LE CONFERENZE SPIRITUALI

di GIOVANNI CASSIANO


 Cassianus Ioannes - Collationes

 

 

COLLATIO UNDECIMA

Quae est prima abbatis Chaeremonis

DE PERFECTIONE

 XIa CONFERENZA

PRIMA CONFERENZA DELL'ABATE CHEREMONE

LA PERFEZIONE

 Estratto da "Patrologia Latina Database" vol. 49 - J. P. Migne

 Estratto da “Giovanni Cassiano – Conferenze spirituali” – Edizioni Paoline - 1965

CAPUT PRIMUM.
CAPUT II. De episcopo Archebio.
CAPUT III. Descriptio eremi in qua commorabantur Chaeremon, Nesteros et Joseph.
CAPUT IV. De abbate Chaeremone, et excusatione ejus super postulata doctrina.
CAPUT V. De responsione nostra contra excusationem ejus.
CAPUT VI. Propositio abbatis Chaeremonis, quod tribus modis vitia vincantur.
CAPUT VII. Quibus gradibus ad sublimitatem charitatis possit ascendi et quae sit in ea stabilitas.
CAPUT VIII. Quantum excellant, qui per charitatis affectum declinant a vitiis.
CAPUT IX. Quod charitas non solum de servis filios faciat, sed etiam imaginem Dei ac similitudinem ferat.
CAPUT X. Quod perfectio charitatis sit pro inimicis orare, et quo indicio anima necdum purgata noscatur.
CAPUT XI. Interrogatio, cur affectum timoris et spei dixerit imperfectum.
CAPUT XII. Responsio de diversitate perfectionum.
CAPUT XIII. De timore qui de charitatis magnitudine generatur.
CAPUT XIV. Interrogatio de consummatione castitatis.
CAPUT XV. Dilatio expositionis postulatae

I. La città di Tenneso.
II. Il vescovo Archebio.
III. Il deserto in cui vivevano Cheremone, Nestero e Giuseppe.
IV. L’abate Cheremone e la scusa da lui addotta per non tenerci la conferenza richiesta.
V. Nostra risposta.
VI. Proposizione dell’abate Cheremone: i vizi si vincono in tre modi.
VII. Per quali gradi si giunge alla vetta della carità. Stabilità di questa virtù.
VIII. Eccellenza di coloro che sfuggono ai vizi per mezzo della carità vissuta.
IX. La carità non solo ci trasforma da servi in figli, ma imprime in noi l’immagine e la somiglianza di Dio.
X. La perfezione della carità consiste nel pregare per i nemici; da qual segno si può riconoscere che un’anima non è ancora purificata.
XI. Perché i sentimenti di timore e di speranza son giudicati imperfetti?
XII. Risposta sui diversi gradi di perfezione.
XIII. Il timore che nasce dall’abbondanza della carità.
XIV. Domanda sulla castità perfetta.
XV. La risposta è rinviata ad altro tempo.

CAPUT PRIMUM.

Cum in coenobio Syriae consistentes, post prima fidei rudimenta succedentibus aliquatenus incrementis, majorem perfectionis desiderare gratiam coepissemus, statuimus confestim Aegyptum petere, ac remotissima etiam Thebaidos eremo penetrata, sanctorum plurimos, quorum gloriam fama per universa diffuderat, si non aemulandi, saltem agnoscendi studio invisere.

Igitur ad oppidum Aegypti, cui Thennesus nomen est, emensa navigatione pervenimus. Cujus accolae ita vel mari vel stagnis salsis undique circumluuntur, ut solis, quia terra deest, negotiationibus dediti, opes atque substantiam navali commercio parent, ita ut aedificiis cum voluerint exstruendis terra non suppetat, nisi de longinquo navigiis apportetur.

CAPUT II. De episcopo Archebio.

Ubi cum advenientibus nobis favens desideriis nostris divinitas beatissimi atque praecipui viri Archebii episcopi praestitisset adventum, qui raptus de anachoretarum coetu, et episcopus Panephysi oppido datus, tanta districtione omni aevo suo propositum solitudinis custodivit, ut nihil de praeteritae humilitatis tenore laxaverit, aut de adjecto sibi honore blanditus sit; non enim tamquam idoneum se ad istud officium testabatur ascitum, sed velut indignum ab illa anachoreseos disciplina querebatur expulsum, eo quod triginta septem annis in eadem commoratus, ad puritatem tantae professionis nequaquam pervenire potuisset;

hic igitur cum in supradicta Thenneso, quo eum eligendi illic episcopi causa perduxerat, pie nos atque humanissime suscepisset, agnito desiderio nostro, quo sanctos Patres etiam in ulterioribus Aegypti partibus inquirere desiderabamus: Venite, inquit, et videte interim senes haud longe a nostro monasterio consistentes, quorum ita et antiquitas in corporibus jam curvatis, et sanctitas in ipso etiam fulget aspectu, ut vel sola contemplatio eorum magnam intuentibus possit conferre doctrinam, a quibus id quod ego amissum doleo, quodque tradere jam perditum nequeo, non tam verbis quam ipso sanctae vitae discatis exemplo. Credo autem inopiam meam hoc studio aliquatenus sublevandam, si inquirentibus vobis illam evangelicam margaritam (Matth. XIII), quam ipse non habeo, saltem providero ubi eam commodius comparetis.

CAPUT III. Descriptio eremi in qua commorabantur Chaeremon, Nesteros et Joseph.

Sumpto itaque baculo et pera, ut illic cunctis viam ingredientibus monachis moris est, ad civitatem nos suam, id est Panephysim, itineris dux ipse perduxit.

Cum terras, immo etiam contiguae regionis plurimam partem quondam opulentissimam (siquidem ex ea cunctae, ut fama est, regioni cibus subministrabatur) repentino terraemotu excussum mare transgressis limitibus occupavit, atque ita collapsis ferme omnibus vicis, opimas olim terras salsis paludibus supertexit, ut illud quod in psalmo spiritaliter decantatur: Posuit flumina in desertum, et exitus aquarum in sitim, terram fructiferam in salsuginem, a malitia inhabitantium in ea (Psal. CVI), secundum litteram de illa putent regione praedictum; in his igitur locis multa in hunc modum oppida eminentioribus tumulis collocata, fugatis habitatoribus, eluvies illa velut insulas fecit, quae desideratam secedentibus sanctis solitudinem praebent, in quibus tres senes, id est, Chaeremon, Nesteros et Joseph, anachoretae antiquissimi consistebant.

I - La città, di Tenneso

La nostra vita monastica incominciò in un monastero di Siria. Là imparammo i primi elementi della fede e facemmo qualche progresso; ben presto però sentimmo il desiderio di una perfezione più alta e decidemmo di recarci in Egitto. Volevamo giungere fino al deserto lontano della Tebaide, per visitare il più gran numero possibile di quei santi monaci di cui la fama aveva sparso il nome per tutta la terra. Ci sospingeva a questa impresa il desiderio di conoscere questi santi uomini; se non proprio quello di gareggiare con loro in santità.

Alla fine della navigazione giungemmo ad una città egiziana chiamata Tenneso. Essa è circondata dalle acque: da una parte ha il mare, dall’altra laghi salati. I suoi abitanti, non avendo terra da coltivare, si danno alla mercatura: tutta la loro ricchezza nasce dal commercio marittimo. Hanno sì poca terra che quando vogliono costruire delle abitazioni, sono costretti a portarla di lontano con le navi.

II - II vescovo Archebio

Noi arrivammo quando il Signore, sempre benevolo ai nostri voti, faceva giungere pure il vescovo Archebio.

Egli era uomo di grande santità, ammirabile in tutto. Quantunque lo avessero strappato alla vita anacoretica per farlo vescovo di Panefisi, egli conservò sempre la più stretta fedeltà alla vita monastica. Nessuno lo vide mai abbandonare, sia pure per poco, la sua primitiva umiltà, nessuno lo vide compiacersi della dignità vescovile. Egli credeva di essere stato eletto a quell’ufficio, non già perché lo avevano trovato degno, ma perché avevano voluto cacciarlo dal monastero, come indegno di continuare ancora la vita monastica. La sua colpa — egli affermava — consisteva in questo: in trentasette anni che era stato nel deserto non aveva saputo raggiungere quella purezza del cuore che la professione monastica esige.

