GIOCHINO DA FIORE – Breve biografia

 

Estratto da Dizionario dei teologi

Di Battista Mondin

Edizioni Studio Domenicano  1992

 

Gioachino da Fiore

(Celico Cosenza 1130 ca - San Giovanni in Fiore, 1202), teologo e mistico italiano.

Fu per lungo tempo pellegrino in Terra Santa e in seguito entrò in un monastero dell'Ordine cistercense; nel 1191 uscì dall’Ordine per fondare il monastero di S. Giovanni in Fiore. L'opera dottrinale di G. si caratterizza per la complessità e l'originalità della sua esegesi e per lo sforzo dì costruire, alla luce delle Scritture, una «teologia della storia». Disputò vivacemente con Pier Lombardo sulla Trinità, assumendo una posizione che fu condannata come tendenzialmente triteista dal Concilio Lateranense IV (1215). In rapporto con la sua dottrina trinitaria sviluppò una sua teologia della storia, in cui questa viene concepita come una successione di tre grandi epoche, in ciascuna delle quali si attua un intervento e una speciale manifestazione di una delle tre Persone divine; del Padre nella prima (Antico Testamento), caratterizzata dalla legge del timore; del Figlio nella seconda (Nuovo Testamento), contraddistinta dall’obbedienza filiale; dello Spirito Santo nella terza (l'Ultima Età), segnata dall'amore e dalla pace. Secondo G. l’età dello Spirito Santo doveva avere inizio nel 1260, dopo una sequenza di terribili calamità e grandi rivolgimenti che avrebbero operato una profonda trasformazione anche all'interno della Chiesa, in particolare per quanto concerne la gerarchia. Con le sue innovazioni teologiche Gioachino da Fiore non aveva affatto l’intenzione, che storici moderni gli hanno attribuito, di scendere in guerra contro una «Chiesa putrescente», né è il caso di collocarlo, come qualcuno ha scritto, al «polo protestatario del cristianesimo». «Molto probabilmente neppure lui aveva chiara coscienza della radicale novità che introduceva in seno a una tradizione plurisecolare, ma era sicuramente sincero allorquando protestava contro certe ‘‘futilità’' imprudentemente diffuse nel popolo e quando esortava i suo lettori a diffidare dei pseudo-profeti, e quando respirava gli elementi “nuovi ed estranei” che non potevano essere approvati dalle “persone cattoliche”» (H. De Lubac). A maggior ragione non sospettava lo scompiglio che si preparava a portare, di a poco, col concorso di ogni sorta di circostanze, allora imprevedibili, nella vita della Chiesa. E ancor meno era in grado di prevedere la lunga e multiforme posterità che doveva generare in essa e addirittura fuori e contro di essa. L'obiettivo costante della sua vita e delle sue opere era quello di servire la fede e la chiesa: «... (professo la mia devozione e la mia fede nei confronti della stessa [sede] ...). E io sia sempre pronto a osservare ciò che essa stabilisce o abbia stabilito» (Epistola prologalis). Sembra inoltre innegabile che i papi lo hanno sempre approvato, protetto e incoraggiato nei suoi disegni, se non nei risultati delle sue esegesi, che certo non potevano conoscere. E tuttavia il suo messaggio non era affatto una semplice applicazione organica e coerente dei princìpi tradizionali dell’esegesi patristica, e rivela infine la vera natura di un simbolismo che prefigurava la futura società cristiana. Egli introduceva un elemento non solo nuovo ma eterogeneo destinato «a incidere profondamente, e in maniera decisamente rivoluzionaria, nella coscienza storica del suo tempo come nella sensibilità escatologica dei secoli successivi» (M. D. Chenu). Con la sua cadenza ideale e «la sua mancanza di carattere definito», il grande sogno che egli trasse dalla sua meditazione delle Scritture «si prestava alle più disparate definizioni concrete» (R. Manselli).

