogli di eseguire il mandato papale. Alessandro IV quattro anni dopo doveva investire del problema il nuovo titolare della chiesa Tiburtina, che finalmente riusciva a risolverlo in modo positivo. All’atto solenne di consegna della chiesa il 5 luglio 1256 era presente come testimone il vicario del conte di Tivoli Matteo Orsini, padre del futuro Nicolò III e legato ai frati minori; accanto al rappresentante del conte fungevano da testimoni i maggiori esponenti del comune e molti eminenti cittadini. L’atto solenne di consegna veniva dunque avallato dall’autorità ecclesiastica e cittadina. Ma di lì a pochi giorni interveniva l’espulsione violenta dei frati. A questo punto il pontefice si rivolgeva al vicario episcopale e ai canonici della cattedrale perché comminassero la scomunica contro gli attori del gesto violento, i loro fautori e mandanti e nel mese successivo confermava definitivamente l’assegnazione del complesso monastico ai frati minori.

 

I casi di conflitto tra monaci e mendicanti per la conquista da parte di questi ultimi di nuovi e più ampi spazi in città sono numerosi e spesso dettagliatamente descritti nella documentazione pontificia, che evidenzia con estrema chiarezza il realismo con cui la politica religiosa del pontefice sostiene il progressivo potenziarsi delle comunità mendicanti in ambito urbano: per favorire le nuove e vigorose istituzioni la curia romana, quando non provveda alla dispersione delle comunità monastiche insediate in antichi, venerandi e prestigiosi complessi abitativi e di culto, su cui si sono appuntate le mire delle comunità appartenenti ai nuovi ordini religiosi, si impegna in operazioni, a volte difficoltose e complesse, di trasferimento, in forza delle quali, i gruppi di monaci estromessi dalle loro sedi vanno ad occupare i « luoghi » divenuti ormai assolutamente insufficienti per i mendicanti e del tutto inadeguati allo svolgimento dei ruoli che si sono assunti nella chiesa e nella società.

Certo non bisogna generalizzare le situazioni di scontro, risolte con atti di forza da parte del pontefice. Gli scambi di sede tra mendicanti e comunità monastiche rivelano a volte il maturare di situazioni e aspirazioni a una specie di inversione dei ruoli, ben rappresentata dallo scambio pacifico e concordato delle sedi, in forza del quale si concretizza l’aspirazione dell’una o dell’altra comunità mendicante a penetrare, anche dal punto di vista insediativo, nel vivo del tessuto urbano, dal quale, in più di un caso, paiono volersi ritrarre i monaci. E ciò che avviene a Verona con la proposta di scambio di sede tra i benedettini di S. Fermo e il convento suburbano di S. Francesco, proposta che Innocenzo IV nel 1249 asserisce concordata tra gli interessati, anche se la sua attuazione dovette trovare più di una resistenza tra i monaci, talché nel 1257 Alessandro IV dovrà fare pressione sul vescovo di Verona, perché lo scambio venga effettivamente attuato: la crisi anche numerica della comunità monastica è denunciata a chiare lettere nel documento pontificio.