Archebio si trovava in quel giorno a Tenneso perché chiamatovi dalla elezione di un nuovo vescovo. Ci accolse con tutti i segni della più squisita carità; poi, quand’ebbe conosciuto il nostro desiderio di andare a visitare i Padri, fino nelle regioni più remote dell’Egitto, ci disse: «Venite intanto a vedere quei santi vecchi che abitano qui, non lontano dal nostro monastero. La loro anzianità si riconosce chiaramente dalla positura curva del loro corpo, la loro santità brilla in tutto l’aspetto. Il solo vederli è già un grande insegnamento per quei fortunati ai quali è concessa tal grazia. Da loro imparerete — più dall’esempio di una vita santa che dalle parole del labbro — quel segreto divino che io ho perduto e ora non sono più in grado di comunicarvi. Ma con questo consiglio che vi dò, spero di sollevare un poco la mia miseria: infatti, pur non possedendo più io quella preziosa margherita di cui parla il Vangelo (Mt 13,45 Vulg.), posso e voglio procurare a voi il mezzo per acquistarvela più facilmente».

III - Il deserto in cui vivevano Cheremone, Nestero e Giuseppe

Prese bastone e bisaccia, com’è costume di tutti i monaci di quel luogo quando si mettono in cammino, e ci guidò alla sua città vescovile.

I dintorni di Panefisi, come la più gran parte di quella regione, erano un tempo campi fertilissimi, tanto che proprio da quelle terre si prendevano i cibi per la mensa del re. Ora invece tutto era sommerso dal mare. Le acque del mare, sollevate da un violento terremoto, avevano rotto le dighe e sommerso tutti i villaggi all’intorno, e ora coprivano con paludi salmastre un territorio altra volta ridente e fecondo. Lì si era avverato in senso letterale quello che il Salmo canta in senso spirituale e mistico: «Egli mutò i fiumi in deserto e le fonti d’acqua in assetata steppa, e la terra fruttifera in una salina, per la malvagità dei suoi abitanti » (Sal 106,33-34).

C’erano in quella zona molti paesi costruiti sulle alture; l’inondazione, dopo averne cacciati gli abitanti, ne fece delle isole deserte che offrivano ai monaci in cerca di luoghi appartati, la solitudine desiderata. Là dimoravano, ormai vecchissimi, tre eremiti: Cheremone, Nestero e Giuseppe.

 

CAPUT IV. De abbate Chaeremone, et excusatione ejus super postulata doctrina.

Itaque beatus Archebius primum nos perducere ad Chaeremonem maluit, qui et monasterio ejus propior, et duobus aliis provectior esset aetate. Nam cum centenarium vitae annum spiritu tantum alacer excessisset, ita dorsum ejus temporis fuerat vetustate atque orationum jugitate curvatum, ut quasi in primaevam redactus infantiam, submissis ac protentis terratenus manibus progrederetur.

Hujus igitur et vultum mirabilem et incessum pariter intuentes (siquidem defectis mortificatisque jam omnibus membris, nequaquam censuram praeteritae districtionis amiserat), cum sermonem atque doctrinam suppliciter posceremus, ac desiderium tantum spiritalium institutionum causam fuisse adventus nostri protestaremur, graviter ille suspirans: Quid vobis, ait, possum conferre doctrinae, cum imbecillitas senectutis ut rigorem pristinum relaxavit, ita loquendi quoque ademit fiduciam? Quemadmodum enim docere praesumam, quod ipse non facio; aut alium in eo instruam, quod me jam minus vel tepidius exercere cognosco? Ob quam rem nullum juniorem mihi in hanc usque aetatem cohabitare permisi, ne exemplo meo alterius districtio laxaretur. Numquam enim erit efficax instituentis auctoritas, nisi eam effectu operis sui cordi affixerit audientis.

CAPUT V. De responsione nostra contra excusationem ejus.

Ad haec nos non mediocri confusione compuncti, ita respondimus: Licet sufficere nobis ad omnem instructionem debeat vel loci istius difficultas, vel ipsa etiam solitaria adhuc vita, quam juventus quoque robusta vix posset tolerare, quae nos etiam, te tacente, satis abundeque instruunt atque compungunt, rogamus tamen ut taciturnitate paululum praetermissa, ea nobis potius dignanter infundas, per quae hanc quam videmus in te virtutem non tam imitatione complecti, quam admiratione possimus.

Nam etiamsi revelatus tibi tepor noster impetrare id quod expetimus non meretur, debet hoc saltem labor tanti itineris obtinere, quod huc de Bethleemitici coenobii rudimentis, institutionis vestrae desiderio et profectus nostri amore, properavimus.

CAPUT VI. Propositio abbatis Chaeremonis, quod tribus modis vitia vincantur.

Tunc beatus Chaeremon; Tria sunt, inquit, quae faciunt homines a vitiis temperare, id est, aut metus gehennae, sive praesentium legum, aut spes atque desiderium regni coelorum, aut affectus boni ipsius amorque virtutum.

Nam timor ita mali contagium legitur exsecrari: Timor Domini odit malitiam (Proverb. VIII).

Spes etiam, vitiorum omnium excludit incursum. Non enim delinquent omnes qui sperant in eum (Psal. XXXIII). Amor quoque ruinam non metuit peccatorum, quia Charitas numquam cadit (I Cor. XIII). Et iterum: Charitas operit multitudinem peccatorum (I Petr. IV).

Et idcirco beatus Apostolus omnem salutis summam istarum trium virtutum consummatione concludens: Nunc, inquit, manent fides, spes, charitas: tria haec (I Cor. XIII).

Fides namque est, quae futuri judicii ac suppliciorum metu vitiorum facit contagia declinari; spes, quae mentem nostram de praesentibus avocans, universas corporis voluptates coelestium praemiorum exspectatione contemnit; charitas, quae nos ad amorem Christi et spiritalium virtutum fructum mentis ardore succendens, quidquid illis contrarium est, toto facit odio detestari.

Quae tria, licet ad unum finem tendere videantur, provocant enim nos a rebus illicitis abstinere, magnis tamen excellentiae suae gradibus ab invicem disparantur. Duo namque superiora proprie hominum sunt eorum qui ad profectum tendentes, necdum affectum concepere virtutum. Tertium specialiter Dei est, et eorum qui in sese imaginem Dei ac similitudinem receperunt.

Ille namque solus ea quae bona sunt, nullo metu, nulla remunerationis gratia provocante, sed solo bonitatis affectu operatur: Omnia enim, ut ait Salomon, operatus est Dominus propter semetipsum (Prov. XVI). Suae namque bonitatis obtentu, omnem bonorum copiam dignis indignisque largitur, quia nec fatigari injuriis potest, nec iniquitatibus hominum passibiliter promoveri, semper scilicet manens perfecta bonitas immutabilisque natura.

IV. - L’abate Cheremone e la scusa da lui addotta per non tenerci la conferenza richiesta

Il beato Archebio preferì condurci prima dall’abate Cheremone, sia perché abitava più vicino al suo monastero, sia perché dei tre egli era il più vecchio. Egli aveva passato i cento anni e di vivo gli rimaneva soltanto lo spirito. Gli anni e le preghiere continue lo avevano curvato a tal punto che — quasi fosse tornato alla prima infanzia — camminava con le mani poggiate a terra.

Noi osservammo meravigliati l’ammirabile bellezza del suo volto e il suo modo strano di camminare. Aveva le membra consunte, come se già fossero morte; con tutto ciò non aveva minimamente diminuito il rigore della sua antica austerità.

Gli domandammo umilmente di accordarci una istruzione spirituale e di comunicarci la sua dottrina; gli protestammo anche che la nostra visita aveva uno scopo solo: conoscere le regole della vita spirituale. Alla nostra domanda emise un profondo sospiro e disse: «Quale insegnamento posso darvi io? La debolezza dell’età, che mi obbliga ad attenuare il rigore dei tempi andati, mi toglie anche il coraggio di parlare. Come potrei presumere d’insegnare quello che io stesso non faccio? Come potrei ammaestrare altri in quelle pratiche che io stesso compio tanto malamente? Questa è la ragione per cui non ho permesso che alcuno dei giovani solitari abitasse con me: temevo che il mio esempio intiepidisse il fervore degli altri. Infatti la parola del maestro ha forza ed autorità soltanto quando la virtù delle sue azioni la imprimono nel cuore dello scolaro».

V - Nostra risposta

Non poco confusi da queste parole, noi rispondemmo: « Dovrebbe bastare ad istruirci perfettamente la vista del luogo in cui vivi e la vita solitaria che osservi ancora, a questa età avanzatissima.

Il tuo tenore di vita sarebbe appena sopportabile per un giovane robusto. Anche se tu taci, queste cose parlano eloquentemente: ci danno grandi insegnamenti, ci producono sincera compunzione. Tuttavia ti preghiamo di rompere il silenzio e di volerci dire qualcosa per cui noi, oltre ad imitare la virtù che vediamo in te, abbiamo anche motivo per ammirarla come lo merita.