 

 


 

Gioacchino il riformatore

 

Estratto  da “Gioacchino da Fiore

Sulla Vita e sulla Regola di san Benedetto

a cura di Roberto Rusconi

testo critico e introduzione di Alexander Patschovsky

Ed. viella 2012

 

  

4.1. Gioacchino il riformatore

Secondo Gioacchino, il monachesimo, un’importante realtà orientata alla contemplazione e alla spiritualità, avrebbe avuto il suo momento aurorale, che autorizzerebbe le più luminose speranze al riguardo, nel momento della fondazione da parte di Benedetto e, qualche tempo dopo, allorché mise piede in Gallia. Ma in seguito esso avrebbe contratto il bacillo del sistema delle dispense e non si sarebbe orientato più all’ideale della norma di vita benedettina, degenerando invece in un’istituzione di dominio e di possesso, prigioniera del mondo, il cui nome sarebbe Cluny - non Montecassino! Viceversa, Montecassino viene celebrata come la ter felix Casinensis ecclesia, ovviamente in virtù dell’aureola del suo padre fondatore Benedetto. Tuttavia si noti come perfino nel contesto del resoconto della prima testimonianza delle prassi di dispensa, fonte di corruzione, che Gioacchino documenta con una lettera assai nota dell’abate Teodemaro di Montecassino a Carlo Magno, nessuna parola malevola sfiora la culla dell’Ordine benedettino. Gioacchino non attaccò quindi globalmente il monachesimo tradizionale, ma concentrò il suo attacco specificamente su Cluny. Le ragioni al riguardo stanno nelle peculiarità organizzative dell’aggregazione monastica cluniacense. Ossia, in primo luogo, nella semplice circostanza per cui a Cluny curiosamente non riuscì di penetrare nel Meridione d’Italia. Chi attaccava Cluny con ciò non faceva immediatamente subodorare una critica alle altre forme del monachesimo vetero benedettino diffuse nel Mezzogiorno. Tale procedimento è raccomandabile quando non si vogliono annientare gli oppositori, bensì spingerli dalla propria parte. Ma Gioacchino attaccava Cluny soprattutto in un campo che era in effetti caratteristico del sistema monastico istituito dall’abbazia borgognona. Infatti, accanto ad alcuni fenomeni generali di secolarizzazione - le voci più importanti sono il desiderio di possessi in ambito secolare e l’appropriazione indebita della Regula benedettina come strumento di dominio in ambito intra monastico -, Gioacchino aveva in odio il sistema di priorato specificamente cluniacense, che notoriamente concentrava nell’abate di Cluny ogni potere decisionale, anche quello dell'ordinazione monastica dei pupilli del priorato. Gioacchino inveisce contro questo elemento, che rappresenta un asservimento e uno sfruttamento materiale dei priorati da parte del monastero centrale, e gli contrappone il sistema di filiazione cistercense, che conosce sì la responsabilità della ‘‘madre” rispetto alle “figlie", ma le lascia in libertà. Nella critica di Gioacchino a Cluny e nell’idealizzazione di Cîteaux non mancano le note apologetiche: egli si vede costretto a giustificare il principio di un pluralismo monastico - e questo vuol dire l'insistenza sul percorso specifico dei cistercensi -, e chiaramente coglie l’occasione per rassicurare i monaci ribelli nei confronti del loro abate, per quanto riguarda la loro preoccupazione di togliere il terreno sotto i piedi alla loro stessa esistenza monastica, qualora si ribellassero al medesimo abate che li ha ammessi al loro stato di grazia, che ha cioè impartito loro l’ordinazione, accogliendoli così nello stato monastico. Come attraverso un condotto idraulico, afferma Gioacchino appellandosi alla tradizione dogmatica («apud antiquos»), il flusso della grazia passerà attraverso i «perversi» servitori di Dio: costoro, quali elargitori della grazia, nel senso della dottrina dell’opus operatum, sono solo strumenti, non un fattore costitutivo. La ribellione contro il proprio abate non porta cioè automaticamente alla perdita dello stato di grazia come monaco. Chi, in quanto sottoposto a un tale abate, cerca di tener ferma la grazia come propria porzione di eredità, questi aspira piuttosto alla «libertà»; si guardi cionondimeno - così suona il monito già a questo punto - dall’assumere la libertà come licenza di peccare, ossia in parole chiare: di soccombere sotto l’etichetta cistercense alle pratiche “cluniacensi”. Tali consigli non sono altro che un argomento di sostegno per il monachesimo vetero benedettino, invitato a riformarsi nello spirito di Cîteaux, ribellandosi cioè contro il proprio abate. Non è un gesto di scarso rilievo sul piano storico: Gioacchino stesso è giunto a essere abate a Corazzo a spese di un abate ritiratosi in circostanze non chiare, ma, soprattutto, occorre tener bene a mente che i più importanti monasteri cistercensi nel Mezzogiorno - Fossanova, Casamari, Sambucina - non sono nuove fondazioni, ma conventi vetero benedettini trasformati in cistercensi. Se si tenta di ridurre a una formula l’asserzione fondamentale della prima parte del Tractatus, questa è l’appello di Gioacchino ai suoi confratelli cistercensi, nel processo di riconfigurazione del monachesimo in Italia meridionale - ancora visibilmente in pieno svolgimento nel 1187-1188, all’epoca della stesura del trattato -, a essere consapevoli della forza della propria posizione e di muovere all’offensiva in favore della loro idea di monachesimo secondo la Regula benedettina. Gioacchino vede giunto il tempo in cui questo monachesimo, generato dalla Gallia divenuta cluniacense, nello spirito cistercense ritorni alle sue origini nel Meridione d'Italia. Un triplice «transeant» risuona contro quei vetero benedettini che invidiano a Cîteaux la felicità («felicitas»), ma anche verso coloro che vogliono divenire come i Cistercensi.

