Monachesimo e mondo d'oggi

Estratto da "Pedagogia viva. Cîteaux novecento anni dopo" [1]

di Cristiana Piccardo O.S.B.

Jaka Book 1999

INTRODUZIONE

 

Le pagine che seguono non rappresentano uno studio ben documentato. Si tratta di semplici chiacchierate all'interno di una specifica comunità, tra persone note e amate, Uno scambio semplice e molto familiare su un'esperienza vissuta insieme, insieme sofferta, insieme sviluppata in alcuni orientamenti pedagogici che ci hanno aiutato a vivere una fedeltà a Dio, alla Chiesa, all'Ordine, alla Casa. Si tratta solo di lasciare che il ricordo affiori nel presente, che un passato germini nell’oggi, che la gratitudine per la misericordia ricevuta proietti nel futuro la speranza di cui abbiamo vissuto. Pagine povere dedicate alla comunità di Vitorchiano [2], ricca delle sue figlie, delle sue fondazioni, della misericordia di Dio che in lei sovrabbonda senza misura.

Perché offrire alla pubblicazione, e dunque ad un lettore ignoto, queste pagine? Perché siamo certe che, nella dinamica delta salvezza, ciò che è stato importante e prezioso nella nostra piccolissima realtà può avere un significato che va ben oltre noi. Perché siamo certe che, nel respiro della Chiesa, ciò che è vissuto in un punto nascosto è a beneficio del tutto. Perché abbiamo sempre creduto e voluto che ogni nostro passo, ogni nostra, sia pur incerta, ricerca, fosse per il mondo. Infine perché abbiamo creduto e crediamo che il carisma monastico possa essere un talento prezioso proprio per questo nostro mondo di oggi; e ci sono momenti storici in cui ciò che solitamente rimane nascosto è bene sia detto.

 1. Monachesimo e mondo d'oggi

Con la, così detta, morte delle ideologie, che erano pur sempre il tentativo di una risposta alla domanda di felicità che è al cuore di ogni uomo, non solo non esistono più oggi risposte convincenti o per lo meno l'utopia di una risposta, ma si verifica un attutimento delle domande. E la perdita di domande appare infinitamente più grave della perdita di risposte. Tuttavia c'è un passo ulteriore che val la pena di menzionare. In un vecchio articolo, ma non superato, di «Le Monde», un pensatore uruguaiano, Eduardo Galeano [3], parlava di «rottura della memoria». Cito letteralmente il testo che mi sembra avere una certa importanza per definire il volto attuale del mondo:

«La cultura del consumismo che spinge verso il mercato condanna tutto ciò che vende alla immediata dimenticanza: le cose invecchiano in un batter d'occhio per essere rapidamente rimpiazzate da altre cose, altrettanto effimere. Lo shopping-center, tempio in cui si celebrano le messe dei consumismo, è un simbolo eccellente dei messaggi che dominano la nostra epoca; esso esiste al di fuori del tempo e dello spazio, non ha né età né radici, non ha memoria. La televisione è il miglior vettore di questi messaggi. C'innaffia di immagini che nascono per essere immediatamente dimenticate. Ogni immagine seppellisce l'immagine precedente e non sopravvive all’immagine successiva. Gli avvenimenti umani, divenuti oggetto di consumo, muoiono, come le cose, nell`istante stesso in cui sono utilizzati. Ogni notizia è senza legame con le altre, divorziata dal proprio passato e dal passato di ogni altra informazione. Nell’era dello zapping, l'eccesso di informazioni produce un eccesso di ignoranza. I mass media e la scuola non ci aiutano a capire la realtà e a ricostruire la memoria. La cultura consumistica che è cultura alienante, ci condiziona a credere che le cose succedono perché devono succedere. Incapace di riconoscere la sua origine, il tempo presente proietta sul futuro la propria ripetizione: domani è un altro oggi».

E conclude:

«Ma la memoria è viva, la memoria non contempla la storia, la memoria fa storia, è nell'aria che respiriamo. La memoria ci respira (...) A volte ci capita di rimpiangere un passato che ci inventiamo, e di preferirlo ad un presente che ci sfida, ad un avvenire che ci spaventa. La memoria non è un punto di arrivo, ma un punto di partenza. Non rinnega la nostalgia di un passato, ma preferisce la speranza, il rischio, le tempeste del presente. I Greci dicevano che la memoria era figlia del tempo e del mare: e non avevano torto».

Il papa nel suo messaggio per la Giornata Mondiale della pace del 1997 non ha esitato ad affermare: «Non si può rimanere prigionieri del passato: occorre, per i singoli come per i popoli, una sorta di ‘purificazione della memoria‘».

E la memoria è per Giovanni Paolo II la coscienza di un passato che germina nell’oggi come responsabilità dell'istante vitale in cui ci muoviamo e che si volge al futuro come speranza.

La domanda è chiederci se abbiamo ancora una memoria, se il mondo in cui viviamo respira ancora una cultura della memoria.

È affermazione ormai comune che il nichilismo ed il panteismo dettano troppi comportamenti umani e sociali dell'oggi. La percezione delle cose come illusorie o come il nulla che non veicola alcuna partecipazione dell’uomo all’Essere, o il confluire indistinto dell'esperienza umana in quel «mare dell'essere» proprio del panteismo, negano la dimensione autentica della persona, la sua individualità, la sua responsabilità. E, in certo qual modo, negano la sua memoria e la consegnano o all'arroganza del farsi dal sé, o alla percezione frammentaria nell'urto delle circostanze, o alla omologazione della propria individualità in un pacificante stordimento.

Appare nel mondo d'oggi il triste spettacolo di vite senza spessore di esistenza, prive non solo di memoria storica, ma di quella memoria ben più consistente che è la coscienza di un'origine, di una tradizione e di un destino. Da qui la radicale soggettivizzazione di ogni esperienza umana ed anche della religiosità e della morale, in cui un relativismo di credenze e di comportamenti etici è ormai eretto a sistema.