Se la tiepidezza che scopri in noi non vale ad ottenere quel che domandiamo, valgano almeno le fatiche di un lungo viaggio che dal monastero di Betlemme, dove s’imparano soltanto i rudimenti della vita monastica, ci hanno condotti fin qui, sospinti dal desiderio di udire i tuoi insegna- menti e di progredire nella via della perfezione».

VI - Proposizione dell’abate Cheremone: i vizi si vincono in tre modi

Allora il beato Cheremone prese a dire: tre cose trattengono l’uomo dall’abbandonarsi al vizio: il timore dell’inferno o di altri castighi minacciati dalle leggi umane; la speranza e il desiderio del regno dei cieli; l’amore del bene in quanto bene, o amore delle virtù.

Leggiamo infatti che il timore respinge il contagio del male: «Il timore di Dio odia il male » (Pr 8,32).

Anche la speranza sbarra la via alle incursioni dei vizi: «Coloro che sperano in Lui non peccheranno » (Sal 33,23). L’amore, poi, non teme il danno del peccato, perché «la carità non viene mai meno » (1 Cor 13,8), essa « copre la moltitudine dei peccati » (1 Pt 4,8).

L’Apostolo ha compendiato nella perfezione di queste tre virtù l’essenza della salute: « Ora — egli dice — restano queste tre cose: la fede, la speranza e la carità » (1 Cor 13,13).

La fede ci fa evitare il contagio del vizio per paura del giudizio divino e dei castighi eterni; la speranza distoglie la nostra mente dalle cose presenti e, nell’attesa del premio celeste, disprezza tutti i piaceri del corpo; la carità, accendendoci ad amare Cristo e a cogliere il frutto delle virtù spirituali, ci fa detestare con tutto il cuore ciò che a questo fine si oppone.

Pur essendo vero che queste tre virtù tendono allo stesso fine, che è quello di tenerci lontani dalle cose illecite, tuttavia sono assai diverse per dignità ed eccellenza. Le prime due sono proprie di quegli uomini che cercano il progresso spirituale, ma non hanno concepito ancora un affetto sincero per le virtù. La carità invece è propria di Dio e di chiunque ha ricevuto in sé l’immagine e la somiglianza di Dio.

Dio solo fa il bene senza essere a ciò sospinto dalla paura di un castigo o dalla speranza di un premio: egli lo fa soltanto per amore e bontà: « Il Signore ha fatto tutto per sé stesso » (Pr 16,4), dice Salomone. A causa della sua bontà egli dona l’abbondanza di tutti i beni ai degni e agli indegni. Le ingiurie non lo muovono, le iniquità degli uomini non lo irritano o l’addolorano: egli rimane sempre Bontà perfetta, Natura immutabile.

 

CAPUT VII. Quibus gradibus ad sublimitatem charitatis possit ascendi et quae sit in ea stabilitas.

Si quis igitur ad perfectionem tendit, de illo primo timoris gradu, quem proprie diximus esse servilem, de quo dicitur: Cum omnia feceritis, dicite, quia servi inutiles sumus (Luc. XVII),

ad altiorem spei tramitem gradu proficiente conscendet, qui jam non servo, sed mercenario comparatur, quia mercedem retributionis exspectat, et quasi de peccatorum absolutione et poenali timore securus, ac bonorum sibi operum conscius, licet placiti praemium videatur expetere, tamen ad affectum illum filii qui de paternae indulgentiae liberalitate confidens, omnia quae patris sunt sua esse non ambigit, pervenire non potuit.

Ad quem etiam ille prodigus, qui cum substantia patris etiam filii nomen amiserat, aspirare non audet, dicens: Jam non sum dignus vocari filius tuus; fac me sicut unum de mercenariis tuis (Luc. XV). Post illas enim porcorum siliquas, quarum ei satietas negabatur, id est, vitiorum sordidos cibos, qui in semetipsum reversus, et salutari timore compunctus, immunditiam porcorum horrere jam coeperat, ac dirae famis supplicia formidabat, velut jam servus effectus, etiam mercenarii statum de mercede jam cogitans, concupiscit ac dicit: Quanti mercenarii in domo patris mei abundant panibus, et ego hic fame pereo! Revertar ergo ad patrem meum, et dicam illi: Pater, peccavi in coelum et coram te, jam non sum dignus vocari filius tuus; fac me sicut unum de mercenariis tuis (Ibid.).

CAPUT VIII. Quantum excellant, qui per charitatis affectum declinant a vitiis.

Sed ad istam humilis poenitentiae vocem in occursum ejus pater prosiliens, majore quam emissa fuerat pietate suscepit, eumque non contentus minora concedere, utroque gradu sine dilatione transcurso, pristinae filiorum restituit dignitati.

Festinandum proinde nobis etiam est, ut ad tertium filiorum gradum, qui omnia quae patris sunt sua esse credunt, per indissolubilem charitatis gratiam conscendentes, coelestis illius Patris imaginem ac similitudinem recipere mereamur, et ad imitationem veri illius Filii proclamare possimus: Omnia quae habet pater, mea sunt (Joan. XVI). Quod etiam de nobis beatus Apostolus profitetur, dicens: Omnia vestra sunt, sive Paulus, sive Apollo, sive Cephas, sive mundus, sive vita, sive mors, sive praesentia, sive futura, omnia vestra sunt (I Cor. III).

Ad quam similitudinem etiam Salvatoris praecepta nos provocant: Estote, inquit, et vos perfecti, sicut et Pater vester coelestis perfectus est (Matth. V).

In illis enim nonnumquam solet interrumpi bonitatis affectus, cum aliquo vel tepore, vel laetitia, vel oblectatione vigor animi relaxatus, aut metum ad praesens gehennae, aut desiderium subtrahit futurorum. Et est quidem in illis gradus cujusdam profectus imbuens nos, ut dum vel poenarum metu, vel praemiorum spe incipimus vitia declinare, ad charitatis gradum transire possimus, quia Timor, inquit, non est in charitate, sed perfecta charitas foras mittit timorem, quoniam timor poenam habet. Qui autem timet, non est perfectus in charitate. Nos ergo diligamus, quia Deus prior dilexit nos (I Joan. IV). Non ergo aliter ad illam veram perfectionem conscendere poterimus, nisi quemadmodum nullius alterius nisi nostrae salutis gratia prior nos ille dilexit, ita eum nos quoque nullius alterius rei nisi sui tantum amoris dilexerimus obtentu. Quamobrem nobis studendum est, ut de hoc timore ad spem, de spe ad charitatem Dei, vel ipsarum virtutum amorem, perfecto mentis conscendamus ardore, ut transmigrantes in affectum boni ipsius, immobiliter, quantum humanae possibile est naturae, quod bonum est, retentemus.

VII - Per quali gradi si giunge alla vetta della carità. Stabilità di questa virtù

Se uno vuol tendere alla perfezione, dovrà incominciare dal primo grado, che è quello del timore. Si tratta di uno stato che è proprio degli schiavi o dei servi, come abbiamo già detto; di esso sta scritto: «Quando avrete fatto tutto quello che era di dovere, direte: noi siamo dei servi inutili » (Lc 17,10).

Dal timore, il nostro ricercatore della perfezione, dovrà passare, attraverso un progresso continuo, al grado più alto, che è quello della speranza. Questo secondo grado non somiglia più alla condizione del servo, ma a quella del mercenario: la speranza infatti resta in attesa d’una ricompensa. Chi ne è dotato è certo del perdono ricevuto, non ha timore del castigo, è anzi cosciente delle sue buone opere e aspetta il premio promesso da Dio. Tuttavia la speranza non è giunta ancora a quel sentimento affettuoso del figlio, il quale, fiducioso nell’amore e nella generosità paterna, è certo già di possedere tutto quanto appartiene al padre suo.

A queste altezze non osa più aspirare il prodigo del Vangelo, il quale ha perduto, oltre all’eredità paterna, anche il titolo di figlio: «Io non sono più degno — egli dice — di essere chiamato tuo figlio » (Lc 15,19). Aveva strappato le ghiande ai porci: aveva cioè voluto il cibo sordido del vizio e non gli era stato concesso di saziarsene. Rientrò allora in sé stesso, fu preso da salutare timore, concepì orrore per l’immondezza dei porci, ebbe paura dei tormenti crudeli della fame. Questi sentimenti lo fecero somigliante ad uno schiavo. Poi pensò alla ricompensa che i mercenari ricevevano in casa sua, invidiò la loro condizione e disse: «Quanti mercenari in casa di mio padre hanno pane in abbondanza, mentre io, qui, muoio di fame. Tornerò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il cielo e davanti a te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio: trattami come uno dei tuoi mercenari » (Lc 17-19).