Ma chi sono i Cistercensi nel periodo 1187/1188? Non sono più quelli delle origini. Piuttosto, nei primi 75 anni della loro esistenza sono divenuti vittime del proprio vertiginoso successo, quando l'Ordine, già solo alla fine della vita di Bernardo di Clairvaux (1153), contava fino a circa 350 conventi, che in buona parte - come nel sud d’Italia! - non erano affatto nuove fondazioni, ma antiche abbazie benedettine che si erano riformate nello spirito di Cîteaux. Nel solo 1147 l’intera congregazione di Savigny in Normandia, con più di 30 abbazie, era passata nel campo dei Cistercensi. Ciò comportò seri problemi nella struttura dell’Ordine. Infatti Cîteaux era entrata in scena sostenendo che occorreva guadagnarsi la sussistenza conventuale soltanto con le proprie forze, senza sottoposti, senza introiti derivanti dalla riscossione di rendite, senza aiuti e servitù signorili, tanto che l’intera rete, che i primi benedettini avevano costruito per guadagnarsi da vivere, anche dopo il passaggio di campo si appoggiò sempre più ai monasteri benedettini divenuti cistercensi e non si adeguò senz’altro alle nuove esigenze. Ma anche nel caso di nuove fondazioni potevano insorgere problemi. Infatti nei territori inospitali prediletti dai Cistercensi - in cui ad esempio, quando erano in altura, non era affatto possibile la coltura di verdure prescritta per il sostentamento - come altro si potevano ottenere i viveri necessari al mantenimento della comunità monastica, se non fornendo servizi, ad esempio con il lavoro ai mulini, dalle cui entrate si poteva finanziare l’acquisto di viveri sufficienti? Gioacchino stesso dovette fare quest’esperienza con la sua nuova fondazione di San Giovanni in Fiore e si vide costretto a compromessi. Compromessi che però entravano in collisione con le normative dell’epoca delle origini, che avevano previsto una forma di economia autarchica, al di là di ogni aspirazione al profitto. L’impetuosa espansione dell’Ordine portò pertanto inevitabilmente ad alcune tensioni e di conseguenza a delle dispute sull’indirizzo da assumere, che raggiunsero un primo culmine alla metà del XII secolo, e da allora si infiammarono nuovamente a più riprese. All’epoca in cui Gioacchino era abate di Corazzo raggiunsero un ulteriore culmine, quando il capitolo generale nel 1189 insediò una commissione che un anno dopo avanzò delle proposte per la risoluzione dei problemi. Non sorprende che non venne deciso alcunché di radicale, nel senso di un rigido orientamento verso l’ideale originario, e che da allora l’Ordine si fece colonizzatore e imprenditore economico, con immenso successo - ma per così dire nella direzione sbagliata, se commisurata all’impulso originario.

