Le prime monache cristiane

 

estratto da "Il monachesimo femminile" di Mariella Carpinello - Ed. Mondadori
 

Sembra che i monasteri femminili siano più antichi di quelli maschili. Philibert Schmitz, cui dobbiamo la storia dell’ordine benedettino dalle origini al Novecento, lo sostiene espressamente e riferisce che in Egitto se ne incontrano già a partire dalla metà del II secolo.

Dei sette volumi della sua opera, uno solo è dedicato alle monache. Questa differenza non si deve a una sottovalutazione dell’argomento, ma soltanto a una minore disponibilità di informazioni. La storia del monachesimo femminile ha lasciato tracce molto inferiori rispetto a quella del monachesimo maschile, sia perché le monache sono vissute in maggiore isolamento religioso, sia perché gli archivi dei loro monasteri, trovandosi in zone di clausura, sono rimasti inaccessibili agli studiosi. Comunque, gli studi più recenti rilevano che le fonti letterarie occidentali segnalano l’esistenza di comunità femminili anteriormente a quella di comunità maschili. Nel 376 Ambrogio di Milano descrive la vita di un gruppo di donne bolognesi votate alla verginità e impegnate a diffondere il loro ideale fra altre donne; nel 384 la lettera di due preti cita un’altra comunità femminile stanziata nella Tebaide egiziana; nello stesso anno, a Roma, il termine «monastero» è usato da Girolamo per descrivere la comunità di Lea, ottima madre spirituale: è con queste notizie, tutte riferite a donne, che il monachesimo cristiano entra nella letteratura latina.

Ancor prima che il movimento monastico faccia la sua esplosiva apparizione nei deserti d’Oriente, la donna cristiana si rivela fortemente propensa a vivere solo per Dio. Durante le persecuzioni la sua ostinazione nel respingere offerte di matrimonio per mantenersi casta è ragione sufficiente a guadagnarle il patibolo. Uccisa perché cristiana, ma forse ancora prima perché vergine: a questa sorte va incontro l’eroina nelle leggende dei martiri. Talvolta perfino i suoi genitori, che speravano per lei matrimoni convenienti, si accordano con le pubbliche autorità per giustiziarla nei modi più spicci ed efferati. La seguace di Cristo trasgredisce la legge antica, che la destinava alla riproduzione della specie, e vive l’universalità del sentimento d’amore, rinnegando il primato dei vincoli di sangue e in esso la morale pagana. L’alternativa fra nozze e vita verginale si profila di netto quale scelta fra paganesimo e cristianesimo.

Uno dei segni distintivi della vergine cristiana è la sua forza nell’affrontare le avversità, una dote anticamente considerata «virile». Emblematica al riguardo è la storia di Teodora, alla quale i persecutori offrono la possibilità di scegliere: o convertirsi al paganesimo e accettare le nozze, oppure essere rinchiusa in un lupanare. Sceglie di prostituire il corpo anziché l’anima, la pena viene eseguita e un gran corteo di uomini si forma davanti al postribolo. Il primo che entra nella sua stanza è un soldato, che inaspettatamente le propone la salvezza: indosserà le sue vesti e le consegnerà le proprie, per consentirle di uscire camuffata e mettersi in salvo. Offrendosi al martirio per lei, quest’uomo espone nel proprio discorso una serie di metafore estremamente significative:

Non avere paura, sorella, te ne prego. Vengo da fratello, non per possederti ma per salvarti. Salvami, mentre salvi te stessa. Fingendo d’essere un lussurioso, sono entrato e se permetti uscirò da qui martire. Scambiamoci le vesti. Le tue si addicono a me, le mie a te ed entrambe si addicono a Cristo. Le tue vesti faranno di me un vero soldato, le mie ti conserveranno vergine .

Se la vergine Teodora possiede forza virile, il soldato è capace ditale mitezza da subire il martirio per amore. Un dialogo nuovo si è aperto fra i sessi nel solco dell’insegnamento di Cristo, le relazioni fra uomo e donna non sono più prigioniere di competenze famigliari definite, si spostano sul piano spirituale e diventano confronti di anime. Paolo esprime precisamente questa realtà religiosa quando afferma che in Dio non c’è più uomo né donna, ma essi sono una sola cosa in Cristo. Nelle leggende delle martiri lo scambio delle parti fra donna e uomo, motivo fra i più frequenti, rappresenta personaggi complessi, donne capaci di comportarsi come uomini pur restando femminili, uomini capaci di comportarsi come donne senza perdere dignità; tale motivo, come vedremo, si trasmetterà poi in tutta la sua ricchezza simbolica alla letteratura monastica.

A partire dal II secolo dell’era cristiana la verginità è considerata una vera e propria professione e nel III secolo le donne consacrate portano titoli distintivi e prestigiosi: vergini sante, vergini sacre, spose di Cristo, serve di Dio, donne di Dio, religiose. Alcuni scrittori patristici ne hanno un’alta opinione e assegnano alle vergini il punto più elevato nel regno dei cieli, il più vicino al cuore di Cristo. Si stabilisce una sorta di gerarchia: le donne che non hanno mai conosciuto uomo avranno la pienezza della gioia, le vedove che sanno mantenersi pure ne avranno due terzi e solo un terzo riceveranno quelle che hanno preferito sposarsi. La scala di merito riaffiorerà poi in zone ed epoche diverse della storia monastica. Nei primi secoli cristiani, gli uomini condividono con le donne l’ideale della castità, ma la letteratura patristica identifica specialmente in esse la sua incarnazione.

Alla fine del IV secolo il movimento monastico è in piena espansione e ha definito una ricchissima cultura dell’uomo e delle sue relazioni con Dio. Compaiono così le prime regole monastiche, quelle di Pacomio in Egitto, di Basilio in Cappadocia e di Agostino nell’Africa nordoccidentale, tutte indirizzate a monaci ma ben presto osservate anche da monache.