(Inizio del capitolo VIII secondo PL. Ndr)

Ma il padre gli si è mosso incontro: egli accetta e ricambia la parola di umile pentimento, dettata da sentimenti affettuosi, con un affetto ancora più grande. Non vuole concedergli i beni minori che il figlio umilmente chiedeva, ma subito lo restituisce alla dignità di figlio suo, senza neppur pensare un istante a farne un suo schiavo o un mercenario.

Affrettiamoci anche noi a salire, con l’aiuto della divina grazia al terzo grado, che è quello dei figli, i quali credono che appartenga a loro tutto ciò che appartiene al padre. Sforziamoci di ricevere in noi l’immagine e la somiglianza del Padre celeste per poi dire anche noi, a imitazione del Figlio primogenito: «Tutto ciò che ha il Padre è mio » (Gv 16,15). Questo concetto lo esprime anche l’Apostolo, dopo averlo applicato a noi. Egli dice: «Ogni cosa è vostra, sia Paolo, sia Apollo, sia Cefa, sia il mondo, sia la vita, sia la morte, sia le cose che sono ora, sia le future: tutto è vostro » (1 Cor 3,22).

Anche il comando del Salvatore ci invita a somigliare al Padre: « Siate perfetti — dice — come il Padre vostro dei cieli è perfetto » (Mt 5,48).

Nei gradi inferiori della vita spirituale l’amore del bene qualche volta s’interrompe: ciò avviene quando la tiepidezza, la gioia, il piacere attenuano il vigore dell’anima e fanno perdere per qualche tempo il timore dell’inferno e il desiderio dei beni eterni. Tuttavia anche nei gradi inferiori c’è un’occasione e una scuola di progresso. Dopo aver evitato il vizio per timore del castigo o per la speranza del premio, diventa più facile passare al grado della carità. «Il timore infatti non sta nella carità; ma la carità perfetta manda via il timore, perché il timore ha in sé tormento; e chi teme non è perfetto nella carità. Noi dunque amiamo Dio, poiché egli per il primo ci ha amati » (Gv 4, 18-19). Non c’è altra via per giungere alla vera perfezione: come Dio ci ha amati per primo, senza guardare ad altro che alla nostra salvezza, così noi dobbiamo amarlo unicamente perché è degno d’essere amato.

Sforziamoci dunque di salire dal timore alla speranza, dalla speranza all’amore di Dio e delle virtù. Emigriamo nella regione in cui il bene si ama per sé stesso e fissiamo qui la nostra stabile dimora, almeno per quanto è possibile alla natura umana.

 

CAPUT IX. Quod charitas non solum de servis filios faciat, sed etiam imaginem Dei ac similitudinem ferat.

Multum namque differt inter eum qui metu gehennae, vel spe retributionis futurae, vitiorum in se exstinguit incendia, et eum qui divinae charitatis affectu ipsam malitiam et immunditiam perhorrescit, ac puritatis possidet bonum amore tantum et desiderio castitatis, nec jam remunerationem futurae promissionis aspiciens, sed praesentis boni delectatus conscientia, agit omnia, nec contemplatione poenarum, sed delectatione virtutum. Hic namque status nec, submotis cunctorum hominum testimoniis, abuti occasione peccati, nec occultis cogitationum violari oblectationibus potest, dum affectum virtutis ipsius medullitus retinens, quidquid illi contrarium est, non solum corde non recipit, verum etiam summo detestatur horrore.

Aliud namque est, praesenti bono quempiam delectatum, odio habere vitiorum carnisve contagia, aliud futurae remunerationis intuitu illicitas concupiscentias refrenare; aliudque est praesens metuere detrimentum, et aliud futurum formidare supplicium. Postremo multo majus est propter bonum ipsum a bono nolle discedere, quam propter metum mali malis non praebere consensum. In illo enim voluntarium bonum est, in isto vero velut coactum et tamquam nolenti violenter extortum, vel metu supplicii vel cupiditate praemiorum.

Nam qui timoris obtentu a vitiorum abstinet blandimentis, adempto timoris obstaculo, rursum ad illud quod diligit revertetur, et ob id nec stabilitatem boni jugiter obtinebit, sed nec ab impugnatione quidem aliquando requiescet, quia nec firmam ac perpetuam pacem castimoniae possidebit. Ubi est enim inquietudo bellorum, non possunt non etiam vulnerum intervenire discrimina. Necesse est enim quempiam in conflictu situm, quamvis bellator sit, ac fortiter dimicans lethalia adversariis vulnera frequenter infligat, nonnumquam tamen hostili mucrone perstringi.

Qui vero superata impugnatione vitiorum, pacis jam securitate perfruitur, et transiit in ipsius virtutis affectum, jugem statum illius boni, cujus jam totus est, retentabit, quia damno intimae castitatis nihil credit esse damnosius. Nec enim charius ac pretiosius quidquam praesenti judicat puritate, cui poena gravis est, vel virtutum perniciosa trangressio, vel ipsius vitii virulenta contagio. Huic, inquam, nec reverentia humanae praesentiae quidquam adjiciet honestatis, nec minuet solitudo, sed ubique secum semperque circumferens arbitram non solum actuum, sed etiam cogitationum suarum conscientiam, illi potissimum studere contendit, quem etiam circumveniri, nec falli, nec subterfugere se posse cognoscit.

 

(Inizio del capitolo IX secondo PL. Ndr)

VIII - Eccellenza di coloro che sfuggono ai vizi per mezzo della carità vissuta

Esiste una grande differenza tra uno che spegne in sé le fiamme del vizio per timore dell’inferno o per il desiderio del premio futuro, e un altro che sta, inorridito, lontano dal male e da ogni impurità soltanto perché animato dall’amore verso Dio. Quest’ultimo possiede la virtù della purezza per solo amore e desiderio della castità. Egli non guarda lontano, al premio che gli è promesso, ma la coscienza che ha di un bene già presente gli reca sommo diletto. Fa tutto, non già perché vede i castighi, ma perché si compiace della virtù. Costui, anche se fosse senza alcun testimone, non prenderebbe occasione per peccare, né lascerebbe che la sua anima fosse profanata dalla segreta compiacenza dei pensieri cattivi. L’amore della virtù lo ha penetrato fino nelle fibre più intime; non solo non accoglie nella mente i moti contrari alla virtù, ma li detesta e li respinge con orrore.

Altro è odiare le brutture del vizio e della carne perché si gusta un bene presente, altro è frenare le concupiscenze illecite in vista della ricompensa futura. Altro è temere un danno presente, altro è paventare castighi futuri. Finalmente è segno di perfezione più grande non volersi staccare dal bene per amore di quel bene stesso, che negare il proprio assenso al male per paura di un male maggiore. Nel primo caso il bene è volontario, nel secondo caso appare imposto e come estorto violentemente, o dal timore del castigo o dalla brama del premio.

Colui che rinuncia alle seduzioni del vizio per motivi di timore, svanito il timore che lo tratteneva, tornerà all’oggetto che desiderava. Non ci sarà per lui stabilità nel bene; anzi non avrà neppure tregua dalle tentazioni, perché non possiede la pace solida e costante che deriva dalla castità. Dove regna il tumulto della guerra, è impossibile non correre il pericolo di essere feriti. E quando uno si trova nel combattimento, quantunque da forte e coraggioso combattente infligga spesso ai suoi nemici ferite mortali, tuttavia è inevitabile che sia qualche volta messo alle strette dalla spada del nemico.

Chi invece, dopo aver superata la guerra dei vizi, gode ormai una pace sicura ed è passato ad amare la virtù per se stessa, cercherà di rendere duraturo il possesso del bene che già gode e sarà convinto che nessun danno è per lui maggiore di un semplice attentato alla sua castità. La purezza che possiede è il suo tesoro più caro e prezioso: per lui il castigo più grande sarebbe la perdita della sua virtù, o l’infiltrazione del vizio contrario.

La presenza di altre persone o la solitudine più assoluta niente toglie e niente aggiunge alla modestia di un simile uomo. Egli porta con sé, sempre e dappertutto, il giudice supremo di tutti i suoi atti, anzi dei suoi stessi pensieri: quel giudice è la coscienza. Il suo più grande impegno sarà dunque di piacere a lei, a questa coscienza che non si può raggirare, né ingannare, né sfuggire.

 

CAPUT X. Quod perfectio charitatis sit pro inimicis orare, et quo indicio anima necdum purgata noscatur.

Quem statum si quis de adjutorio Dei, non de studii sui labore praesumens, meruerit possidere, de conditione servili (in qua timor est) et mercenaria spei cupiditate (in qua non tam bonitas largientis quam praemium retributionis expetitur) in adoptionem incipiet transire filiorum, ubi jam non timor, non cupiditas, sed illa charitas, quae numquam cadit, jugiter perseverat (I Cor. XIII).