In questo contesto va inserita l’aspra critica interna all’Ordine portata avanti da Gioacchino nella seconda parte del Tractatus. Non è la reazione alle flebili risoluzioni del capitolo generale del 1190, ma al contrario l’unica voce critica, giuntaci con nitore, che può aver portato all’insediamento della commissione di riforma del 1189, il cui fallimento - riferito ai postulati dei riformatori - spinse Gioacchino alla secessione, con la fondazione prima di un proprio convento, San Giovanni in Fiore, molto in alto sui monti della Sila, e poco dopo (1196) di una propria congregazione indipendente da Cîteaux: l’Ordine florense. Le tappe intermedie di questo sviluppo sono facilmente individuabili. La seconda parte del Tractatus ne delinea il presupposto argomentativo-ideale.

La critica di Gioacchino si rivolge agli elementi fondamentali: egli caratterizza l’Ordine come un mixtum compositum di componenti costitutive canoniche ed eremitiche. Che vanno d’accordo quanto l’acqua con il fuoco. Uno dei due elementi deve necessariamente fare una brutta fine. Chi aspira alla perfezione eremitico-monastica deve necessariamente dire addio agli elementi di commistione con il secolo, altrimenti questo finisce per divorarlo. Un processo, questo, la cui rapidità è mostrata poi in una critica tanto breve quanto distruttiva dei fenomeni concomitanti con l’espansione dell’Ordine, che ne ledono gli statuti e che culminano nel seguente verdetto: «non senza una certa offesa alla nostra forma di vita monastica tutti sono divenuti affaristi e avidi, ma anche oltremodo interessati». Fondamentalmente, questo non sarebbe altro che un ritornare al monachesimo tradizionale, collocato sotto il motto dell’«avaritia», la brama di beni mondani. Occorre rendersi conto di che cosa significhi per il canone medievale, e non solo, della concezione dei valori, se la «sollicitudo» - la cura del funzionamento appropriato del mondo che ci è stato affidato - viene marchiata come il male fondamentale della forma di vita monastica! Importa meno che Gioacchino parli in chiave restrittiva solo di un eccesso di questa sollecitudine ansiosa, se si considera con quale radicalità egli cerchi di andare a fondo nei vizi del proprio ordine, poiché la virtù della «sollicitudo» non conosce limiti nella determinazione del suo valore.

Eppure, con tutto il suo rigore nel richiamare le norme monastiche, Gioacchino è consapevole di quanto sia inevitabile immergersi nella sfera mondana anche per i migliori tra tutti i monaci. Impiegando la metafora della montagna, è quanto mostra attraverso l’esempio di Benedetto. Benedetto fuggì dal suo monastero, divenuto un covo di vizi, e si recò sulle alture montuose, poiché le cime sono certamente erte, ma anche elevate, la vita lì è austera e nutre solo pochi, ma è quanto mai adatta alla contemplazione. Poiché cresceva il numero dei confratelli, dice Gioacchino, crebbe necessariamente anche la proprietà e con questa la cura di essa («sollicitudo») - di conseguenza incombeva l’essere assorbiti, in ultima analisi, nelle futilità. Era così segnata la via per l’élite monastica: scomoda, ma appropriata alla santificazione. Ma come fare con gli allievi che non riescono a calcare un sentiero così erto? È quanto Gioacchino mostra attraverso il rapporto di Benedetto con sua sorella Scolastica: in quanto donna fragile, le è sbarrato l’accesso al monte della pura contemplazione. (Ella è simile in questo all’Ordine cistercense - questa l’esplicita asserzione di Gioacchino!). Di conseguenza, Benedetto dovette scendere da lei nei bassopiani, altrimenti avrebbe leso il comandamento dell’amore per il prossimo. L’esempio è pensato per indicare la via ai monaci capaci di perfezionare la loro vocazione contemplativa, di curarsi sì dei fratelli più deboli - ma solo quando si tratta di una necessità, e solo in una forma adeguata alla missione spirituale.