Forse una seconda caratteristica del mondo attuale potrebbe essere quella che chiamano la «quarta guerra mondiale del neoliberalismo». Sembra che, dopo la bomba atomica che distrusse Hiroshima, sia nata la bomba al neutrone che distrugge la vita rispettando le costruzioni esistenti, per arrivare oggi alla bomba finanziaria che distrugge le nazioni (e di conseguenza l'identità dei popoli) facendole diventare una semplice pedina nel gioco della mondializzazione economica. Una guerra planetaria contro l'umanità, la sua memoria culturale, le sue differenze artistiche o scientifiche, le sue libere scelte di modalità di produzione e mercato, di sopravvivenza e sviluppo secondo il genio tipico di ogni popolo. Il fenomeno di un imbarbarimento economico indice di un imbarbarimento culturale le cui linee anonime di collegamento sono egregiamente fornite dai mass-media e dall'esplosione informatica. Si sviluppa logicamente una mentalità e una cultura di mercato. A parte le conseguenze sociologiche di tale cultura - accumulo e manipolazione della ricchezza, aumento della povertà in aree sempre più vaste, permeate di disoccupazione e precarietà, aumento della criminalità organizzata sorto le forme più svariate -, è la trasformazione culturale e si direbbe antropologica ciò che più colpisce. Una cultura di mercato inevitabilmente elimina, come prassi normale (ed è tale «normalità» che spaventa), l'inutile e propone l'efficiente; scarta la gratuità di ogni spazio e tempo per coltivare solo l'intensa commercializzazione, non edifica cattedrali, ma centri commerciali; non respira in silenzi contemplativi, ma si condensa in discoteche in cui è sovrano il rumore e l'oblio dell’individualità; non costruisce memoria, ma inghiotte voracemente il passato, con la sua densità storica, nell'effimero di una moda immediata che scompare così come nasce.

Si potrebbe accennare anche all'angoscia dell'intensa settorializzazione a cui assistiamo. In qualsiasi campo della vita individuale e sociale si procede ormai per specializzazioni estremamente settorializzate. Per diagnosticare una malattia occorre ormai consultare una decina di specialisti diversi e per curarla ci si deve muovere in settori assistenziali ed ospedalieri ben compaginati in unità ben differenziate. Il problema non è la specializzazione, ma la totale perdita di una visione unitaria della vita, dell'uomo, del mondo: si raggiunge forse il dato specifico, ma non si riesce più ad inquadrarlo nel mistero della persona, nella complessità unitaria dell'uomo e della vita. Certamente non è da ascriversi alla settorializzazione sociale e antropologica il tremendo pullulare di sette religiose o pseudoreligiose emergenti ovunque, e tuttavia si è tentati di applicare la settorializzazione culturale che frammenta la convivenza sociale anche alla dimensione religiosa dell'uomo, e al suo desiderio di felicità e di infinito, che si canalizza verso forme gnostiche che riducono la visione unitaria dell'uomo e del suo destino ad esperienze estremamente limitanti e parziali, ammantate di iniziazione misterica, di emozioni pseudomistiche e della metafisica dell'autoaffermazione.

Brevissimi spunti del volto contingente del mondo in cui viviamo e che domani si diversificherà ancor più in infinite modalità espressive nella veloce trasformazione sociale. Di fronte a questa realtà e alla sua provocazione si pone il monachesimo di oggi e di sempre, e la domanda sul suo significato è ineludibile. Che cosa è mai il monachesimo?

Il monachesimo non è un tentativo di risposta; non è un sistema di credenze; non è nemmeno una specifica religione: il monachesimo è una visione dell'uomo e del suo destino; della vita e del suo divenire; del tempo e della sua dimensione escatologica; dello spazio e della sua proiezione oltre la precarietà del limite contingente, che scaturisce come sorgente viva dal mistero della creazione, dell'incarnazione, della redenzione, della resurrezione e della trasfigurazione. È, cioè, una visione esistenziale che procede dalla fede, nella fede, verso la fede totale. Il monachesimo prorompe dalla costante ricerca umana di pienezza di senso e di significato; è tensione vitale verso la felicità: è memoria che trascende il tempo, ampiezza escatologica del futuro; è movimento di conversione e trasfigurazione dell'essere: parte dall'incarnazione e all'incarnazione ritorna, per incontrare nella persona unica ed infinita del Figlio di Dio, salvezza e destino, principio e fine, la pienezza della vita e la fonte di ogni sussistenza.

In questa cultura del non senso («cultura della morte», diremmo con Giovanni Paolo II), il monachesimo si propone come il senso positivo dell'uomo e della vita, si propone come spazio di umanità nuova. Viktor Frankl [4], il fondatore della logoterapia, afferma di avere un unico interesse primario nella sua vita: «Ho trovato il significato della mia vita nell’aiutare altri a trovare nella loro vita un significato». Un'affermazione che, in parte, esprime anche la realtà monastica: ricupero di un significato o, meglio, esperienza umana che riceve dal Figlio di Dio pienezza di contenuto; un significato così radicale della vita e del destino da poterlo proporre al mondo come esperienza di vera umanità.

Dalla ricchissima tradizione cisterciense emerge, a mio parere, esattamente questo: una particolare ricchezza di umanità, una visione dell’uomo, della vita, del tempo, dello spazio, che danno dimensione di gratuità e bellezza all’esperienza umana; una concezione della relazione e della convivenza che spazia nel campo dell'amicizia e della comunione come spazio connaturale; il significato di una conversione verso una trasfigurazione, «conformazione», che supera l'angusto limite dell’ambiziosa affermazione mondana e dà all’uomo un'immensa possibilità di incontro con l`infinito e con il reale. È quindi la proposta di un senso alla cultura del non senso, Viktor Frankl fa un'altra affermazione interessante: «Se cerco la ragione più nascosta della motivazione per la quale ho creato la logoterapia, posso menzionare una cosa soltanto: la pietà per le vittime del cinismo contemporaneo». Ed è impressionante che uno scienziato, uno psichiatra, denunci il cinismo contemporaneo (e che cosa è più evidente del non senso, come cinismo dell'epoca) come la malattia più contagiosa e mortale dell'epoca in cui viviamo.