De quo timore et charitate quosdam increpans Dominus, quid cuique personae conveniret, ostendit. Filius honorat patrem, et servus dominum suum timet. Et si Pater ego sum, ubi est honor meus? Et si Dominus ego sum, ubi est timor meus (Malach. I)?

Necesse est enim eum timere qui servus est; quia sciens voluntatem domini sui, si non fecerit, digne vapulabit plagis multis (Luc. XII).

Per hanc itaque charitatem quisquis ad imaginem Dei similitudinemque pervenerit, bono jam propter boni ipsius delectabitur voluntatem; ac similem quodammodo possidens patientiae ac lenitatis affectum, nullis deinceps peccantium vitiis irascetur, sed veniam potius, infirmitatibus eorum condolens atque compatiens, implorabit, reminiscens se tamdiu similium passionum stimulis impugnatum, donec miseratione Domini salvaretur, nec suo erutum studio ab impugnatione carnali, sed Dei protectione salvatum, ut non iracundiam, sed misericordiam errantibus intelligeret impendendam, illum versiculum ad Deum cum omni cordis tranquillitate decantans: Tu dirupisti vincula mea, tibi sacrificabo hostiam laudis (Ps. CXV). Et, Nisi quia Dominus adjuvit me, paulominus habitaverat in inferno anima mea (Psal. XCIII).

Et in hac mentis humilitate consistens, poterit etiam Evangelicum illud perfectionis explere mandatum: Diligite inimicos vestros, et benefacite his qui oderunt vos, et orate pro persequentibus et calumniantibus vos (Luc. VI); et ita ad illud praemium quod subjungitur, poterit pervenire, per quod non solum imaginem Dei et similitudinem perferamus, verum etiam filii Dei nuncupemur: Ut sitis, inquit, filii Patris vestri qui in coelis est, qui solem suum oriri facit super bonos et malos, et pluit super justos et injustos (Matth. V).

Quem affectum beatus Joannes assecutum se esse cognoscens, ait: Ut fiduciam habeamus in die judicii, quia sicut ille est, et nos sumus in hoc mundo (I Joan. IV).

In quo enim infirma et fragilis humana natura esse, sicut ille est, potest, nisi se in bonos et malos, justos et injustos, ad imitationem Dei, placida semper sui cordis extenderit charitate? Ut bonum propter boni ipsius operetur affectum, perveniens ad illam veram adoptionem filiorum Dei, de qua idem beatus Apostolus ita pronuntiat: Omnis qui natus est ex Deo, peccatum non facit, quia semen ipsius in eo est, et non potest peccare, quoniam ex Deo natus est (I Joan. III). Et iterum: Scimus quia omnis qui natus est ex Deo, non peccat, sed generatio Dei conservat eum, et malignus non tangit eum (I Joan. V).

Quod intelligendum est non de omni genere peccatorum, sed de capitalibus tantum criminibus dici. A quibus se quisquis abstrahere atque emundare noluerit, pro illo in alio loco praedictus Apostolus ne orari quidem debere, pronuntiat: Qui scit, inquiens, fratrem suum peccare peccatum non ad mortem, petat, et dabitur ei vita peccanti non ad mortem. Est peccatum ad mortem, non pro illo dico ut roget quis (Ibid.).

Caeterum de illis quae pronuntiantur non esse ad mortem, a quibus etiam hi qui fideliter Christo deserviunt, quantalibet semetipsos circumspectione cusrodiant, immunes esse non possunt, ita dicitur: Si dixerimus quoniam peccatum non habemus, ipsi nos seducimus, et veritas in nobis non est (I Joan. I). Et iterum: Si dixerimus quia non peccavimus, mendacem facimus eum, et verbum ejus non est in nobis (Ibid.).

Impossibile namque est quemlibet sanctorum non in istis minutis quae per sermonem, per cogitationem, per ignorantiam, per oblivionem, per necessitatem, per voluntatem, per obreptionem admittuntur, incurrere. Quae licet ab illo peccato, quod ad mortem esse dicitur, aliena sint, culpa tamen ac reprehensione carere non possunt.

Cum ergo quis hunc quem praediximus bonitatis affectum et imitationem Dei fuerit assecutus, tunc visceribus Dominicae longanimitatis indutus, pro persecutoribus quoque suis orabit similiter, dicens: Pater, ignosce eis, non enim sciunt quid faciunt (Luc. XXIII).

Caeterum evidens indicium est animae necdum vitiorum faecibus eliquatae, in criminibus alienis affectu misericordiae non condolere, sed rigidam judicantis tenere censuram. Nam quemadmodum perfectionem cordis poterit obtinere is qui non habet illud quod Apostolus plenitudinem legis consummare posse signavit? Alterutrum, inquiens, onera vestra portate, et sic implebitis legem Christi (Galat. VI). Sed nec illam virtutem possidet charitatis, quae non irritatur, non inflatur, non cogitat malum; quae omnia suffert, omnia sustinet (I Cor. XIII). Justus enim miseretur animas pecorum [Lips. in marg. peccatorum] suorum; viscera autem impiorum sine misericordia (Prov. XII). Ideoque iisdem vitiis monachum subjacere certissimum est, quae in alio, inclementi atque inhumana severitate, condemnat. Rex enim rigidus incurrit mala; et Qui obturat aures suas ne audiat infirmum, et ipse invocabit, et non erit qui exaudiat eum (Prov. XXI).

(Inizio del capitolo X secondo PL. Ndr)

IX - La carità non solo ci trasforma da servi in figli, ma imprime in noi l’immagine e la somiglianza di Dio

Se uno si è stabilito in questa condizione (e ciò per opera dell’aiuto divino, non per il proprio valore o impegno), costui incomincerà le sue ascensioni. Dallo stato di servo, che ha come segno distintivo il timore; dallo stato di mercenario, che si distingue per la speranza, la quale si attacca di più alla ricompensa in sé che alla bontà di colui che la dona, passerà allo stato dei figli adottivi, dove non c’è più né timore né desiderio, ma solo e per sempre quell’amore che mai viene meno.

Timore e amore si ritrovano in un rimprovero che Dio rivolge al suo popolo. In quell’occasione Dio insegna a chi convenga l’uno e a chi convenga l’altro. «Un figlio onora il padre, un servo il suo padrone. Dunque, se sono io il padre, dov’è l’onor mio? Se sono io il padrone, dov’è il rispetto a me dovuto? » (Mal 1,6).

Il servo deve necessariamente temere, perché se «ha conosciuto la volontà del padrone e non ha preparato né fatto nulla per compiere tale volontà, sarà aspramente battuto » (Lc 12,47).

Chi invece, attraverso l’amore, è giunto a possedere l’immagine e la somiglianza di Dio, si compiace del bene per il bene, a motivo della gioia che prova nel praticarlo. In più abbraccia con uno stesso amore la pazienza e la dolcezza. Le colpe dei peccatori non lo muovono più all’ira, chiede invece che Dio li perdoni, tanto son grandi la pietà e la comprensione che sente per la loro debolezza. Ricorda bene d’avere provato gli stimoli delle medesime passioni fino al giorno in cui la misericordia divina non si compiacque di liberarlo. Sa che non furono i suoi sforzi a liberarlo dagli assalti della carne, ma la protezione di Dio. Per questo si è convinto che con chi sbaglia non si deve usare ira, ma solo compassione. Perciò egli canta a Dio questo versetto, con assoluta tranquillità di cuore: «Tu hai spezzato le mie catene! A te immolerò una vittima di lode e di ringraziamento» (Sal 115, 16-17). E ancora: «Se non fosse stato che il Signore mi ha aiutato, abiterebbe già negli inferi l’anima mia » (Sal 93,17).

Quando uno sia bene stabilito nell’umiltà dello spirito, potrà adempiere il precetto evangelico della perfetta carità: «Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, pregate per quelli che vi perseguitano e vi calunniano » (Mt 5,44). Per questa via si giunge a quel premio di cui il Vangelo parla subito dopo: di meritare cioè il titolo di figli di Dio, oltre a possedere la sua immagine e la sua somiglianza. Dice infatti: «Affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli, il quale fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti » (Mt 5,45).

San Giovanni era consapevole di essere giunto a questo stato quando diceva: «Abbiamo fiducia per il dì del giudizio: perché quale egli è, tali pure siamo noi in questo mondo» (Gv 4,17).