È la medesima ambasciata che Bernardo di Clairvaux aveva predisposto nel De consideratione per il suo confratello e allievo, papa Eugenio III: non negarti alle pretese del tuo ufficio, ma non lasciarti inghiottire! Gioacchino muove un passo ulteriore: schizza un profilo in piena regola del monaco. Al vertice ci sono naturalmente coloro che sono pronti e idonei alla modalità di vita eremitica nello strappare non senza fatica. Un ausilio potrebbe esser fornito dalla pietà eucaristica, questa l’audace proposta gioachimita: infatti se uno resta attaccato alla carne, allora tanto più deve attaccarsi alla «carne» di Cristo più che a quella del suo prossimo. Immergersi nell’essenza umana del Cristo per sublimare la prigionia nel creato e nel prossimo! Il secondo gruppo è rappresentato da coloro che, nella linea di Scolastica, potrebbero sì appartenere all’élite monastica, la cui vita si svolge in condizioni eremitiche, e sulla base dei loro voti vi sarebbero anche propriamente obbligati, ma che per via della propria debolezza non ne sono in grado. A testimonianza della qualità pastorale di Gioacchino, si noti come egli non inveisca contro tale cerchia di persone né le abbandoni al proprio destino, ma garantisca loro il conforto spirituale, esigendo solo ciò che possono sopportare. Non ha senso discutere con fratelli deboli del grado supremo di perfezione della forma di vita monastica: nel loro caso, è opportuno indicare soltanto una condotta di vita moralmente immacolata; se è negata loro la corona della perfezione monastico-eremitica, potrebbero evitare la colpa del peccato. A volte vale proprio la pena di leggere i consigli dispensati da Gioacchino! Gli pare semplice reperire il rimedio salvifico per quei fratelli che seguono i precetti della Regula non per convinzione interiore, ma unicamente per adempiere al loro dovere di obbedienza, e per il resto sono buoni a ogni nefandezza: una buona dose di legnate - anche questo secondo il modello di Benedetto! Gioacchino prende molto più sul serio quel tipo di monaco che fa assurgere gli affari mondani affidatigli a contenuto della propria vita, mettendo così a repentaglio la salvezza della sua anima, qualora non gli si mettesse freno. È quanto Gioacchino esige dall’élite monastica dei contemplativi: che essa, nel metter sugli scudi la propria esistenza spiritualmente confortevole, presti aiuto ai fratelli che in tal modo versano in stato di bisogno. In generale: chi si perde sulla cattiva strada che porta a una vita comoda, lontana dalle traversie della povertà, non deve temere che ciò lo conduca irrimediabilmente alla rovina, e l’ansia di combattere tali tendenze non deve ostacolare i passi necessari a consolidare la perfezione monastica: piuttosto è necessario affidarsi al volere dello Spirito divino, contando sul fatto che Dio lascia sì che l’uomo sia tentato da Satana, ma non che ne venga annientato.