La sorella di Pacomio, Maria, si presenta alla porta del monastero di Tabennisi quando il fratello è ormai nella sua piena maturità di maestro spirituale. Poiché l’insegnamento degli anziani è evitare gli incontri con donne, siano pure strette congiunte, Pacomio non la riceve, ma le fa sapere dal monaco portinaio che desidera aiutarla:

Se vuoi entrare in questa santa vita per ottenere misericordia davanti a Dio, esaminati accuratamente e i fratelli costruiranno un edificio, dove potrai ritirarti. Senza dubbio, grazie a te, il Signore farà venire altre sorelle, che si salveranno per merito tuo.

Maria avverte nell’invito fraterno la chiamata divina e accetta. La comunità femminile viene organizzata come quella maschile, l’unica differenza è che le monache non portano la melote, indumento di pelle ovina in uso presso i padri del deserto. Per il resto, l’impegno spirituale cui si sottopongono è in tutto il medesimo. Le due comunità vivono in stretta intimità di spirito, anche se fra loro vige la più rigorosa separazione, come chiaramente stabilisce la Regola:

Diciamo qualcosa anche del monastero delle vergini. Nessuno vada a visitare se non chi ha là la madre o la sorella o la figlia e parenti e cugine e la madre dei suoi figli. Se poi vi sarà necessità di vederle perché prima di rinunziare al mondo e di entrare in monastero spettava loro l’eredità paterna o vi è qualche altro motivo manifesto, mandino con questi un uomo di età avanzata, visitino quelle e tornino insieme. Nessuno vada da loro tranne quelli che abbiamo detto sopra. Se vogliono vederle, prima lo facciano dire al padre del monastero, questi li mandi dai seniori incaricati della cura delle vergini. Essi vadano loro incontro e insieme vedano quelle con cui devono parlare, con ogni disciplina e timor di Dio. Quando le vedranno non parlino con loro di questioni secolaresche.

Tra i monaci e le monache sono ammessi soltanto incontri motivati, nel corso dei quali sono permessi solo argomenti spirituali. L’unica forma di dialogo consentita fra i due sessi è quella religiosa, mentre la divisione fra le comunità permane quasi totale. Quando muore una delle monache un gruppo di «fratelli sperimentati» si reca alloro monastero per accompagnare la salma al cimitero.

Nelle prescrizioni di Pacomio troviamo per la prima volta formulata con forza una norma che avrà conseguenze macroscopiche nella vita storica delle monache cristiane:

Chi entra nel monastero ancora pagano, prima sia istruito su ciò che deve osservare e quando avrà accettato ogni cosa, gli si diano venti Salmi o due lettere dell’Apostolo o una parte del resto della Scrittura. E se ignora le lettere, alle ore prima, terza e sesta vada da colui che può istruirlo e impari con molta diligenza e ogni gratitudine. Poi gli si scrivano gli elementi di una sillaba, le parole e i nomi e sia costretto a leggere anche contro voglia. Nel monastero non ci sia proprio nessuno che non sappia leggere e non ricordi qualcosa della Scrittura: come minimo il Nuovo Testamento e il Salterio.

Valida anche per le donne, tale «costrizione» si tradurrà per loro in un progresso intellettuale senza precedenti.

La Regola di Basilio nasce in circostanze nelle quali il personaggio della sorella Macrina ha importanza principale. A lei si deve la conversione dei fratelli a vita ascetica e la nascita ad Annisoi di una comunità femminile, cui appartengono la madre Emmelia, alcune vergini e un certo numero di schiave liberate. Nei pressi sorge il monastero maschile che accoglie tra gli altri Basilio, il fratello minore Pietro e il teologo Gregorio di Nazianzo. Come nei monasteri pacomiani, le norme stabilite da Basilio per gli uomini valgono anche per le donne; l’autonomia di queste ultime è garantita dal fatto che il superiore dei monaci non può intervenire nelle vicende interne della comunità femminile, la cui clausura è maggiormente protetta. Al confessore non è permesso appartarsi con le sorelle e la madre sarà sempre presente alle confessioni, anche se a distanza. L’abate del monastero maschile può tenere alle monache discorsi e conferenze. Peraltro non è considerato opportuno che abbia frequenti colloqui con la badessa, cosa che darebbe adito a mormorazioni; per quanto possibile, i monaci vedono raramente le monache e hanno con loro brevi conversazioni.

E dai cenobi basiliani che deriva la prima biografia della letteratura cristiana dedicata a una donna, quella di Macrina. A scriverla è un altro fratello, Gregorio di Nissa, esegeta e teologo, che farà della sorella la protagonista di una seconda opera non meno importante, intitolata L’anima e la resurrezione. Scritta sulla falsariga del Fedone, il dialogo platonico nel quale Socrate si congeda dai discepoli prima di bere la cicuta, essa presenta al posto del filosofo la monaca morente e intorno al capezzale Gregorio, alcune consorelle e un medico. Nel corso del colloquio, Macrina rassicura il fratello circa l’esistenza della vita eterna dopo la morte. Capace di guidare le persone che ama verso i quartieri alti del firmamento, Macrina si profila qui come una sorta di Beatrice ante litteram; il suo modello rifiorirà in stagioni e regioni lontane del monachesimo cristiano, producendo frutti di singolare bellezza.

Come Pacomio e Basilio, anche il vescovo d’Ippona Agostino favorisce la nascita di monasteri femminili e nei propri scritti elogia le donne dei vangeli, che seguirono Cristo e gli apostoli, assistendoli nelle loro necessità quotidiane. Il concilio di Ippona del 393, ripreso poi dal concilio di Cartagine del 397, prevede che quando una vergine consacrata perde i genitori il vescovo avrà cura di affidarla a donne di buona fama o di unirla ad altre vergini, in modo da evitare che si trovi in difficoltà e danneggi la reputazione della Chiesa. La sorella di Agostino, rimasta vedova, fonda infatti un monastero in città, nel quale probabilmente osserva la Regola del fratello.