 

2. L'uomo, la vita, il tempo e lo spazio

nella tradizione cisterciense

 

Un tentativo di risposta monastica al mondo d’oggi si situa:

-           al livello della memoria o meglio del «ricupero di memoria»;

-           al livello della dignità e grandezza dell’uomo di fronte ad una mentalità di mercato che lo depaupera della sua identità;

-           all’insegna di una visione unitaria dell’uomo e del suo destino, nello spazio e nel tempo, di fronte all'attuale frammentarietà esistenziale nella quale siamo immersi, di fronte al settarismo e al relativismo incontrollabile che oggi respiriamo.

I padri cisterciensi hanno una risposta stupefacente alla problematica moderna proprio a livello antropologico. Un'antropologia che ricorre in tutta la patristica cisterciense come una linea precisa di congiunzione di un pensiero comune. Essi considerano l'uomo come il capolavoro dell’amore di Dio: l'uomo creato per amore; frutto dell’espansione straripante dell'intrinseco amore trinitario, essenza stessa della divinità. È il capolavoro della creazione, destinato a partecipare all’infinita pienezza della vita di Dio in un cammino di libertà e conformazione che la coscienza e il desiderio sostengono. Un sigillo, quindi, di positività amante che l’atto creatore di Dio imprime nell’uomo e che nulla potrà cancellare, nemmeno la più inconcepibile negatività della ribellione e del peccato umano. Egli trae significato da un'origine amante e riveste l'uomo di bellezza e dignità incancellabile.

Tale visione dell’uomo e della vita è totalmente unitaria, unificata e unificante, perché è l’amore stesso di Dio che, penetrando l'uomo, lo strappa alla frammentarietà e alla divisione del peccato e lo rende capace di varcare il limite terreno e temporale della propria contingenza, già nell'oggi, per mezzo della carità.

In Baldovino di Ford, che esprime una delle visioni antropologiche più compiute e precise, e più care alla patristica cisterciense, troviamo l’affermazione: «Dio non ci ha amato nell’apparenza e dall’esterno, quasi alla superficie del nostro essere, ma ci ha amato dal di dentro, dalla più profonda interiorità del nostro stesso essere, quasi visceralmente» [5], e il Dio che ama l’uomo senza misura, nel dono trinitario e perfetto di se stesso, riconduce costantemente l’uomo dalla frammentarietà del suo disordine interiore ed esteriore all’unità essenziale della forma creativa originaria, e lo dilata nella carità per l’abbraccio conformante della Sua misericordia.

Unificazione e dilatazione vanno, in Baldovino di Ford, di pari passo: vittoria sulla frammentarietà e approdo all’unificazione nell’amore si condensano nella sua antropologia. Ed è interessante cogliere in Baldovino come l’allontanamento dall’amore di Dio, vera consistenza dell’uomo, decentri l’uomo da se stesso e lo separi dalla sua stessa identità: «Coloro che vagabondano al di fuori di se stessi, e camminano verso desideri molteplici e fallaci, si allontanano come insensati dal proprio cuore e si volgono alle stravaganze della menzogna». Da qui la concezione dello spazio come interiorità. Lo spazio è permanere al cuore del proprio cuore: «L’uomo che vive in disaccordo con la sua ragione e si è allontanato dal suo centro vitale (dal suo cuore) è come privato della sua terra, e vive esule, sradicato da se stesso, nella regione della dimenticanza e della dissomiglianza». Solo l’uomo che ritrova le sue radici e che capta la sua umanità al cuore del mistero della creazione e, in particolare, l’uomo che incontra il mistero della redenzione balza dalla dimenticanza alla memoria, dalla dissomiglianza della frammentarietà alla verità della sua unificazione nell’identità filiale. Ricupero di verità e memoria che non solo tocca l’uomo nella sua essenza, ma anche nella relazione. Di fatto quando l’uomo elimina interamente dal suo cuore l’amore mondano e unifica il suo sguardo interiore, lasciandosi permeare dalla divina carità, il suo essere si fa spazio di accoglienza, capacità di comunione, trasparenza di verità, concentrazione di unità nella libertà. E da tale spazio interiore che sgorga l’amore del prossimo, un amore che in Baldovino si fa tenero e forte, autentico e penetrante, denso di memoria e di significato.

La vita monastica riconduce l’uomo a se stesso, alla sua umanità, al suo cuore, alla sua identità. Il cammino necessario è quello dell'obbedienza, in cui l’amore si fa carne del quotidiano e stabilisce la somiglianza con il Figlio che «imparò l’obbedienza dalle cose che patì» (Eb 5,8). «La carità - mediante l’obbedienza - sottomette tutto a Dio, tutto dispone secondo il suo decreto e consiglio, accoglie ciò che è indispensabile, indica ciò che è necessario, sceglie ciò che è migliore». L’uomo, a causa del peccato, si è fatto estraneo a Dio (l’estraneità è uguale ad assenza di memoria), ed estraneo a se stesso. Vincere l’estraneità del cuore, la smemoratezza dell’anima, è l’ascesi monastica che Baldovino propone come essenziale al cammino della conversione a Dio. Solo il cuore che sempre più tende ad offrirsi consapevolmente e totalmente a Dio ridiventa familiare all’uomo stesso, cessa l’estraneità e l’uomo rientra nella sua terra: la terra del suo cuore. Il cuore non offerto permane estraneo all’uomo: è il cuore donato a Dio che diventa proprio all'uomo, terra benedetta della sua identità e della sua libertà.