Un caso analogo quello del passaggio del monastero vallombrosano di S. Fortunato di Todi ai frati minori. Già nel 1236 la comunità vallombrosana di Todi doveva essere in crisi, se i domenicani posero le proprie mire sul monastero per il loro ingresso in città. Una ventina d’anni più tardi viene concordato lo scambio di sede tra la comunità vallombrosana, ormai ridotta a poche unità, e quella minoritica. Di tale scambio vengono presentati gli atti notarili ad Alessandro IV, che in data 28 dicembre 1254 approva il passaggio dei vallombrosani con tutti i loro diritti e immobili alla chiesa di S. Angelo de Funtanellis, presso la quale erano precedentemente insediati i francescani. In questo caso l’appiglio per contestare il concordato da parte della comunità vallombrosana era stata la promessa dei frati minori di colmare la sperequazione dell’oggetto di scambio con l’aggiunta del monastero di S. Ilario di Fiesole, appartenente a monache benedettine fino agli ultimi decenni del secolo XII. L’acquisto dell’antico « luogo » dei frati minori in cambio del monumentale complesso monastico rappresentava evidentemente un cattivo affare per i vallombrosani di S. Fortunato. Ma l’ostacolo più grosso dovette venire dai conversi del monastero, che non vollero abbandonare gli ambienti, probabilmente loro assegnati, presso il claustrum exterior, di cui parla il documento pontificio del 21 maggio 1255, che denuncia come abusiva e provocatoria l’occupazione di tale spazio da parte di conversi, spalleggiati in questo da alcuni monaci, contro la volontà dell’abate. Si trattava evidentemente di laici, che erano legati dal vincolo dell’oblazione alla comunità monastica ed erano andati ad occupare gli spazi abitativi del complesso monastico, resisi liberi per il declino della comunità stessa col conseguente depauperamento numerico dei suoi membri. Entra qui in gioco una componente del mondo monastico che, in forza anche delle molteplici mansioni e ruoli ricoperti a nome del monastero, aveva stabilito uno stretto raccordo con l’ambiente cittadino, all’interno del quale tali conversi nella loro qualità di laici legati a una entità religiosa dell’ambiente urbano, ancora economicamente robusta, nonostante la fase di declino, dovevano avere più di un interesse personale da difendere. Abbandonare lo spazio monastico comportava il rischio di liquidazione di interessi e di rapporti con le varie componenti dell’ambiente cittadino. Più che comprensibile dunque la loro accanita resistenza, che lascia chiaramente intravedere, come la sostituzione delle antiche comunità monastiche ad opera dei gruppi appartenenti ai nuovi ordini religiosi abbia provocato un ricambio a volte traumatico nel mondo laico gravitante attorno alle comunità religiose e un rimescolamento delle carte con cui a determinati livelli si giocavano vincoli, interessi e rapporti all’interno della società urbana.

Da notare che proprio in Todi si erano stabiliti un ventennio prima (1236) i domenicani nel monastero premonstratense di S. Leucio, dopo il fallito tentativo di accaparrarsi la sede monastica di S. Fortunato: alla precedente comunità canonicale, se ne sostituiva una con caratteristiche nuove, quasi un simbolo di continuità istituzionale, benché con identità e caratteristiche diverse: si trattava del passaggio di mano dalla comunità locale di canonici inseriti in un ordine che aveva ormai una storia secolare, a un’altra comunità canonicale che l’appartenenza al nuovo ordine religioso rendeva funzionale alle esigenze di adeguamento dell’istituzione canonicale alle nuove connotazioni della società urbana.

Quelli a cui abbiamo accennato sono soltanto alcuni dei più significativi esempi fra i numerosi casi di monasteri urbani trasferiti d’autorità, o dietro preventivo accordo delle parti interessate, ai mendicanti. La loro prontezza ad occupare gli spazi fisici, ormai pressoché svuotati del contenuto demico e dei ruoli e del prestigio sociale, di cui li aveva caricati la poderosa realtà monastica, è altamente significativa della capacità di risposta da parte dei nuovi ordini alle esigenze socio-religiose, che il mondo monastico tradizionale non era più in grado di soddisfare. Tale fenomeno, che appare corposo e pressoché a senso unico e a tutto vantaggio di francescani e domenicani, caratterizza i centri urbani di diversa dimensione e importanza dell’Italia centro-settentrionale nei due o tre decenni centrali del secolo XIII.

La diversa struttura della società urbana e soprattutto la lotta che contrappose Federico II al papato, sopratutto a partire dagli ultimi anni Trenta del secolo XIII, ritardarono di qualche decennio il fenomeno nel meridione d’Italia. I decenni centrali di tale secolo nelle regioni meridionali appaiono caratterizzati dal potenziamento delle strutture monastiche, soprattutto rappresentate dai cistercensi, a fronte di una diffusione degli ordini mendicanti, che sembra subire una battuta d’arresto: lo Svevo, che nell’elargire i suoi favori teneva in conto potenziali sostenitori e avversari, non poteva ovviamente dare il suo appoggio ai mendicanti, che facevano fronte comune con il pontefice. Per quanto riguarda i francescani il confronto fra i due più antichi elenchi statistici è eloquente: nei primi anni Sessanta del secolo XIII risultano costituiti 119 insediamenti, distribuiti nelle 6 province minoritiche del Regno; un numero certamente rilevante che potrebbe bastare da solo a riproporzionare l’immagine, spesso drammatizzata, che le fonti ci danno degli effetti sul dato insediativo dello scontro tra Federico II e i frati minori. Ma va tenuto presente che gran parte delle sedi minoritiche registrate nei primi anni Sessanta del secolo erano andate costituendosi nel primo ventennio dell’espansione della rete insediativa dei francescani, quindi prima che lo scontro con Federico II divenisse radicale e insanabile. Si deve anche rilevare che tra il 1263 ca. e il 1282, cioè nel ventennio immediatamente successivo alla caduta degli Svevi, le sedi minoritiche nel Regno raggiungessero il numero di 283, risultando più che duplicate rispetto al cinquantennio intercorso tra la prima espansione minoritica nella penisola italiana e la definitiva liquidazione degli Svevi. Dunque nell’arco di meno di un ventennio dall’avvento degli Angioini vengono fondati 146 insediamenti; un dato numerico, che, confrontato con quello relativo al cinquantennio dell’espansione francescana sotto gli Svevi, risulta di per sé eloquente a proposito della notevole diversità della politica religiosa messa in atto dalle due dinastie.