La comunità femminile di Ippona passa alla storia a causa di alcune difficoltà interne. Intorno al 411 quando la sorella di Agostino è morta e un’altra madre, Felicita, ha preso il suo posto ormai da molti anni, le monache si ribellano contro di lei, accusandola di essere troppo severa nelle punizioni; in discussione anche l’operato del sacerdote, un certo Rustico. Richiamato al monastero per risolvere le contese, Agostino dichiara che non vi andrà e che preferisce non entrare in discussioni, ma trattare la cosa pregando Dio. In una lettera successiva invita le sorelle a mantenere l’accordo e chiedere l’allontanamento del confessore piuttosto che della madre, sotto il cui governo la comunità è progredita. Inoltre Agostino lamenta che, da quando si occupa di loro come superiore, ha dovuto affrontare tali tribolazioni che preferirebbe abbandonarle piuttosto che essere considerato la causa dei loro problemi. Questo brano prefigura con singolare precisione le miriadi di guai e disagi cui vescovi, abati e sacerdoti impegnati nella cura di monache andranno incontro attraverso i secoli.

Un dato interessante è che Agostino chiama la superiora del monastero femminile «preposita», termine che Paolo assegna ai sacerdoti, e in questo modo stabilisce un’analogia diretta fra la struttura della comunità e la gerarchia del popolo di Dio. La preposita, o superiora, con il ministero gerarchico, ha dunque anche un magistero dottrinale.

La Regola di Agostino trascritta al femminile riproduce le norme nella loro esattezza, soltanto sostituisce termini quali «padre» e «fratello» con «madre» e «sorella». Si possono notare tuttavia alcune differenze, ad esempio una certa attenzione per quanto riguarda l’abbigliamento:

Non portate in testa un velo tanto piccolo che si veda al di sotto la capigliatura. Che i vostri capelli non siano scoperti in alcun modo. Che non si vedano al di sotto, sia che sfuggano per negligenza, sia che siano acconciati ad arte.

Le tentazioni carnali sono trattate con maggiore preoccupazione, come se la donna su questo terreno fosse al contempo più fragile e più attraente. Il testo denuncia tra le righe forme di omosessualità femminile, sia fra le secolari sia fra le religiose, raccomanda alle monache che escono dal monastero di non «eccitare la concupiscenza» e di non andare mai al bagno in coppia, ma almeno in numero di tre. La versione femminile della Regola di Agostino presenta un’altra divergenza riguardo alla gerarchia: mentre i monaci agostiniani hanno un superiore e un prete che si occupano di loro, le monache hanno una superiora, un prete e anche il vescovo, quindi una terza autorità. Da ultimo, è particolare per le sorelle la concessione di fare il bagno una volta al mese, privilegio di cui i confratelli non godono. Queste differenze fra i due codici restano comunque elementi molto discreti.

Abbiamo visto che le prime regole monastiche prendono vita in monasteri doppi, vale a dire composti da una comunità maschile e da una comunità femminile. L’espressione «monastero doppio» è già in uso in questa stagione. Essa designa due comunità, una di monaci, l’altra di monache, stabilite in uno stesso luogo non necessariamente entro la stessa cinta muraria che militano sotto una regola e un’autorità. Sovente è in comune anche il patrimonio e i due corpi comunitari formano giuridicamente un’unica persona morale.

Monasteri doppi si trovano in ogni area di diffusione del movimento monastico. Spesso le monache guadagnano la sopravvivenza lavorando la lana anche per i fratelli e ne ricevono in cambio del cibo. La cultura monastica dei primi secoli riconosce a uomini e donne la possibilità di dare la medesima resa spirituale; fra i due sessi intercorrono relazioni simbiotiche, delle quali l’istituto del monastero doppio è lo specchio. Tale istituto si distingue peraltro da quello del monastero misto, che raduna uomini insieme con vergini in situazioni poco chiare ed è deprecata dai concili ecclesiastici e dai divulgatori dell’ideale ascetico. Fra essi Giovanni Crisostomo, monaco in gioventù e poi vescovo di Costantinopoli, il quale ci informa che nei deserti egiziani s’incontrano «vaste assemblee di vergini» ed evidenzia con finezza e lucidità il nuovo tipo di virtù che esse incarnano:

Le donne qui non hanno minore filosofia e vigore degli uomini: vigore non per maneggiare lo scudo né per cavalcare, come vorrebbero i più severi legislatori e filosofi greci, ma per partecipare ad una battaglia ben più aspra e dura. Esse combattono con gli uomini una comune guerra contro il demonio e le potenze delle tenebre. La fragilità del loro sesso non è affatto d’impedimento in questi combattimenti. Queste lotte non richiedono la forza del corpo, ma la buona volontà dell’anima. Perciò, molto sovente, in tal genere di guerra, si sono viste donne combattere con maggiore coraggio e generosità degli uomini e riportare, quindi, le più gloriose vittorie.