«(Ora il tuo cuore non ti appartiene, non è terra tua), ma se comincerai ad amare Dio nella misura in cui Dio ti chiede di amarlo, giungerai ad amarlo sempre più totalmente ed allora il tuo cuore sarà perfettamente tuo (...) Dio è un creditore generoso e retribuisce senza misura il debitore che paga tutto quello che può, affinché possa pagare sempre più e possedere sempre più vastamente la sua terra».

In Baldovino la purificazione del cuore, che si opera solo attraverso l’amore di Dio che libera il cuore dall’amore mondano, è legata all’immagine che egli ha di spazio. Quando Baldovino parla di spazio non comunica solo un’idea di ampiezza, ordine, bellezza che viene dall'orientamento di ogni cosa e di ogni atto al suo fine ultimo; non è nemmeno unicamente l’immagine della terra promessa, la terra del cuore, finalmente resa all’uomo che ricupera la sua figliolanza; lo spazio ha in Baldovino un riferimento preciso alla comunità monastica. Permanere nello spazio che la Provvidenza ci ha assegnato, grazia della stabilità e della convivenza; fedeli all'ordine stabilito da Dio, secondo la vocazione ricevuta, concordando con l’obbedienza all’armonia voluta dal Padre, è come creare quella musicalità universale, quella melodia infinita a cui Baldovino presta il nome di «cetra», proponendoci una comparazione di grande sensibilità poetica. L’obbedienza e la permanenza stabile ed umile al proprio posto nella comunità hanno una risonanza melodica immensa. E nella propria comunità che il plettro della carità muove le corde individuali dell’unica cetra e fa risuonare nella convivenza l’ineffabile melodia della vera reciprocità [6].

Dall’antropologia Baldovino passa all'ecclesiologia come normale conseguenza: la visione dell’uomo in cui l’amore di Dio crea spazi di memoria come origine e identità, e di obbedienza liberante, apre l'accesso alla terra promessa della vita ecclesiale, in cui la reciprocità crea consonanze melodiche che già sulla terra hanno la perfetta sintonia del cantico eterno del paradiso. La Chiesa è il luogo del popolo liberato, dell’umanità ricondotta all’armonia fontale della creazione.

Commentando i versi di Clemente Rebora:

«Quando si eleva il cuore all’amoroso dono

non più s’inventan gli uomini,

ma sono...»

don Luigi Giussani dice: «Quando il cuore si eleva a percepire che tutto è dono, quando fa tale scoperta, allora gli uomini non s'inventano più, non inventano più se stessi, non si fingono, non debbono immaginarsi, ma finalmente sono. Acquistano quella consistenza che di fronte ai loro occhi hanno le stelle». E Baldovino direbbe: quella consistenza che crea l’infinita melodia di una cetra ben accordata, da cui il plettro dell’amore trae la bellezza dei cori angelici. O meglio, direbbe che finalmente l’uomo non si inventa più perché si scopre al cuore stesso del mistero trinitario, e in quell’amore che è il sigillo indelebile della sua umanità incontra «quella consistenza che di fronte ai suoi occhi hanno le stelle» [7].

I concetti di memoria, spazio, unità, dignità, grandezza dell’uomo fluiscono dalla visione e dalla dottrina di Baldovino con una semplicità e immediatezza che, a distanza di otto secoli, ancora stupisce ed è risposta all’oggi con evidenza profetica.

Un altro padre cisterciense dall’antropologia attualissima, profonda e unificata è certamente Aelredo di Rievaulx che concepisce l’uomo precisamente come memoria, intelligenza e amore [8]. Nella struttura essenziale dell’uomo è impressa la forma, cioè l’indelebile sigillo trinitario. Colpisce in questo padre, come già in Baldovino di Ford, l’insistenza sull'indelebilità della forma:

«Per l’uso perverso del suo libero arbitrio l'uomo si è allontanato dal Sommo Bene (...) Per l’affetto disordinato del suo cuore, e il prevalere dell’umana superbia, l’immagine di Dio si è corrotta nell’uomo (...) Tuttavia l’impronta della divina Trinità permane nella natura trinitaria dell’anima razionale, perché nonostante la sua miserabile condizione, tale impronta è stata indelebilmente impressa nella sua essenza» [9].

L’uomo si è allontanato da Dio, erra nelle regioni dell’estraneità e della dissomiglianza, è catturato dalle tenebre dell'umana concupiscenza e dal limite di ogni frammentarietà, e tuttavia in lui mai si cancella la divina impronta trinitaria, indelebilmente impressa nella sua stessa essenza, poiché tale impronta deriva dall’incorruttibile essenza trinitaria. Da tale visione antropologica fluisce la teologia di Aelredo e la sua dottrina dell'ascesi dell’amicizia, su cui costruisce il cammino della conversione monastica e la grazia della convivenza fraterna; un’ascesi dell'amicizia che appartiene alla medesima forma trinitaria impressa nella persona umana, poiché nella Trinità Santa tutto è reciprocità, mutua fedeltà, infinita penetrabilità e scambio d’amore. Colpisce in Aelredo il senso profondo dell’uomo, di tutto ciò che riguarda l'umano; della relazione, della convivenza fraterna che lui concepisce come fonte concretissima di santificazione. L’amicizia infatti non è un sentimento, ma un’opzione di fede e di ragione che esige una purificazione e un dono incondizionato di sé, ed è sempre vittoria su ogni tentazione di possessività ed egoismo. Egli definisce l’amicizia appunto come:

«La mutua sollecitudine per il bene dell’altro, la mutua riverenza e stima, la gioia per il progresso dell’altro come fosse il proprio progredire, il pianto per la caduta dell’altro come fosse la propria caduta» [10].

È come la conferma che veramente al di fuori di un atteggiamento cordiale e sincero di amicizia verso l’altro, verso l’uomo, ogni relazione è menzogna.