Per quanto riguarda i predicatori la situazione è definibile nei dettagli: in Puglia nel periodo svevo vengono costituiti i conventi di Trani (1227), Brindisi (1233) e Barletta (1238), dunque prima dello scontro definitivo con Federico II, come si evince dalle date di fondazione, nel capitolo provinciale domenicano, svoltosi a Roma nel 1283 sono elencati per la Puglia altre tre sedi: Bari, Monopoli e Foggia, mentre vengono segnalati complessivamente 19 insediamenti domenicani nell’Italia meridionale, di cui soltanto 8 costituiti durante il periodo svevo e tutti prima del 1239, eccettuati i due conventi siciliani di Messina e Siracusa. Da notare che nel primo periodo angioino risulta frequente il caso di sedi monastiche trasformate in conventi degli ordini mendicanti sia maschili che femminili. Interessante in proposito la notizia fornita da Bernard Gui, che segnala come la comunità femminile domenicana si fosse insediata nel monastero benedettino di S. Pietro martire. Particolarmente significativi i casi di Salerno e di Bari, che si collocano nel contesto del processo di inurbamento dei mendicanti, processo che appare nettamente in ritardo rispetto all’analogo fenomeno nelle regioni dell’Italia centro-settentrionale, e connotano due diverse situazioni nell’ambito dei rapporti ordini mendicanti-realtà monastica. Nel 1272 il monastero di S. Maria in Palearia a Salerno viene trasformato in un convento domenicano. Di li a sette anni la comunità domenicana ha ormai assunto una notevole importanza, accanto a quella francescana, nei confronti della realtà monastica cittadina: nel 1279 Nicolò III affida al priore dei frati predicatori e al guardiano dei frati minori l’inchiesta circa la legittimità dell’elezione dell’abate del monastero di S. Benedetto di Salerno.

A Bari i frati predicatori si sono insediati da pochi anni, quando nel 1286 concordano con il monastero benedettino di Ognissanti di Cuti uno scambio per noi molto significativo: i domenicani cederanno al monastero tutti gli annessi abitativi e i terreni di loro proprietà presso la chiesa extraurbana di S. Leonardo, situata in zona antistante il fossato della città, sulla via che, passando nei pressi del monastero di Ognissanti, attraverso Bitritto e Loseto portava in direzione sud verso il golfo di Taranto; il monastero da parte sua avrebbe ceduto ai domenicani un complesso di case e terreni presso la chiesa dei SS. Simone e Giuda ubicata nell’immediato spazio intramurario. Lo scambio era vantaggioso per ciascuno dei due contraenti: il monastero acquistava un complesso fondiario comodamente raggiungibile con pochi chilometri di una strada che passava vicino alla propria sede, i domenicani risolvevano il problema del proprio trasferimento all’interno delle mura urbane.

 