In questa stagione primitiva la lotta femminile contro «le potenze delle tenebre» pratica anche le vie del monachesimo eremitico. I monaci antichi, in genere, considerano la vita solitaria più perfetta di quella comunitaria e ritengono che non tutti possono aspirarvi, ma soltanto chi si è addestrato sottoponendosi all’autorità di una regola e di un abate può avventurarsi incontro alle incognite dell’isolamento e cogliere il frutto della fatica ascetica. Le monache dei primordi non rinunciano a misurarsi con questa estrema esperienza spirituale, e lo fanno negli stessi modi che sono consueti ai monaci. E così che, tra i padri del deserto, vivono anche madri. Sarra, che abita in una celletta presso il Nilo, per sessant’anni è tormentata dal demone della fornicazione, infine non solo lo vince, ma lo costringe a dichiararsi vinto. Teodora, maestra spirituale raffinata, predica l’umiltà quale unico vero antidoto contro il male. La più celebre è Sincletica, controfigura femminile del primo anacoreta Antonio. Bellissima, nobile e ricca, questa madre ha iniziato la carriera di donna di Dio consacrandosi alla verginità, ha abitato per un periodo in un cimitero e infine si è trasferita nel deserto. Rifiuta assolutamente gli incontri con uomini mentre alcune donne compaiono a volte nelle vite dei padri — ma è costretta ad accogliere discepole, cui insegna la rinuncia al miraggio delle gioie coniugali:

Nel mondo abitualmente le donne incontrano grandi disagi, partoriscono con fatica e con pericolo, soffrono per l’allattamento e si ammalano insieme ai figli ammalati; sopportano queste cose senza prevedere la fine della fatica ... Essendo a conoscenza di queste cose non lasciamoci adescare dall’avversario, come se la vita (nel mondo) fosse tranquilla e pacifica.

In vecchiaia Sincletica si ammala per un cancro alla mascella e resiste alla atroce sofferenza ammaestrando le figlie: «Soprattutto con questi esercizi esercitiamo l’anima: teniamo bene davanti agli occhi il nemico». Muore eroicamente, senza mai abbassare lo sguardo dal demonio che vorrebbe piegarla.

Incontriamo una religiosa di vocazione solitaria anche all’interno del cenobio per eccellenza, quello di Maria e Pacomio. Fingendo di essere pazza, questa vergine evita ogni famigliarità con le sorelle, che la disprezzano, e riesce a vivere del tutto appartata. In questo modo costruisce una sorta di eremo ideale dentro il cenobio, cosa che le varrà gran fama negli ambienti monastici maschili. Svolge i lavori più umili, non siede mai a tavola, sopravvive di briciole di pane e avanzi di cibo, osserva un silenzio perfetto e non si lamenta mai quando viene insultata. Un giorno si presenta al monastero un certo Piterum, anacoreta di fama, il quale sostiene di volerla vedere. Le monache tentano di evitare l’incontro, ma egli insiste e, non appena si trova davanti a lei, cade in ginocchio e domanda la benedizione; un angelo gli ha rivelato infatti che quella donna è spiritualmente più evoluta di lui. Alle monache, che la credono pazza, Piterum risponde: «Le pazze siete voi e io prego di essere trovato degno di lei nel giorno del giudizio». Allora le sorelle iniziano a confessare le loro colpe: chi le ha rovesciato addosso la sciacquatura dei piatti, chi le ha infilato un senapismo nel naso, chi l’ha colpita con pugni. Dopo che Piterum si è congedato, non sopportando più le infinite premure che le vengono rivolte, la vergine che si fingeva pazza abbandona il monastero e scompare per sempre nel deserto.

In queste regioni orientali lo scambio delle parti fra i sessi continua a essere uno dei temi ricorrenti nelle storie monastiche, come già lo è stato in quelle dei martiri. Incantevole a proposito la storia di Teodora di Alessandria. Sposatasi in gioventù con un uomo che ama, ingenuamente si lascia persuadere a tradirlo; per emendarsi depone gli abiti femminili e indossa quelli del marito, quindi si rifugia in un monastero maschile, presentandosi con il nome di Teodoro. Mandata in viaggio dall’abate per sbrigare un affare, una notte si addormenta in un’oasi. Nello stesso luogo si trova anche una ragazza scostumata, incinta benché non sposata, che poi l’accuserà di averla stuprata e di essere il padre del bambino. Venuto a conoscenza di questo fatto, l’abate, che continua a Ignorare l’identità di Teodora, per punizione le ordina di andare nel deserto ad allevare il bambino da sola. La giovane donna vivrà per sette anni di stenti e fatiche, senza mai cedere alla tentazione di tornare indietro e discolparsi. Rientrata al monastero, alloggia in una cella appartata con il bambino ormai cresciuto e diventa capace di miracoli. Solo alla sua morte l’abate scoprirà la sua innocenza e ne glorificherà la memoria.

Amorevole collaborazione reciproca mettono in opera anche i personaggi femminili e maschili di un altro filone della letteratura dei deserti, quello delle peccatrici pentite. La più celebre fra queste donne, tutte ritagliate sulla figura di Maria Maddalena, è Maria Egiziaca, il cui culto incontrerà larghissima diffusione in Oriente. Fuggita dalla casa dei genitori per vivere ad Alessandria, Maria fa l’accattona e si concede a tutti gli uomini che le capitano. «Avevo infatti un desiderio insaziabile» racconterà lei stessa «così che incessantemente mi avvoltolavo nel letame della lussuria. E questo per me era piacevole e questo ritenevo vita: se incessantemente agivo nella violenza della natura.» Recatasi in pellegrinaggio a Gerusalemme, si pente dei propri peccati, si allontana dalla città e, passato il fiume Giordano, s’inoltra nel deserto. Qui vive per molti anni sola come un antico profeta, soccorsa direttamente da Dio, che non le lascia mancare il necessario per sopravvivere. E' analfabeta e non ha mai letto le Scritture, ma le apprende «dall’interno» per ispirazione divina. Quando è ormai vecchia, scarnificata e depurata, incontra un anziano monaco, Zosima, che dopo una vita trascorsa da provetto asceta in cenobio si sta avventurando da solo nel deserto per conquistare una ulteriore meta spirituale. La otterrà grazie a Maria, che, raccontandogli la propria vita senza nulla tacere, gli dimostra quanto illimitata si la misericordia di Dio. Quando la donna muore, il monaco provvede a seppellirla e, pieno di nuovo vigore spirituale, trasmette la sua memoria perché i peccatori non smettano di sperare.