L’altro, l’uomo, ha in Aelredo una profonda risonanza evangelica, e tocca il concreto esistenziale per umanizzarlo nel respiro delle beatitudini: «Fare ogni sforzo per sostenere il pusillanime, per sollevare chi è infermo, per consolare chi è triste, per sopportare l’irascibile»16. Ed arriva ad una tale delicatezza di tratto che chiede ai suoi monaci di fare in modo che «l’errore non ricada mai su chi lo ha commesso perché non debba arrossirne, ma colui che ha visto l’altro commettere l’errore ne assuma il peso come fosse stato lui stesso a commetterlo, di modo che l’amico senta che colui che deve essere perdonato più che se stesso è l’amico del suo cuore».

Ritroviamo qui il clima inconfondibile delle beatitudini e il volto mansueto e sacrificato del Cristo che muore sulla croce assumendo come proprio il peccato dell’umanità: «Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno» (Le 23,34). L’altruismo dell’amicizia arriva in Aelredo a questo spazio di perdono all’amico che non solo gli impedisce di arrossire e sentirsi confuso per l’errore commesso, ma si sostituisce nell’umile espiazione, assumendo su di sé la colpa altrui e la sua conseguenza. Una sostituzione di umanità che paga con la propria vita, reputazione, stima, la liberazione dell'altro dal suo proprio male, nell’ascesi di un’amicizia senza calcoli. Siamo al vertice di una visione dell’uomo che raggiunge, in Aelredo, l’offerta crocifiggente del più consumato altruismo e della più feconda reciprocità.

Vertici che possiamo ritrovare solo in taluni grandi santi di oggi come Massimiliano Kolbe, che incarna certamente l’ideale estremo della visione aelrediana, o Teresa di Calcutta, o sconosciuti santi senza aureola come Etty Hillesum, la giovane ebrea miscredente morta ad Auschwitz, che scriveva:

«Ovunque si è, ciò che conta c esserci al cento per cento: il mio fare consiste nell’essere (...) La realtà è qualcosa che bisogna prendere su di sé con tutto il suo dolore e con tutte le sue difficoltà, c intanto che la si sopporta la nostra pazienza aumenta (...) E se si distruggono i preconcetti (del dolore) allora si libera la vera vita e la vera forza che sono in noi, c allora si avrà la forza di sopportare il dolore reale, nella nostra vita e in quella dell’umanità (con l’infinita pazienza dell’amore)» [11].

O in talune espressioni di Mounier, quando parla della sua piccola Françoise demente:

«Che senso avrebbe tutto questo se la nostra bambina fosse soltanto una carne malata, un po’ di vita dolorante e non invece una piccola, bianca ostia che ci supera tutti, un’immensità di mistero e di amore che ci abbaglierebbe se lo vedessimo faccia a faccia (...) Non dobbiamo pensare al dolore come a qualcosa che ci viene strappato, ma come a qualcosa che noi doniamo, per non demeritare di questo piccolo Cristo che si trova in mezzo a noi (...) Non voglio che si perdano questi giorni, dobbiamo accettarli per quello che sono: giorni pieni di una grazia sconosciuta» [12].

Siamo apparentemente in una condizione sociale diversa da quella espressa nella tematica dell’amicizia che ci viene da Aelredo, ma la visione dell’uomo che comunque emerge, è così colma di rispetto e di miracolo per la grandezza della sua natura che ci ritroviamo a distanze incommensurabili dall’immagine dell’uomo mercato, comune alla cultura moderna. D'altronde Giovanni Paolo II a Longchamp non ha esitato ad affermare, parlando a un milione di giovani:

«Amare consiste anzitutto in servire. Colui che non accetta di servire non può essere discepolo di Cristo. Al contrario colui che serve riceve la promessa della salvezza eterna (...) Servire è il cammino della felicità e della santità (...) Il trionfo e la gloria di Cristo passano per il sacrificio e il servizio. Non c’è amore più grande di colui che dà la vita per i suoi amici (e la vita non si dà solo morendo, ma anche servendo). Perché è l’amore che salva il mondo, costruisce la società e prepara l’eternità (...) Che l'amore e il servizio siano, giovani di tutto il mondo, la prima regola della vostra vita» [13].

La Chiesa, nel suo più alto magistero, conferma una tradizione di umanità che fiorisce da sempre nell'Ordine Cisterciense ed è come la linfa segreta che unisce i membri di una comunità e le comunità dell’Ordine tra loro: la legge dell’amicizia, l’imperativo della reciprocità, il gaudio del mutuo servizio, la forza del profondo rispetto che sa riconoscere nella ricchezza della differenza l'unicità del comune carisma.

La stessa dimensione di umanità fluisce a noi da ogni scritto di san Bernardo. Trarre dalle sue opere quel contenuto di umanità, che vorremmo qui sottolineare come tentativo di risposta al rischio di disumanizzazione contemporaneo, è impossibile in breve spazio. Ci basta citare alcune espressioni tratte dalle Lettere che manifestano lo spessore e la qualità di umanità di Bernardo nella relazione, Lettere in cui usa sovente un linguaggio che rasenta una sconcertante tenerezza:

«Tu piangi, carissimo figlio Rainaldo (...) Non riesco a non affliggermi se ti affliggi tu e, udendo le tue preoccupazioni e le tue angosce, a non essere anch’io preoccupato e angosciato (...) Già abbastanza e più che abbastanza mi tormento perché son privo di te, perché non ti vedo, non godo il dolcissimo sollievo che mi viene da te, sì che quasi mi pento d’averti allontanato da me. E per quanto la carità obbligasse a questo, quale che sia la necessità per cui t’ho mandato dove non mi è possibile vederti, ti piango come se tu mi sia mancato» [14].

O nella famosa lettera a Guglielmo di Saint-Thierry:

«Dio, che scruti i cuori, unico sole di giustizia che illumini differentemente le anime, io l’amo perché è tuo il dono c suo il merito. Questo Tu lo sai ed io lo sento, ma fino a qual punto io l’ami, Tu lo sai ed io l’ignoro. Tu solo, o Signore, che elargisci a noi questo dono. Tu solo conosci l’estensione del suo amore per me, del mio per lui» [15].