Considerando le differenti asserzioni di Gioacchino sull’Ordine dei cistercensi nella parte I e nella parte II del Tractatus, si è creduto di poterne dedurre una modifica della sua valutazione del ruolo dell’Ordine nella storia della salvezza, così che nella parte I questo rappresenterebbe quasi l’ultima parola della storia del monachesimo, nella parte II invece costituirebbe solo una stazione intermedia. Non credo che questa sia una rappresentazione corretta. L’origine della diversa accentuazione risiede nella differente finalità argomentativa delle diverse parti del trattato. Nella prima parte, alla luce dello specchio deformante del monachesimo benedettino tradizionale di impronta cluniacense, è in gioco lo   sviluppo del criterio del giusto monachesimo, in modo da far svettare la figura ideale dell’originaria condotta di vita cistercense. Già nel monito di non prendere la libertà appena ottenuta come pretesto per il «peccato» - ossia di tornare sulla via di Cluny -, ma di comportarsi come veri eredi di Benedetto in conformità al dono divino di questa elezione, si annuncia la tematica della parte II del Tractatus. Lì Gioacchino, nella cornice della sua dottrina dei tre stati - sul fondamento esegetico, soprattutto, dei capitoli 33-35 della Vita di Benedetto -, sviluppa l’idea secondo cui come il vescovo Germano simboleggia l’ordo dei chierici o dei vescovi del secondo stato e Benedetto il monachesimo contemplativo del terzo stato, così Scolastica simboleggia il tipo del monachesimo cistercense come elemento intermedio («mediatrix») tra i due, ossia - questa la sua descrizione - un mixtum compositum di condotta canonica e monastica, che storicamente cesserà di esistere con la fine del secondo stato. Questa valutazione non è affatto in contraddizione con la lode della prima parte del trattato, una sorta di inno alla beata gens, il «populus quem elegit Dominus in hereditatem sibi», poiché si deve notare che Gioacchino nella seconda parte vuole distinguere tra l’impronta istituzionale del primo Ordine cistercense, che è esistito davvero anche nel suo tempo, e la sua figura futura, che per così dire attraversa il millennio. Questa distinzione viene espressa attraverso un simbolismo numerico, dividendo il numero dodici in cinque e sette: il dodici sta simbolicamente per il numero complessivo dei monasteri dell’Ordine, in analogia con i dodici monasteri fondati da Benedetto a partire da Subiaco. La loro divisione in cinque e sette viene interpretata da Gioacchino come una sequenza temporale graduale nel compimento della missione storica dell’Ordine, in analogia con le cinque e sette tribù d’Israele, nelle cui mani Giosuè in tempi diversi aveva affidato il destino nella Terra promessa, oppure in analogia con la divisione della Chiesa nei cinque patriarcati e nelle - Gioacchino intende più recenti - sette chiese micro-asiatiche sotto l’egida spirituale di Giovanni. Occorre rappresentarsi l’Ordine cistercense come suddiviso sul piano istituzionale negli stessi segmenti: all’inizio ci sarebbero le cinque abbazie madri di Cîteaux, La Ferté-sur-Grosne, Morimond, Clairvaux, Pontigny, cui si aggiungerebbero alla fine del secondo stato le sette abbazie, su cui Gioacchino naturalmente non può ancora dare indicazioni più dettagliate. È il ramo dell’Ordine cistercense rappresentato in queste sette abbazie, innervato dallo spirito contemplativo, quello a cui apparterrebbe il futuro escatologico nel compimento della missione di Benedetto, mentre la linea cistercense primitiva e ancora dominante all’epoca di Gioacchino sotto le cinque abbazie-madri, in analogia con la determinazione di Scolastica quale tipo storico, non riuscirà a configurare un passaggio dal secondo al terzo stato. Secondo questo modello, i Cistercensi avrebbero potuto e dovuto essere l’Ordine del futuro - ma in una forma che avrebbe dovuto sensibilmente distinguersi dalla realtà dell’Ordine nell’anno 1187.



Ritorno alla pagina iniziale "Storia del Monachesimo"



Ora, lege et labora | San Benedetto | Santa Regola | Attualità di San Benedetto |

| Storia del Monachesimo | A Diogneto | Imitazione di Cristo | Sacra Bibbia |


 

14 aprile 2015              a cura di Alberto "da Cormano"       Grazie dei suggerimenti        alberto@ora-et-labora.net