In qual modo la natura umana, così debole e fragile, può sperare di essere come Gesù? Soltanto se estenderà a tutti, buoni e cattivi, giusti e ingiusti, la carità tranquilla di un cuore che imita quello del Signore, e fa il bene per l’amore del bene. Così l’uomo arriva alla vera adozione dei figli di Dio, della quale il medesimo san Giovanni dice: «Chiunque è nato da Dio non fa peccato perché tiene in sé il germe di Lui» (1 Gv 3,9). E ancora: «Sappiamo che chiunque è nato da Dio, non pecca; ma la divina generazione lo conserva e il maligno non lo tocca» (1 Gv 5,18).

Queste parole tuttavia non vanno riferite ad ogni peccato, ma solo ai vizi capitali. A proposito di queste colpe capitali, lo stesso apostolo san Giovanni dice che se uno non vuole liberarsene e purificarsene, non merita più neppure che si preghi per lui: «Chi sa che il proprio fratello commette un peccato che non conduce a morte, chieda e sarà data la vita a quello che pecca non a morte. Vi è un peccato a morte: non dico che uno preghi per questo» (1 Gv 5,16).

Peraltro, dei peccati che non portano alla morte e dai quali non vanno esenti neppure i fedeli servi di Cristo, per quanto siano attenti ad evitarli, così è scritto: «Se diremo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi» (1 Gv 1,8). E ancora: «Se diremo di non aver peccato, facciamo bugiardo Lui, e la sua parola non è in noi» (1 Gv 1,10).

È impossibile anche per un santo non cadere in qualcuna di quelle imperfezioni che si commettono con le parole, coi pensieri, per ignoranza o dimenticanza, per inavvertenza, per volontà, per sorpresa. Tutte queste cose, anche se restano lontane da quelli che sono detti peccati mortali, non possono però essere immuni da colpa o da qualche castigo.

X - La perfezione della carità consiste nel pregare per i nemici; da qual segno si può riconoscere che un’anima non è ancora purificata

Quando uno sarà giunto a quell’amore del bene e a quella imitazione del Padre celeste, di cui abbiamo parlato, rivestirà quei sentimenti di longanimità che furono propri del Signore e, a somiglianza di lui, pregherà così per i suoi persecutori: « Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno » (Lc 23,34).

È invece un segno evidente di un’anima non ancora purificata dalla sozzura dei vizi, il fatto che le colpe del prossimo non trovino in essa compassione e misericordia, ma la rigida condanna d’un giudice. Come potrà ottenere la perfezione del cuore colui che manca di quell’elemento nel quale, a detta dell’Apostolo, sta la perfezione di tutta la legge? «Portate — dice san Paolo — i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo» (Gal 6,2). Chi non possiede la virtù della carità che «non si irrita, non s’inorgoglisce, non pensa male, soffre tutto, sopporta tutto» (1 Cor 13,4-7), come potrà essere perfetto? È scritto infatti: «Il giusto ha cura anche della vita delle sue bestie, ma le viscere degli empi sono crudeli» (Pr 12,10).

È dunque certo che quando un monaco condanna i vizi degli altri con severità inflessibile e disumana, è soggetto anche lui a quei medesimi vizi. Sta scritto: «Il re severo cadrà nei guai » (Pr 13,17 – LXX) e «Chi chiude gli orecchi al grido del misero, se anch’egli griderà non sarà udito» (Pr 21,13).

CAPUT XI. Interrogatio, cur affectum timoris et spei dixerit imperfectum.

Germanus: Potenter quidem atque magnifice de perfecta Dei charitate dissertum est; verumtamen illud nos permovet, quod cum eam tanta laude praetuleris, timorem Dei et spem retributionis aeternae imperfecta esse dixisti, cum utique multo aliud videatur de eis Propheta sensisse, dicens: Timete Dominum, omnes sancti ejus, quia nihil deest timentibus eum (Psalm. XXXIII). Et iterum in observandis justificationibus Dei, retributionis se contemplatione fateatur exercitatum: Inclinavi, inquiens, cor meum ad faciendas justificationes tuas in aeternum propter retributionem (Psalm. CXVIII). Et Apostolus: Fide, inquit, Moyses grandis factus, negavit se esse filium filiae Pharaonis, magis eligens affligi cum populo Dei, quam temporalis peccati habere jucunditatem, majores divitias existimans thesauris Aegyptiorum, improperium Christi (Hebr. XI). Aspiciebat enim in remunerationem. Quomodo ergo imperfecta esse credenda est, cum et beatus David retributionis obtentu justificationes Domini se fecisse glorietur, et legislator praemia futura prospiciens, sprevisse adoptionem regiae dignitatis, et afflictionem dirissimam Aegyptiorum thesauris praetulisse dicatur?

CAPUT XII. Responsio de diversitate perfectionum.

Chaeremon: Pro statu atque mensura uniuscujusque mentis Scriptura divina ad diversos perfectionum gradus arbitrii nostri provocat libertatem. Nec enim poterat uniformis omnibus perfectionis corona proponi, quia nec omnium una virtus, aut voluntas aut fervor est; et idcirco ipsarum quodammodo perfectionum diversos ordines diversasque mensuras sermo divinus instituit.

Quod ita esse evangelicarum quoque beatitudinum varietas evidenter ostendit. Licet enim beati dicantur quorum sunt regna coelorum, et beati qui possidebunt terram, et beati qui consolationem recipient, et beati qui saturitate potientur (Matth. V); tamen multum credimus interesse inter habitationem regni coelorum et possessionem illius quaecumque est terrae, et inter perceptionem consolationis et plenitudinem saturitatemque justitiae; multumque distare inter illos qui misericordiam consequentur et illos qui gloriosissima visione Dei perfrui merebuntur. Alia enim gloria solis, et alia gloria lunae, et alia gloria stellarum. Stella enim a stella differt in gloria, ita et resurrectio mortuorum (I Cor. XV).

Cum igitur juxta hunc modum Scriptura divina timentes Deum laudet et dicat: Beati omnes qui timent Dominum (Psalm. CXXVII), et plenam per hoc illis beatitudinem repromittat; iterum tamen dicit: Timor non est in charitate, sed perfecta charitas foras mittit timorem, quoniam timor poenam habet. Qui autem timet non est perfectus in charitate (I Joan. IV).

Et rursus, cum servire Deo gloriosum sit, et dicatur: Servite Domino in timore (Psalm. II). Et: Magnum tibi est vocari servum meum (Isa. XLIX). Et: Beatus servus ille, quem, cum venerit dominus suus, invenerit sic facientem (Luc. XII). Tamen ad apostolos dicitur: Jam non dicam vos servos, quia servus nescit quid faciat dominus suus. Vos autem dico amicos, quia omnia quaecumque audivi a Patre meo, nota feci vobis (Joan. XV). Et iterum: Vos amici mei estis, si feceritis ea quae praecipio vobis (Ibid.).

Videtis ergo perfectionum gradus esse diversos, et de excelsis ad excelsiora nos a Domino provocari, ut ita is qui in timore Dei beatus et perfectus exstiterit, ambulans, sicut scriptum est, de virtute in virtutem (Psalm. LXXXIII), et de perfectione ad aliam perfectionem, id est, de timore ad spem, mentis alacritate conscendens, ad beatiorem denuo statum, quod est charitas, invitetur. Et qui fuerit fidelis servus ac prudens, ad amicitiae sodalitatem et adoptionem transeat filiorum.

Secundum ergo hunc sensum nostra quoque est intelligenda sententia, non quod contemplationem perpetuae illius poenae, vel beatissimae retributionis, quae repromittitur sanctis, nullius pronuntiemus esse momenti; sed quia cum sint utiles, et sectatores suos ad initia beatitudinis introducant, charitas rursum, in qua plenior fiducia perpetuumque jam gaudium est, assumens eos de timore servili et mercenaria spe, ad dilectionem Dei et adoptionem transfert filiorum, et quodammodo perfectiores facit de perfectis.

Multae enim, ait Salvator, mansiones sunt apud Patrem meum (Joan. XIV). Et licet omnia astra esse videantur in coelo, inter claritatem tamen solis et lunae atque luciferi, caeterarumque stellarum multa distantia est.

Et idcirco beatus Apostolus, non solum timori ac spei, sed etiam cunctis charismatibus, quae magna ac mirifica habentur, eam praeferens supra modum, excellentiorem omnibus charitatem ostendit.

Nam cum vellet, expleto omni catalogo spiritualium charismatum, virtutum ejus membra describere, ita praefatus est: Et adhuc supra modum excellentiorem viam vobis demonstro. Si linguis hominum loquar et angelorum, et si habuero prophetiam, et noverim mysteria omnia, et omnem scientiam, et si habuero omnem fidem, ita ut montes transferam, et si distribuero in cibos pauperum omnes facultates meas, et si tradidero corpus meum ita ut ardeam, charitatem autem non habuero, nihil mihi prodest (I Cor. XII et XIII). Videtis ergo nihil pretiosius, nihil perfectius, nihilque sublimius, et (ut ita dixerim) nihil charitate perennius inveniri. Sive enim prophetiae evacuabuntur, sive linguae cessabunt, sive scientia destruetur; charitas autem numquam excidet (Ibid.), sine qua non solum illa praecellentissima charismatum genera, sed etiam martyrii ipsius gloria vacuatur.