Tale ricchezza di umanità poggia da un lato sulla percezione, nitidissima in Bernardo, che tutto fluisce alla presenza di Dio e che la relazione umana, l'amicizia, la profonda reciprocità è solo continuazione e manifestazione dell’intima essenza dell’amore trinitario, della presenza del Signore tra gli uomini e del costante dialogo d’amore fra l’anima e Dio. Dall’altro lato, la ricchezza umana di Bernardo poggia sulla libertà, frutto della verità che costituisce in lui una ricerca continua e che non lo fa mai esitare a rimproverare duramente il peccato nel peccatore che ama:

«Oh ragazzo insensato! Chi ti ha sedotto a non assolvere i tuoi voti che proprio le tue labbra avevano formulati? (...) E questo te lo dico, figlio, non per confonderti, ma per ammonirti come un figlio carissimo perché, anche se hai molti educatori nella dottrina di Cristo, hai purtroppo pochi padri (...) Ti piango perché mi sei stato sottratto, ti reclamo perché mi sei stato portato via con la forza. Non posso trascurare le mie viscere, perché insomma, essendomene stata staccata una parte non piccola, il resto non può che torcersi dal dolore» [16].

Il rimprovero risuona forte dentro una quasi incredibile tenerezza che ha accenti materni più che paterni, rivelatrice di una forza affettiva e di una libertà del cuore che possono sorgere solo dalla coscienza certa dell’identità ontologica dell’uomo, creatura amata e voluta da Dio Padre. E ben sappiamo che la dissomiglianza è, in Bernardo, la perdita dell’identità ontologica della creatura umana. Bernardo non ne fa mai un problema morale, ma solo e sempre un problema ontologico. Ed è qui la sua grandezza, come in fondo la grandezza di visione di tutto il Medioevo, che parla di ontologia più che di etica. Ed infine la grande umanità di Bernardo nasce da quella grande umiltà che lo contraddistingue e che è il riflesso dell’amore alla verità che alimenta la sua visione della vita e dell’umanità. Una coscienza, quindi, dei suoi limiti che rende la sua anima, così come la sua capacità di affezione, assolutamente libere:

«Ho respinto ben a ragione da me con lo scudo della verità le altisonanti denominazioni di signore e di padre, con le quali credevi di onorarmi, ma non di onerarmi; al loro posto scelgo coerentemente per me le denominazioni di fratello e di compagno di servitù, sia perché è la stessa per noi l’eredità che ci è toccata, sia perché la nostra condizione è uguale» [17].

Interessante in Bernardo anche la concezione di tempo e spazio. A parte la sua classica visione del tempo come «giorno che spira» (la creazione), che «cospira» (il peccato dell'umana ribellione), che «respira» (la conversione), che «espira» (la morte), che «aspira» (il desiderio) [18]- per cui lo spazio temporale si riduce al «giorno» in cui memoria, coscienza, desiderio, costituiscono la dinamica perennemente vitale della temporalità aperta all’eterno -, è utile accennare qui anche alla sua idea di vecchiaia e giovinezza, che si connota nell’immagine evangelica dell'uomo terreno e dell’uomo celeste.

«La vecchiaia è nel cuore, nella bocca e nel corpo attraverso i quali abbiamo peccato in pensieri, in parole e in opere. Nel cuore sono i desideri carnali e mondani, cioè l’amore della carne e del mondo. Anche nella bocca c’è una doppia vecchiaia: l'arroganza e la calunnia. E nel corpo c’è la duplice vecchiaia della pesantezza e del crimine. Questa è l’immagine dell’uomo vecchio (...), ma se si escludono dal cuore i desideri mondani e carnali per far posto al desiderio di Dio e della vita eterna; se si allontanano dalla bocca l’arroganza e la detrazione e al loro posto sgorga la confessione vera dei nostri peccati e il giudizio buono del nostro prossimo; se al posto della pesantezza e del crimine germogliano dal nostro corpo la continenza e l’innocenza, allora l’uomo si rinnova ed entra nella perenne giovinezza dei santi» [19].

Il desiderio è in Bernardo l’immagine dello spazio fra il tempo e l’eterno. L’aspirazione intensa del cuore colma le distanze e riempie lo spazio di speranza e di attesa:

«Voglio con tutte le mie forze seguire l’umiltà di Gesù: desidero abbracciare per così dire con le braccia dell’affetto ricambiato Colui che ‘mi ha amato e ha sacrificato se stesso per me’ (Gal 2,20): ma è necessario anche che io mangi l’Agnello pasquale. Se infatti non avrò mangiato la sua carne e bevuto il suo sangue, non avrò vita in me stesso. Altro è seguire Gesù, altro è abbracciarlo, altro è mangiarlo. Seguirlo è un proposito salutare; amarlo e abbracciarlo è un gaudio solenne; ma mangiarlo significa la vita beata» [20].

Lo spazio è ancora la morada, cioè la dimora, che Bernardo distingue in tabernacolo, atrio e casa. Il tabernacolo ha un tetto, ma non fondamento: è portatile, perché i giusti non trovano spazio Fra le cose effimere dell’esistenza temporale, ma lo spazio del loro respiro è solo il Signore; tuttavia ha un tetto, cioè la copertura e la difesa della grazia divina. E la loro fede, che è il fondamento, non è nelle cose della terra, ma nel Signore. L'atrio è vasto ed è vicino alla casa, ed è lo spazio di coloro che hanno già abbandonato la strettezza della carne e respirano in ampi spazi di vita. Bernardo pensa a coloro che già hanno varcato la soglia della vita, ma si può pensare anche a coloro che, nella libertà dello Spirito, hanno raggiunto la vastità dell’amore. E l'atrio - ci insegna Bernardo - ha un fondamento, ma non ha un tetto perché lo spazio dell’atrio è colmo dell’amore di Dio, e già sul cemento incorruttibile della Fede l’uomo spazia nell’amore e si muove verso un'infinita pienezza.