Dalla storia di Maria Egiziaca derivano alcune varianti. Una è quella che vede due illustri padri, Giovanni e Ciriaco, camminare attraverso il deserto e imbattersi in una ex cantante dell’Anastasi a Gerusalemme, la quale in gioventù si è trascinata in ogni sorta di scandali. Ritiratasi nel deserto per espiare, non ha mai visto mancare l’acqua nella sua brocca, né diminuire le fave macerate che ha portato con sé in un cestello. Dio l’ha soccorsa lungo diciotto anni per consentirle il riscatto.

Un’altra versione ha per protagonista un anonimo asceta, che un bel giorno si sente inspiegabilmente attratto dal deserto, dove s’imbatte in uno strano personaggio che gli racconta la seguente vicissitudine:

Un tempo ero una monaca e vivevo presso il Santo Sepolcro. Un monaco che aveva la cella all’entrata venne a conoscermi: ci incontravamo così spesso che arrivammo al punto di cadere in peccato. Io andavo nella sua cella e lui veniva nella mia. Un giorno, mentre come al solito stavo andando a trovarlo, lo sentii piangere e confessarsi davanti a Dio. Bussai ma non volle aprirmi a motivo di quello che aveva commesso con me. Continuò a piangere e confessare il proprio peccato. Udendo ciò mi dissi: «Lui si sta pentendo del proprio peccato, io invece non mi pento del mio. Lui sta confessando le sue colpe, non dovrei affliggermi altrettanto anch’io?». Rientrata sola nella mia cella, mi vestii poveramente, riempii questo cesto di pane e questa brocca di acqua ed entrai nel Santo Sepolcro. Là pregai e chiesi a Dio potente e misericordioso venuto per salvare quanti erano perduti e per rialzare quanti erano caduti, pronto ad ascoltare quanti si rivolgono a lui in verità, che mostrasse la sua misericordia verso di me, donna peccatrice, e che, qualora avesse gradito il pentimento e la conversione della mia anima, si degnasse di benedire questo pane e quest’acqua per farli bastare fino alla fine della mia vita ... Sono rimasta trent’anni qui senza vedere nessuno all’infuori di te. Il cesto di pane e la brocca sono bastati fino a ora alle mie necessità, senza venire meno. Dopo un po’ di tempo il mio vestito si è consumato, ma nel frattempo i capelli erano cresciuti e mi hanno coperto, così da non patire, per grazia di Dio, né il freddo né il caldo.

 

Congedatosi da lei a malincuore, l’asceta si reca al villaggio più vicino per procurarle un abito, ma quando ritorna scopre che è morta. Allora comprende che è stato Dio a inviarlo in quel luogo per renderle onore.

Gli Apoftegmi recano tracce evidenti della stessa leggenda nel fatto capitato a due padri che incontrano un monaco taciturno, solo e intento a intrecciare canestri. Tanto ne restano impressionati che tornano a visitarlo. Trovatolo morto, iniziano a seppellirlo e scoprono che è una donna, allora il più anziano osserva: «Vedi come le donne sconfiggono Satana, mentre noi, in città, facciamo una ben meschina figura?».

Assomiglia a Maria Egiziaca anche l’attrice mimica Pelagia, cittadina di Antiochia, ricchissima e di bellezza sfolgorante, che si converte ascoltando in chiesa la predica del vescovo Nonno. Dopo aver ricevuto da lui il battesimo, Pelagia fugge dalla città per vivere in reclusione a Gerusalemme, sul monte degli Ulivi. E un discepolo del vescovo Nonno a scoprirla defunta e riferire la sua storia ai patriarchi di Gerusalemme, che le allestiscono grandiose esequie. La storia di Maria nipote di Abramo, anziano asceta e maestro spirituale, è quella di una giovanetta che si lascia abbindolare da un monaco balordo, abbandona il deserto e finisce in un postribolo, dove si guadagna la fama di migliore fra le meretrici. Lo zio Abramo si traveste da militare, va a cercarla e la riporta nella sua cella, dove Maria vivrà da penitente fino alla fine dei suoi giorni. Da ultimo Taide, prostituta che si compiace d’ogni sorta di crimini, viene convertita da un celebre padre del deserto, Pafnuzio, soprannominato Bufalo a causa del suo amore per la solitudine. Muratala viva in una cella, Pafnuzio la libera dopo tre anni, alla vigilia della morte. Ritroveremo il suo personaggio, molto interpretato, in un romanzo del Novecento francese, Taide, di Anatole France.

Olimpia di Costantinopoli rappresenta uno dei casi più interessanti di monachesimo femminile metropolitano. Orfana dall’età infantile, molto ricca e di alti natali, viene educata dal prefetto della città e dal teologo Gregorio di Nazianzo, che già abbiamo incontrato nel cenacolo di Macrina. Sposata a un alto funzionario imperiale, che muore pochi mesi dopo le nozze, rifiuta il matrimonio che l’imperatore Teodosio tenta d’imporle con le minacce e si vota a una dura ascesi. Al suo personaggio si collega in modo speciale l’ideale della vedovanza cristiana, da viversi in unione spirituale con lo sposo defunto, in attesa di ricongiungersi a lui. Legata al vescovo Nettario, che tiene conto delle sue opinioni nel gestire gli affari della Chiesa e la ordina diaconessa nonostante la giovane età, Olimpia fonda un monastero di cinquanta donne, che presto diventeranno duecentocinquanta. Dislocato al centro della città, ma perfettamente protetto, il cenobio prevede un passaggio che consente di entrare in chiesa evitando la pubblica via, a salvaguardia della segretezza.