 

XI - Perché i sentimenti di timore e di speranza son giudicati imperfetti?

Germano. Tu hai parlato in modo forte e dolce del perfetto amore di Dio; noi però abbiamo qualcosa ancora che gravemente ci turba. Mentre innalzavi tanto la virtù della carità, dichiaravi imperfetto il timor di Dio unitamente alla speranza, o desiderio del premio eterno. Pare però che il profeta sia stato di avviso diverso a questo proposito. Egli dice: «Temete il Signore, o voi tutti santi suoi, perché nulla manca a coloro che lo temono » (Sal 33,10). Altrove lo stesso profeta confessa di essersi esercitato nell’osservanza dei comandamenti in vista della ricompensa: «Ho inclinato il mio cuore ad eseguire i tuoi statuti in eterno, a motivo della ricompensa » (Sal 118,112). Inoltre l’Apostolo ci attesta: «Per la fede Mosè, fatto grande, rifiutò di esser detto figlio di una figlia di Faraone, preferendo di esser maltrattato insieme col popolo di Dio, piuttosto che avere il godimento momentaneo della colpa, e stimando l’obbrobrio di Cristo, come una ricchezza maggiore dei tesori egiziani, poiché aveva lo sguardo rivolto alla ricompensa » (Eb 11, 24-26).

Come si potrà credere che la fede e la speranza siano imperfette, dal momento che il beato David si gloria di aver osservato la legge del Signore in vista della ricompensa, e Mosè — così si afferma — disprezzò l’adozione nella famiglia reale, e antepose una crudele afflizione ai tesori egiziani, perché guardava lontano alle ricompense future?

XII - Risposta sui diversi gradi di perfezione

Cheremone. La sacra Scrittura chiama il nostro libero arbitrio a gradi diversi di perfezione, secondo lo stato e la misura di ciascuna persona. Non era possibile proporre a tutti la stessa corona di santità, perché non tutti hanno la stessa virtù, la stessa volontà, lo stesso fervore. Perciò la parola di Dio stabilisce, anche nella perfezione, diversi gradi e diverse misure.

Una riprova di questo disegno del Signore si ha nelle beatitudini evangeliche, che mostrano evidente una certa varietà. È detto in esse: beati coloro ai quali appartiene il regno dei cieli; beati coloro che possederanno la terra; beati coloro che saranno consolati; beati coloro che saranno saziati. Noi crediamo però che ci sia una bella differenza tra abitare nei cieli e possedere la terra, qualunque sia qui il significato della parola terra. Crediamo inoltre che ci sia differenza fra ricevere una consolazione e possedere la pienezza e la sazietà della giustizia. Ci sembrano cose tra loro distanti ricevere misericordia e meritare di godere la visione di Dio. Ci pare qui a proposito la parola dell’Apostolo: «Altro è lo splendore del sole, altro quello della luna, altro quello degli astri, poiché un astro è differente dall’altro per splendore. Così è anche la resurrezione dei morti » (1 Cor 15,41-42).

È vero che la Scrittura loda coloro che temono il Signore e promette ad essi la beatitudine eterna, da conseguire per questo mezzo: «Beati tutti coloro che temono il Signore » (Sal 127,1). Ma la stessa Scrittura dice anche: «Il timore non sta nella carità; ma la carità perfetta manda via il timore, perché il timore ha in sé tormento, e chi teme non è perfetto nella carità » (1 Gv 4,18).

Allo stesso modo: è una gloria servire il Signore, sta scritto infatti: « Servite il Signore nel timore » ( Sal 2,11); « È gran cosa per te esser chiamato mio servo » (Is 49,6 –LXX); « Beato quel servo che, al ritorno del suo padrone, sarà trovato attivo » (Mt 24,46); tuttavia agli apostoli è detto: « Io non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quel che fa il suo padrone: vi ho chiamati amici, perché vi ho fatto conoscere tutto quello che ho udito dal padre mio » (Gv 15,15). E ancora: « Voi sarete miei amici se farete tutto quello che vi comando » (Gv 15,13).

Vedete dunque che esistono più gradi di perfezione. Da una vetta il Signore c’invita a salire sopra un’altra vetta ancora più alta. Chi s’è fatto beato e perfetto nel timore di Dio, passerà di virtù in virtù (Sal 83,8), come dice la Scrittura, cioè di perfezione in perfezione. Ciò significa che egli progredirà dal timore alla speranza; poi udrà l’invito di Dio che lo chiama ad uno stato ancora più santo, cioè alla carità. Colui che sarà stato un « servo fedele e prudente » (Mt 24,45), sarà ammesso all’intimità dell’amicizia con Dio e riceverà l’adozione dei figli.

Ecco il senso in cui vanno prese le mie parole. Io non intendo dire che la meditazione delle pene eterne o dell’eterna ricompensa promessa ai santi, è cosa di nessun valore. È utile e preziosa, perché introduce coloro che la praticano nella via della perfezione e della beatitudine. Ma la carità è più perfetta, s’illumina di una fiducia più grande e si ammanta già dell’eterna gioia. Essa prende l’uomo e lo eleva, dal timore del servo e dalla speranza del mercenario, lo porta all’amore di Dio e alla condizione di suo figlio adottivo. E se è vero che trova l’uomo già perfetto, si deve affermare che lo fa più perfetto.

Il Salvatore ha detto: « Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore » (Gv 14,2). Tutti gli astri del cielo brillano, ma tra lo splendore del sole, della luna, della stella del mattino e delle altre stelle, c’è una notevole differenza.

Per queste ragioni il beato Apostolo innalza la carità non soltanto al di sopra del timore e della speranza, ma anche al di sopra di tutti i carismi, che sono stimati tanto grandi ed eccellenti. La carità è fra tutte la via più perfetta.

Dopo aver concluso il catalogo dei carismi, san Paolo si accinge a cantare partitamente (ovvero “nei singoli particolari”. Ndr) le lodi della carità e introduce così il discorso: « Io vi indico una via di gran lunga migliore. Se io parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, e non avessi amore, non sarei che un bronzo risonante, o un cembalo squillante. E se avessi il dono della profezia, e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza; e se avessi tutta la fede, sì da trasportare le montagne, e poi mancassi di amore, non sarei nulla. E se anche sbocconcellassi a favore dei poveri tutto quello che ho, e dessi il mio corpo per essere arso, e non avessi amore, non ne avrei alcun giovamento » (1 Cor 12,31; 13,1-3).

Vedete bene che niente esiste di più prezioso, di più perfetto, di più sublime, di più eterno — se così posso dire — della carità. « Le profezie termineranno; le lingue cesseranno; la scienza finirà in nulla. La carità non verrà mai meno » (1 Cor 13,8). Senza carità, i più alti carismi, e lo stesso martirio, non valgono a nulla.

CAPUT XIII. De timore qui de charitatis magnitudine generatur.

Quisquis igitur in hujus fuerit charitatis perfectione fundatus, necesse est ut ad illum sublimiorem charitatis timorem gradu excellentiore conscendat, quem non poenarum terror, nec cupido praemiorum, sed amoris generat magnitudo, quo vel filius indulgentissimum patrem, vel fratrem frater, vel amicum amicus, vel conjugem conjux sollicito reveretur affectu, dum ejus non verbera neque convicia, sed vel tenuem amoris formidat offensam, atque in omnibus non solum actibus, verum etiam verbis attonita semper pietate distenditur, ne erga se quantulumcumque fervor dilectionis illius intepescat.

Cujus timoris magnificentiam Isaias unus prophetarum eleganter expressit, Divitiae, inquiens, salutis sapientia et scientia: timor Domini ipse thesaurus ejus (Isa. XXXIII). Non potuit timoris istius dignitatem ac meritum magis evidenter exprimere, quam ut divitias salutis nostrae, quae in vera sapientia Dei scientiaque consistunt, diceret nisi a timore Domini non posse servari. Ad hunc igitur metum non peccatores, sed sancti propheticis invitantur eloquiis, dicente psalmographo: Timete Dominum, omnes sancti ejus, quia nihil deest timentibus eum (Psal. XXXIII). Qui enim hoc timore Dominum metuit, perfectioni ejus certum est nihil deesse. Nam de illo timore poenali evidenter Joannes apostolus dicit: Qui timet, non est perfectus in charitate, quia timor poenam habet (Joan. IV).