Contestuale al processo di inurbamento insediativo da parte dei mendicanti è la progressiva organizzazione dei ritmi della vita comunitaria sulla base del modello monastico. Le strutture edilizie dei monasteri, predisposte per un ordinato e regolare svolgimento della vita delle comunità religiose secondo i ritmi scanditi da una tradizione secolare, non potevano non apparire molto adatte per ripartire entro spazi opportunamente predisposti i momenti di una giornata, che le corpose comunità mendicanti urbane avevano imparato a regolare su ritmi e modalità assunti dalla tradizione monastica. L’autore di una fonte redatta poco dopo la metà del secolo XIII - le Determinationes quaestionum circa regulam fratmm minorum, che la tradizione francescana ha per secoli attribuito a Bonaventura da Bagnorea - posto di fronte all’obiezione della dissonanza delle imponenti strutture dei conventi urbani rispetto alle esigenze della povertà francescana, si appella alla necessità di offrire spazi adeguati a un regolare e ordinato svolgimento della vita conventuale, che appare ormai esemplata su tempi e modalità della vita communis di ambiente monastico. La solennizzazione dell’ufficio liturgico con il canto, che caratterizzava la celebrazione comunitaria in ambiente monastico e nei confronti della quale Francesco aveva messo in guardia i chierici del suo ordine, richiamando con energia il ruolo assolutamente primario dell’interiorità - in linea del resto con tanta parte della stessa tradizione monastica - appare fatto compiuto già negli anni Trenta del secolo XIII, come dimostra l’annotazione musicale apposta da Giuliano da Spira all’ufficio ritmico per la festa di s. Francesco. Quali letture rompessero il silenzio della mensa conventuale e fossero presenti nelle biblioteche dei francescani possiamo ricavare da un testo ascetico-normativo, la Regula novitiorum, anch’essa attribuita a Bonaventura: si fatica a trovarvi riferimenti a Francesco d’Assisi. E come pretenderli in un testo che tende non tanto a plasmare secondo principi ideali, quanto a normalizzare momento per momento gli atteggiamenti del novizio? In assenza di una tradizione specifica del giovane ordine religioso non restava che rivolgersi ai testi classici per la formazione dei monaci. Del resto, ed è molto significativo, appare frequente il ricorso a testi monastici nell’Expositio quatuor magistrorum super Regulam fratrum minorum e nell’analoga Expositio di Ugo di Digne.

Il fenomeno segnalato ed esemplificato per quanto concerne i francescani trova un perfetto parallelismo nell’altro grande ordine mendicante, quello dei domenicani: anche per essi i padri del deserto non rappresentano solo un preciso riferimento, agiografico e di cui si fanno divulgatori, ma anche un modello, con cui proporre come identificata, o da identificare, la propria esperienza religiosa. Del resto la normativa costituzionale dei predicatori aveva assorbito molti elementi della tradizione monastica, mediati attraverso le modalità proprie della tradizione canonicale. Anche il testo nel quale Bonaventura riorganizzava la legislazione costituzionale minoritica dei due decenni precedenti, pur così evidentemente preoccupato di rendere applicativi principi e norme della Regula di Francesco, recepiva, come è noto, molti dei principi ispiratori e delle norme delle costituzioni domenicane.

Anche i testi della « teologia monastica » trasfondevano i loro contenuti nella riflessione teologica dei mendicanti, particolarmente dei francescani, i cui principali esponenti appaiono così evidentemente intrisi del pensiero teologico-mistico elaborato nei monasteri e mediato attraverso la scuola vittorina. Non è certo qui la sede per approfondire un argomento tanto vasto e complesso, dove i rischi delle forzature sono in agguato almeno quanto quelli delle omissioni e dei riscontri tanto puntualmente eruditi, quanto superficiali. Basti qui ricordare, in attesa di ulteriori approfondimenti e di un discorso complessivo e organico, come l’evidente influsso che la mistica cistercense esercitò, in modo diretto o mediato attraverso gli scritti dei vittorini, su alcuni dei principali esponenti del pensiero teologico di area francescana, tenda ormai a riproporzionare di molto l’originalità della « scuola francescana», fino a porre forti riserve sull’originalità e soprattutto sull’omogeneità degli orientamenti di pensiero dei maestri francescani almeno fino agli anni Sessanta del secolo XIII, quando Bonaventura, dopo aver portato a maturazione le linee del suo pensiero teologico, divenuto ministro generale, può proporli autorevolmente all’ordine.

Ma si ha più di un segnale che entro l’abito monastico si trovino a disagio i membri delle comunità mendicanti. Non è che non vedano la necessità di regolamentare, e rigorosamente, la vita interna della comunità, ma personalmente sembrano rimpiangere la vita libera ed errabonda di un tempo. E allora si affidano ai ricordi e fanno del convento un osservatorio privilegiato, dal quale contemplano, e con viva partecipazione, gli attivi e spesso contraddittori protagonisti dei rivolgimenti e dei contrasti che caratterizzano la prorompente vitalità dei popolosi centri urbani, di cui i mendicanti si sentono cittadini a pieno titolo. Una rilettura della vivacissima cronaca di Salimbene vale in proposito ben più di qualsiasi tentativo di ricostruzione, anche per quanto concerne i rapporti tra il mondo monastico e quello mendicante.

 


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29 marzo 2015              a cura di Alberto "da Cormano"       Grazie dei suggerimenti        alberto@ora-et-labora.net