Nel 397 nella vita di Olimpia entra uno dei grandi dell’Oriente cristiano, Giovanni Crisostomo. La formazione monastica, una dura stagione solitaria vissuta in montagna e i rigorosi studi esegetici compiuti ad Antiochia fanno di lui un uomo molto intransigente. Olimpia lo stima immensamente e inizia a sostenere le sue battaglie contro la corruzione del clero, cosa che le procurerà infiniti dolori. Di lei Giovanni Crisostomo ammira la totale assenza di vanità femminile e il dominio di sé:

Un tempo eri padrona di te, ora sei impassibile. Il desiderio del piacere non ti tormenta più e non hai più niente da soffocare. Soppressolo completamente, resa la carne inaccessibile al desiderio, hai insegnato al tuo stomaco ad accontentarsi di quel nutrimento e di quella bevanda che sono bastevoli a non morire di fame e non esporlo al castigo. Io non chiamo questo sobrietà e padronanza di sé, ma qualche cosa di più grande.

Lo si può vedere anche nelle tue sante veglie. L’istinto di dormire è stato cancellato insieme a quello del cibo; il buon nutrimento in effetti alimenta il sonno. Tu l’hai distrutto perché fin dall’inizio hai violentato la natura trascorrendo intere notti senza dormire; più tardi, grazie alla lunga abitudine, hai fatto sì che la pratica divenisse naturale. Così come è naturale agli altri dormire, a te è naturale vegliare. Questo è meraviglioso, stupefacente di per sé. Ma se si esaminano le circostanze, cioè che questa ascesi è stata praticata fin dalla prima infanzia, che non avevi maestri che t’insegnassero, che scandalizzavi un gran numero di persone e che dal punto di vista spirituale sei passata da un ambiente empio alla verità, che tutto ciò avveniva in un corpo femminile e quindi delicato, a dispetto della situazione e del lusso dei tuoi parenti, che oceano di meraviglia, quando si tiene conto di tutto questo. Perciò eviterò di menzionare il resto, l’umiltà, la carità, le altre virtù della tua anima santa. E tuttavia, non appena le ricordo, il mio pensiero suscita mille sollecitazioni e mi spinge a descrivere particolareggiatamente le forme di queste virtù, o almeno i loro tratti essenziali, altrimenti il discorso sarebbe senza limite.

L’ostilità dell’imperatrice Eudossia, del clero bizantino e di Teofilo, potentissimo vescovo d’Alessandria, si scatenano ben presto contro la predicazione di Giovanni, costringendolo all’esilio, mentre Olimpia resta in città a difendere la sua causa, sfidando il potere religioso e quello imperiale.

Le lettere che Giovanni scrive a Olimpia dallo sperduto villaggio armeno dov’è confinato sono quanto di più alto uomo abbia scritto di donna. Una sua frase riepiloga i mutui sentimenti di amore in Cristo, che non vengono meno, anzi si rafforzano nella lontananza: «Sebbene ci troviamo a una così grande distanza, io ricevo dal tuo coraggio una immensa felicità».

Olimpia riceverà la notizia della morte di Giovanni nel 407 e morirà l’anno successivo.

Parallelamente a quanto avviene in Oriente, il monachesimo affonda le sue radici anche in Occidente, mentre alcune personalità di primaria grandezza si costituiscono ponte vivente fra i due mondi. Innanzitutto Giovanni Cassiano, che viaggia a lungo tra i padri del deserto, raccoglie i loro insegnamenti e li raduna in un classico della spiritualità monastica, le Conferenze spirituali; dopo un soggiorno a Costantinopoli e una sosta a Roma, Cassiano si stabilisce nella Gallia meridionale, dove fonda un monastero maschile e uno femminile. Sulla scia della predicazione di Martino di Tours, la regione è molto ricettiva alle novità del monachesimo d’oltremare. Comunità femminili si trovano specialmente in Normandia, in Turenna e a Marsiglia, ma una presenza femminile è segnalata anche a Lerins all’alba del V secolo. Sui monti del Giura è importante, presso il cenobio degli abati Romano e Lupicino, il monastero governato dalla loro sorella, che raduna più di cento religiose in stretta clausura.

Uno fra i primi a portare in Italia la suggestione degli ambienti ascetici egiziani è Atanasio, vescovo di Alessandria. Giunto a Roma fra il 341 e il 343 per cercare appoggi contro l’eresia ariana, Atanasio diffonde le idealità dei padri del deserto tra i circoli dei cristiani più ferventi e trova ascolto in una fanciulla patrizia di intelletto acuto e rara sensibilità, Marcella. Rimasta vedova a vent’anni o poco più, dopo aver rifiutato vantaggiosi partiti, la giovane raduna un gruppo di vergini nel proprio palazzo sul colle Aventino e lo trasforma in centro di studi biblici. La sua ricerca sembra orientarsi specialmente su Pacomio, la cui Regola per i monaci non è ancora stata tradotta in latino. Avanguardia della migliore cultura monastica in Roma, Marcella è descritta da Girolamo quale coraggiosa iniziatrice:

Il mondo pagano per la prima volta restò confuso di fronte a una simile donna, poiché a tutti fu manifesto che cos’era effettivamente la vedovanza cristiana, ch’essa faceva risplendere con la sua rettitudine interiore e il suo contegno.

Dotata di equilibrio non meno che di elegante bellezza, tanto da intimidire lo stesso Girolamo, è studiosa di massima competenza. Partecipa alle contese antiorigeniste a sostegno dell’ortodossia e rivela tempra fuori del comune nel corso di tutta la vita, ma specialmente durante il sacco di Roma del 410, quando convince i soldati di Alarico a rispettare la sua persona e a scortarla con le discepole al sicuro nella basilica di San Paolo fuori le mura.

Intorno a Marcella gravitano le donne più interessanti. Prima fra tutte Asella, che vive in città come un eremita vivrebbe nel deserto e ispira a Girolamo un magnifico ritratto:

Nulla è più gioioso della sua serietà, nulla più composto della sua allegria. Più mesto del suo sorriso? Nulla; ma non c’è altra espressione più dolce della sua mestizia. Il pallore del volto fa rimarcare la sua continenza, eppure non sa di ostentazione. Il suo parlare è silenzioso e quando tace è eloquente. Nel muoversi non è precipitosa né troppo lenta; il suo contegno non varia mai. Non ricerca l’apparenza o l’eleganza nel vestire, ma la sua mancanza di ricercatezza è una vera eleganza.