E infine la morada della casa che non ha né tetto né fondamenta. Il suo fondamento è dato dall’eterna beatitudine e il tetto ne è la perfezione e la consumazione. La casa, la morada per eccellenza è dunque la vita eterna, ma tutto quaggiù può diventare morada se il desiderio sospinge l’uomo, attraverso la fede e lo spazio ampio e magnanimo dell’amore, verso la patria del Cielo.

E difficile a questo punto individuare in forma specifica l’apporto del pensiero e della spiritualità cisterciense alla problematica esistenziale dell’uomo moderno, ma è certo che tale tradizione monastica è tutta così impregnata di umanità, di coscienza ontologica della identità, grandezza e libertà dell’uomo; così vera nel gaudio della sua umiltà e nella dinamica del suo incoercibile desiderio, così amante di Dio e dell’uomo, fino all’impeto della più dolce tenerezza materna e paterna insieme, che già di per sé colma di speranza l’angoscia contemporanea ed è risposta all’ansia di destino che rende vivo ogni uomo.



[1] Nota del redattore del sito.

San Bernardo e i Cistercensi (da Dizionario di Storia della Chiesa di Di Guy Bedouelle - Edizioni Studio Domenicano).

Anche se S. Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) non ha fondato l’Ordine dei Cistercensi, fu tuttavia per quarant'anni il promotore, l'ispiratore e il vero simbolo di questa applicazione rigorosa della Regola di S. Benedetto da Norcia. E' infatti proprio all'interno dell`Ordine di Cluny che nasce l`esigenza di una vita più austera e più solitaria, nella quale siano vietate tutte le compromissioni finanziarie e materiali, e ci si dedichi all'educazione dei giovani e all’assistenza dei poveri.

Roberto di Molesme e Stefano Harding, giovane monaco inglese venuto in Europa Continentale per i suoi studi, ottengono il permesso del legato pontificio di fondare a Cîteaux - nel 1098 - un'abbazia dove seguire un'interpretazione letterale e rigorosa della Regola benedettina, caratterizzata dal lavoro manuale, dall`ascesi, dal silenzio e dalla solitudine.

Prima di ritornare a Molesme, Roberto lascia a Cîteaux un nuovo abate, Alberico, al quale succede Stefano Harding. Dopo le difficoltà iniziali, il nuovo Ordine si rafforza con l’entrata di Bernardo di Fontaine-lès-Dijon, accompagnato da una trentina di parenti e amici. Cîteaux si da allora una sua struttura con la “Carta della carità” redatta da Stefano Harding nel 1119. L'uniformità e la severità dell'osservanza si accompagnano all'autonomia delle abbazie unite dal vincolo della “carità” e dalla figura dell'abate della comunità fondatrice. Invece della centralizzazione preferita da Cluny, l'Ordine cistercense è fondato su uno scambio reciproco di doveri - ispirati da profonda carità - tra le abbazie figlie e le abbazie madri, tra le quali le cinque capostipiti: Cîteaux, La Ferté, Pontigny, Clairvaux, fondata da S. Bernardo, e Morimond.

Il successo dell’Ordine cistercense è subito immenso: alla morte di S. Bernardo esso conta già 343 abbazie. I monaci provengono sia dal laicato sia dalle abbazie cluniacensi, il che provoca per tutto il XII secolo delle frequenti polemiche, che la lettera inviata da Pietro il Venerabile, abate di Cluny, a S. Bernardo, ammirevole per spirito di pace, non riesce a placare che in parte.
Il successo di Cîteaux si spiega sia con la sua capacità di integrate il bisogno di ritornare alla severità delle abitudini cenobitiche - assai diffuso nell'XI secolo - innestandolo sull’antica Regola benedettina, sia con il suo riuscito tentativo di inserire nella vita religiosa le esigenze della riforrna gregoriana. I fratelli conversi cistercensi - che svolgono il ruolo degli operai salariati di Cluny -, incaricati di molte attività agricole, abitano in "fienili" separati dalle abbazie, e assicurano un`efficace organizzazione materiale.
Ma è essenzialmente la figura di S. Bernardo, presente in tutti i grandi avvenimenti della cristianità del suo tempo, che dona a Cîteaux il suo prestigio. Troviamo S. Bernardo in tutte le grandi contese dell'epoca: egli è un riformatore, e viene anche chiamato a svolgere un ruolo decisivo nella cristianità quando - a partire dal 1130 - uno scisma divide la Chiesa romana
tra Anacleto II (morto nel 1138), della famiglia Pierleone, e Innocenzo II, del quale S. Bernardo prende senza esitazione le difese al Concilio di Etampes. S. Bernardo è anche il consigliere del papa Eugenio III, che era stato suo discepolo, e al quale S. Bernardo dedica il trattato De consideratione, nel quale afferma che l’umiltà del Pontefice è la forza stessa del Papato. Si trova proprio in questo trattato la formulazione della dottrina detta delle “due spade", che servira poi a teorizzare la “teocrazia” medievale (la supremazia del Papa anche nell’ambito temporale). Su ordine di Eugenio III, S. Bernardo predica anche la Seconda crociata, prima a Vezelay, poi in Germania.
Dal punto di vista intellettuale lo scontro più aspro Bernardo lo sostiene contro Abelardo, mostrando nell’insegnamento di questo teologo alcuni aspetti che potevano portare all’eresia. Al Concilio di Sens S. Bernardo rifiuta l'applicazione della dialettica in teologia, preferendo un'analisi più ammirativa e contemplativa del mistero; e di ciò troviamo vari esempi nel suo Commentario al Cantico dei Cantici e nel suo trattato De diligendo Deo.

[2] Nota del redattore del sito: la descrizione che segue è ricavata dalla prefazione del libro.