In una città di lusso, di scostumatezza, di piaceri, dove vivere modestamente è una umiliazione, solo col suo tenore di vita s’è meritata l’entusiasmo dei buoni. E neppure i maligni osano calunniarla. Le vedove e le vergini la imitano, le donne sposate l’onorano, è temuta dalle perverse, guardata con venerazione dai sacerdoti.

Al gruppo di Marcella e Asella appartengono anche la vedova Paola e sua figlia Eustochio, alla quale Girolamo indirizza uno scritto fondamentale nella storia della letteratura monastica, la famosa Lettera 22. Abbandonata Roma, dove lascia altri figli, Paola parte per l’Oriente con Eustochio e Girolamo e compie un lungo pellegrinaggio fra eremi e monasteri, quindi si stabilisce a Betlemme, dove istituisce un monastero doppio. In questa fondazione Girolamo scriverà opere principali sulle tematiche del dialogo fra i due sessi in questa stagione ascetica: la Vita di Malco, monaco prigioniero, leggenda che descrive il percorso di un matrimonio spirituale; In memoria di Paola, tributo di Girolamo all’amica, che riporta le norme osservate nel suo monastero; la traduzione della legislazione di Pacomio dal copto al latino, con una delicata dedica alla vergine Eustochio; inoltre un certo numero di scritti su temi al femminile, quali l’educazione di una fanciulla cristiana, la conversione d’una matrona del bel mondo al monachesimo, o ancora la chiamata alla vita verginale di una giovane promessa sposa.

Vicenda parallela a quella di Paola è vissuta dalla patrizia Melania, che rimane vedova a ventidue anni e abbandona il figlio in fasce per trasferirsi a Gerusalemme con Rufino di Aquileia, celebre esegeta e traduttore. Qui fonda un monastero doppio, che ospita un cenacolo di studi su Origene. Tra coloro che vi soggiornano temporaneamente il «teologo dei deserti», Evagrio Pontico, i cui insegnamenti ascetici faranno scuola nei secoli.

La nipote di Melania, Melania la Giovane, ricchissima tra le donne romane, sposata per imposizione paterna al patrizio Piniano, vive con lui in castità e, venduti i possedimenti di famiglia, lascia l’Italia alla volta dell’Oriente. Il suo itinerario è piuttosto accidentato. Fondato un monastero non lontano da Ippona, trascorre il primo periodo da cenobita sotto l’influenza del vescovo Agostino. In seguito si sposta a Gerusalemme, trova ospitalità in un ricovero per poveri, quindi percorre i deserti d’Egitto, apprezzata dai monaci specialmente per la sua «mentalità virile, ovvero celeste». Rientrata nella città santa, si chiude in una cella sul monte degli Ulivi, macerandosi nella miseria e nella trascuratezza. Dopo la morte della madre Albina fonda un monastero femminile. L’iniziativa è così descritta dal biografo:

Melania invitò suo fratello (Piniano) a radunare per lei alcune vergini. Ed egli le costruì un convento di circa novanta vergini al quale ella diede come regola, fin dall’inizio, di non intrattenersi mai con un uomo. Così provvedendo per loro ad una cisterna interna e provvedendo a tutti i loro bisogni materiali, diceva loro: «Io in persona vi renderò tutti i servizi utili come una schiava e non vi lascerò mancare il necessario. Da parte vostra evitate soltanto di incontrarvi con uomini». E dopo aver tratto con le sue persuasioni diverse donne da luoghi malfamati e averle ricondotte a Dio nel sacrificio ... non smetteva di guadagnarle alla salvezza.

Morto anche Piniano, Melania raduna un gruppo di monaci affinché mantengano viva la lode a Dio presso la sua tomba, inaugurando il fenomeno inconsueto di un monastero maschile fondato da una donna. Nell’ultima parte della sua vita Melania intrattiene rapporti con la famiglia imperiale di Costantinopoli e predica a corte contro l’eresia nestoriana.

Una delle principali avventure di questi primi secoli è quella di una pellegrina. Il suo nome è Egeria, ma le sue origini, la sua famiglia e la sua identità religiosa sono tuttora incerte. Forse nativa della Galizia o forse della Gallia meridionale, lascia l’Europa intorno al 380 e giunge in Terra Santa, dov’è accolta con ogni onore. Egeria appartiene alla schiera di quelle grandi signore della tarda antichità che hanno ereditato patrimoni sconfinati e li impiegano per sostenere indigenti, istituire circoli ascetici e sperimentare di persona i modi dell’ascesi cristiana. Suo merito particolare è quello di tenere un diario di viaggio indirizzato alle consorelle rimaste in patria; poiché in questi anni sono pochissime e per lo più incomplete le testimonianze scritte da mano femminile e nessuna di esse riguarda un pellegrinaggio, il suo giornale assume notevole importanza documentaria, non solo in ambito monastico.

Sbarcata a Costantinopoli, attraverso la Bitinia, la Galazia, la Cappadocia, la catena montuosa del Tauro, le città di Tarso, Antiochia, Haifa, Lydda, Emmaus, Egeria giunge infine a Gerusalemme, dove si fermerà fino al 384, compiendo diverse escursioni verso l’interno. Il percorso più avvincente è quello che la porta per centinaia di miglia verso sud, attraverso la penisola arabica, ai piedi del monte Sinai, fino al punto in cui Dio si manifestò a Mosé per dargli le tavole della legge. Al ritorno Egeria percorre il deserto in direzione del Mar Rosso, viaggiando di notte a dorso di cammello; visita la città di Clysma e il suo porto, là dove oggi si trova Suez. Percorre poi il territorio egiziano fino alla sponda del Nilo e la fertile terra di Gessen, quindi attraversa il Basso Egitto e torna a Gerusalemme. Dalla città santa, nel corso d’una seconda escursione scende fino al Giordano, costeggia il Mar Morto e sale al monte Nebo, dalla cima del quale Mosé vide la terra promessa prima di morire. Lasciata la Palestina, Egeria torna a spostarsi verso est, raggiunge Antiochia, da qui il fiume Eufrate, varcato il quale è a Edessa; visita poi il villaggio di Charra, ove Abramo giunse dopo aver lasciato la patria nativa su comando di Dio, e poco lontano il pozzo di Giacobbe, quindi torna sui propri passi, e finalmente arriva al Bosforo. Da Costantinopoli scrive alle sorelle per avvisarle che non intende ancora tornare in patria:

Mie signore ... ho già in animo di partire nel nome di Cristo vostro Dio da questo luogo e andare in Asia, ad Efeso, per pregare sul martyrium del santo e beato apostolo Giovanni. Se dopo di ciò sarò ancora in questo corpo, se potrò conoscere altri luoghi, io stessa di presenza ne parlerò alla carità vostra — se Dio vorrà concedermelo — oppure, se avrò in animo qualche altro progetto, lo racconterò per iscritto.

Il suo è un viaggio nei luoghi delle Scritture, ma anche un viaggio attraverso il libro delle Scritture, di cui ricostruisce i fatti nel teatro geografico che li ambientò. Lo stile è quello di una donna di buona educazione letteraria, che rinuncia alle eleganze della forma classica per adottare la semplicità del linguaggio biblico; negli stessi anni, anche Girolamo compie il medesimo sforzo, lavorando alla sua Vulgata. La narrazione di Egeria è dunque dì genere squisitamente monastico: essa si presenta quale soggetto religioso consapevole di aver abbracciato, con certi valori e contenuti, anche un modo di comunicarli. Il suo scritto appassionerà i monaci del Medioevo, quando il pellegrinaggio diventerà una delle forme di devozione più in voga. Il monaco spagnolo Valerio, vissuto circa tre secoli dopo di lei, scrive:

Se noi ci occupiamo degli atti virtuosi degli uomini fortissimi e santi, la nostra ammirazione è tanto più attratta dalla fermezza costantissima d’una fragile donna: com’è narrato dalla meravigliosa storia della beatissima Egeria, che si mostrò più coraggiosa di qualunque uomo al mondo .. Perciò carissimi, come non arrossire di vergogna, noi che godiamo di forze fisiche e di perfetta salute, dinanzi a questa donna che ha seguito l’esempio del patriarca Abramo battendo coraggiosamente come ferro sull’incudine quel corpo femminile tanto fragile, nella speranza della ricompensa infinita della vita eterna?

Dal viaggio di Egeria agli studi biblici di Marcella, dalle battaglie religiose di Olimpia alle penitenze di Maria Egiziaca, le vite delle prime monache cristiane perseguono in diverse direzioni l’unico intento di cercare Dio. Queste donne, come le loro sorelle più o meno anonime, sono consapevoli che tale ricerca, benché avvenga in modi differenziati, non può svolgersi se non è fortemente orientata. Nulla di ciò che fanno è affidato al caso, tutto è guidato nel solco dell’insegnamento di Cristo e della tradizione dei padri. Esse sanno che il monachesimo non è una scelta da condursi spontaneamente, ma una vera e propria militanza entro i ranghi di una gerarchia di princìpi e di autorità, con un suo codice di comportamenti; e che soltanto su un percorso ben tracciato potranno conseguire progressi. Le monache cristiane, già ai primordi, sanno che il monastero non è un indefinito luogo di ritiro, ma una scuola, dove imparano come vestirsi, dormire, mangiare, pregare, studiare, meditare e, sopra ogni cosa, come rinunciare alla volontà propria per dare modo alla volontà divina di manifestarsi. Il concetto di monastero-scuola compare per la prima volta nella agiografia di santa Eugenia, nella quale si snoda il solito itinerario della giovane che si traveste da uomo, diventa monaco, poi abate e, attraversate le necessarie traversie, guadagna enorme potere di conversione. Un anonimo e importante legislatore, il cosiddetto Maestro, attivo nell’Italia centrale all’inizio del secolo VI, raccomanda ai suoi discepoli di leggere la vita di Eugenia e ripropone l’idea che il monastero è una scuola al servizio del Signore. Benedetto da Norcia inquadrerà il concetto con ogni chiarezza nella sua Regola e le monache d’Occidente lo erediteranno attraverso di lui.

L’autorità della superiora all’interno dei monasteri è sacra e viene sempre espressa con definizioni che indicano la sua maternità spirituale, quali mater animarum, mater familias, mater montisterii. Il termine abbadessa, femminile di abate, non è in uso in questi primi secoli, ma fa la sua apparizione più tardi a Roma, nel monastero situato presso la basilica cimiteriale di Sant’Agnese fuori le mura. Costruita per incarico di Costantina, figlia dell’imperatore Costantino, intorno alla metà del IV secolo sulle catacombe che ospitano le spoglie della martire, la basilica comprende anche un mausoleo, eretto dalla stessa principessa per avervi un giorno sepoltura, insieme con la sorella Elena, sposa di Giuliano l’Apostata. E in questo luogo significativo, dove s’incrociano percorsi di donne impegnate ad affermare il cristianesimo, che compare per la prima volta in Occidente il termine abbatissa: lo troviamo sulla lapide tombale della sacra virgo Serena, oggi esposta fra il materiale archeologico del complesso monumentale. Questa lapide data l’anno 514. Siamo alla vigilia di una svolta che per il monachesimo femminile, come per quello maschile, si profila epocale.
 


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21 giugno 2014                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net