La comunità monastica trappista di Vitorchiano, cui l’Autrice (madre Cristiana Piccardo, monaca trappista) si riferisce in vari passi del libro, nacque nel 1875 a San Vito, in Piemonte, vicino a Forino, come fondazione del monastero francese di Vaise (Lione, Francia). L’isolamento di San Vito, che oltretutto non permetteva un’autonomia dal punto di vista economico, suggerì un trasferimento della comunità nelle vicinanze di Roma, dove già esistevano due comunità trappiste maschili. Il trasferimento avvenne nel 1898 a Grottaferrata. Iniziò così un periodo segnato, in modo del tutto particolare, dalla figura di una badessa straordinaria, Madre Maria Pia Gullini. Fu lei ad inaugurare un'epoca nuova per la formazione della comunità. Certo, le sofferenze causate dalla seconda guerra mondiale ebbero un peso nel deterioramento della salute delle suore e, allo stesso tempo, l'inesorabile avanzata dell’espansione urbana di Roma indusse una seconda volta i superiori ad optare per un trasferimento della comunità, questa volta più lontano da Roma, in un luogo con clima più salubre. Venne offerto un terreno vicino al paese di Vitorchiano, 6 chilometri ad est di Viterbo. In questo luogo l’Autrice entrò, come postulante, nel 1958 e lì svolse il suo servizio di badessa, negli anni che vanno dal 1964 al 1988. La comunità di Vitorchiano ha fondato, in quegli stessi anni, altre cinque case figlie in altrettanti Paesi: Valserena in Italia, in provincia di Pisa (1968); Hinojo in Argentina (1975); Quilvo in Cile (1981); Humocaro in Venezuela (1982); Gedono in Indonesia (1987). Viene da chiedersi: come è possibile, per una sola comunità, realizzare una tale espansione attraverso i continenti? E ancora: di quanto si è impoverita la comunità fondatrice? Bene, al termine dell'abbaziato di Madre Cristiana, Vitorchiano ha continuato con la badessa che le è succeduta, Madre Rosaria Spreafico, con una sesta fondazione: Matùtum nelle Filippine (1995). E dopo quest'ultimo sforzo per fondare, Vitorchiano è tuttora, con 73 sorelle presenti, la comunità di monache trappiste più numerosa, e con l’età media più bassa di tutto l’Ordine, Le ragioni di una tale fecondità, i principi, le esperienze e la saggezza che hanno permesso tutto ciò costituiscono la materia del presente libro.

[3] E. Galeano, Les "oublis" de l’histoire officielle. Memoires et malmemoires, in Le Monde diplomatique, agosto [1997],

[4] V.E. Frankl, La vita come compito. Appunti autobiografici, SEI, Torino 1997.

[5] Baldovino di Ford. Trattato XIII, 535 C. Nostra traduzione. Pain de Cìteaux 39, Chimay 1975, p. 150. Ogni riferimento testuale alle opere di Baldovino di Ford farà capo all'edizione curata dal p. Robert Thomas, Pain de Citeaux, Chimay 1973-1975 (PdC).

[6] L’immagine della cetra è sviluppata da Baldovino nel Trattato IV, 433 D ss., PdC 36(1973), pp. 48ss.

[7] L. Giussani, Il dramma di Clemente Rebora, in Le mie letture, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1996, p. 57.

[8] Aelredo di Rievaulx, De Speculo Caritatis, Libro I, cap. III. 9, in Corpus Christianorum, Continuatio Mediaevalis, I, Brepols, Tumhout 1971, p. 16 (tr. it. Lo specchio della carità, Cantagalli, Siena 1985, p. 90).

[9] Ibid., Libro I, cap. IV, 12-13 , p. 17 (tr. it. cit., pp. 91-92).

[10] Aelredo di Rievaulx, De Spiritali Amicitia, Libro III, 101, in Corpus Christianorum, cit., p. 340. Nostra traduzione (tr. il. in Aelredo di Rievaulx, L’amicizia spirituale, Città Nuova, Roma 1997, pp. 138-139).

Citazioni seguenti dal Libro III, 102.

[11] E. Hillesum, Diario 1941-1943, tr. it. Adelphi, Milano 1985, pp. 222-224.

[12] E. Mounier, Lettere sul dolore, tr. it. Biblioteca Universale Rizzoli. Milano 1995, lettera del 20 marzo 1940, pp. 61-62.

[13] Giovanni Paolo II, Parigi - Champ de Mars 21 agosto 1997, Servire è la via della felicità e della santità, in «La Traccia», 7-8 (1997), pp. 824-826.

[14] San Bernardo di Clairvaux, Lettera 7.3, A Rainaldo abate di Foigny. Nostra traduzione. Opere di San Bernardo, Vl/1, Scriptorium Clarevallense, Milano 1986, pp. 331-333.

[15] Id., Lettera 85, in Opere, cit., p. 415.

[16] Id., Lettera 1, A Roberto, suo nipote, che dall'Ordine Cisterciense si era abbassato al Cluniacense, in Opere, cit., pp. 17-19.

[17] Id., Lettera 72, A Rainaldo abate di Foigny, in Opere, cit., p. 331.

[18] San Bernardo. Sermones super Cantica Canticorum, LXXI1, I-IV, in Sancti Bernardi Opera, II, Leclercq-Rochais, Roma 1958 (SBO) (tr. it. di D. Turco, Sermoni sul Cantico dei Cantici, II, Ed. Vivere In, Roma 1996, pp. 283-291).

[19] Id., Sermo 69, De Diversis, in SBO, cit., VI/1, Roma 1970 pp. 303-304. Nostra traduzione (tr. ir. Sermoni Diversi. Ed. Vivere In. Roma 1997. pp. 337-338).

[20] Id., Lettera 190, A papa Innocenzo II, par. 25, 5, in Opere, cit., p. 833.

 


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25 luglio 2019                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net