Multa igitur distantia est inter istum timorem cui nihil deest, qui sapientiae scientiaeque thesaurus est; et illum imperfectum, qui principium sapientiae nuncupatur, quique poenam in sese continens, de perfectorum cordibus superveniente plenitudine charitatis extruditur: Timor enim non est in charitate, sed perfecta charitas foras mittit timorem (Ibid.).

Et revera, si principium sapientiae in timore consistit (Psal. CX), quae erit ejus, nisi in Christi charitate perfectio, quae illum in sese perfectae dilectionis continens metum, non jam principium, sed thesaurus sapientiae et scientiae nuncupatur?

Et idcirco duplex timoris est gradus: unus incipientium, id est, eorum qui adhuc sub jugo et terrore servili sunt, de quo dicitur: Servus dominum suum timebit (Malach. I). Et in Evangelio: Jam non dico vos servos, quia servus nescit quid faciat dominus ejus (Joan. XV). Et ideo Servus, inquit, non manet in domo in aeternum (Joan. VIII).

Imbuit enim nos ut ab illo poenali metu ad charitatis plenissimam libertatem et amicorum filiorumque Dei fiduciam transeamus.

Denique beatus Apostolus qui servilem illum timoris gradum olim charitatis Dominicae virtute transcenderat, inferiora despiciens, majoribus se ditatum bonis a Domino profitetur: Non enim, inquit, dedit nobis Deus spiritum timoris, sed virtutis et dilectionis et sobrietatis (II Timoth. I).

Eos etiam qui perfecta coelestis illius Patris dilectione flagrabant, quosque ex servis filios adoptio divina jam fecerat, hoc adhortatur eloquio: Non enim accepistis spiritum servitutis iterum in timore, sed accepistis spiritum adoptionis filiorum, in quo clamamus, Abba, Pater (Rom. VIII).

De hoc etiam metu cum illam septiformem Spiritus sancti gratiam propheta describeret, quem in homine illo Dominico secundum Incarnationis dispensationem descendisse non dubium est, dixissetque: Et requiescet super eum spiritus Domini, spiritus sapientiae et intellectus, spiritus consilii et fortitudinis, spiritus scientiae et pietatis; novissime velut quiddam praecipuum intulit dicens: Et replebit eum spiritus timoris Domini (Isa. XI).

In quo primitus illud diligentius est intuendum, quod non dixerit: Et requiescet super eum spiritus timoris Domini, sicut de illis prioribus dixerat; sed Replebit, inquit, eum spiritus timoris Domini. Tanta enim ubertatis ejus est magnitudo, ut quem semel sua virtute possederit, non partem, sed totam ejus occupet mentem. Nec immerito. Illi etenim quae numquam excidet cohaerens charitati, non solum replet, sed etiam perpetua et inseparabili eum quem ceperit possidet jugitate, nullis laetitiae temporalis, vel voluptatum oblectationibus imminutus. Quod nonnumquam illi, qui foras mittitur, timori evenire consuevit.

Hic est igitur perfectionis timor, quo homo ille Dominicus, qui non solum redimere humanum genus, sed etiam praebere venerat perfectionis formam atque exempla virtutum, repletus fuisse narratur.

Illum enim servilem suppliciorum timorem, verus Dei Filius, Qui peccatum non fecit, nec dolus inventus est in ore ejus (I Petr. II), habere non potuit.

CAPUT XIV. Interrogatio de consummatione castitatis.

Germanus: Quia de perfectione charitatis sermo digestus est, volumus etiam de castitatis fine aliqua liberius sciscitari. Non enim ambigimus illud praecelsum fastigium charitatis, per quam sicut huc usque dissertum est, ad imaginem Dei similitudinemque conscenditur, sine castitatis perfectione subsistere omnino non posse, sed utrum ita ejus possit perpetuitas obtineri, ut numquam libidinis titillatio integritatem nostri cordis infestet, et ita valeamus ab hac passione carnali degentes in corpore peregrinari, ut numquam incentivorum aestibus aduramur, volumus edoceri.

CAPUT XV. Dilatio expositionis postulatae

Chaeremon: Summae quidem beatitudinis ac singularis est meriti, ita istum per quem Domino cohaeremus affectum, vel discere jugiter vel docere, ut meditatio ejus secundum Psalmographi sententiam, omnes vitae nostrae dies noctesque consumat (Psalm. I), et mentem nostram insatiabiliter esurientem sitientemque justitiam coelestis hujus cibi perpetua ruminatione sustentet.

Sed consulendum est etiam jumento corporis nostri secundum benignissimam Salvatoris nostri providentiam, ne deficiat in via. Spiritus enim promptus est, caro autem infirma (Matth. XXVI):

quae etiam nunc vel exigui cibi perceptione curanda est, ut post perfectionem ejus, etiam ad ea quae desideratis, diligentius indaganda, mentis quoque addatur intentio.

 

XIII - Il timore che nasce dall’abbondanza della carità

Chi avrà posto solido fondamento nella perfezione della carità, salirà ad un grado più eccellente e più sublime ancora, voglio dire il timore amoroso. Questa specie di timore non nasce dalla paura dei castighi o dal desiderio del premio; nasce soltanto dalla grandezza dell’amore. E l’affetto profondo e delicato che un figlio ha per un padre pieno di bontà, il fratello per il fratello, l’amico per l’amico, la sposa per lo sposo. Non teme percosse o rimproveri, teme solo di ferire l’amore, anche con la ferita più leggera. In ogni atto, in ogni parola sta all’erta e si controlla per non perdere neppure in misura impercettibile la delicatezza del suo amore.

Uno dei profeti ha ben descritto la bellezza di questo timore amoroso: « Sapienza e scienza saranno ricchezze di salute, ma il timore di Dio ne sarà il tesoro » Is 33,6). Il profeta non poteva sottolinearne con più evidenza la dignità e la preziosità. Le ricchezze della nostra salute, che consistono nella sapienza e nella scienza di Dio, non possono essere conservate se non nel timore di Dio. Per questo gli oracoli dei profeti invitano al timore amoroso, non già i peccatori ma i santi; dice infatti il Salmista: « Temete il Signore, voi tutti suoi santi, perché niente manca a coloro che lo temono » (Sal 33,10). Chi teme il Signore di questo timore, può esser sicuro che niente gli manca per essere perfetto. Non si confonda il timore amoroso con quello servile di cui parla san Giovanni quando dice: « Chi teme non è perfetto nella carità, perché il timore ha in sé tormento » (1 Gv 4,18).

C’è dunque una grande differenza tra quel timore a cui niente manca, che è il tesoro in cui son custodite la sapienza e la scienza, e l’altro timore imperfetto che è appena l’inizio della sapienza (Sal 110,10), che porta con sé la minaccia del castigo e viene estromesso dal cuore dei perfetti al sopraggiungere della perfetta carità. Sta scritto infatti: « Il timore non sta nella carità; la perfetta carità caccia via il timore » (1 Gv 4,18).

E tutto è logico. Se il principio della sapienza è nel timore, dove sarà la perfezione della sapienza, se non nella carità di Cristo, la quale ingloba in sé il timore amoroso e perfetto e merita perciò di essere chiamata non più inizio della sapienza, ma tesoro della sapienza e della scienza?

Esistono dunque due gradi di timore. Uno è proprio dei principianti, cioè di quelli che stanno ancora sotto il giogo dei servi. Di questo timore è scritto: « Il servo temerà il suo padrone » (Gv 15,14). Il Vangelo aggiunge poi: « Non vi chiamerò più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone » (Gv 8,35). Perciò sta scritto ancora: « Lo schiavo non resta per sempre nella casa; il figlio invece vi resta per sempre » (Gv 8,35).

La sacra Scrittura ha voluto invitarci così a salire dal timore del castigo, alla perfetta libertà dell’amore e alla confidenza che è propria degli amici e dei figli di Dio.

Infine il beato Apostolo che, per la virtù della divina carità, aveva di gran lunga superato lo stato del timore servile, rimirando dall’altezza della carità questo dono inferiore, proclama di essere stato arricchito da Dio di doni assai più preziosi. « Dio non ci ha dato uno spirito di timore, ma di forza e di amore e di saggezza » (2 Tm 1,7).

Lo stesso Apostolo esorta così coloro che ardono in cuore d’amore perfetto per il Padre celeste, e che l’adozione divina ha trasformati da schiavi in figli: « Non avete mica ricevuto lo spirito di servitù da ricadere nel timore, ma spirito di adozione a figlioli, in cui gridiamo: Abba, Padre! » (Rm 8,15).

Del timore amoroso parla anche il profeta quando descrive lo spirito settiforme che è sceso indubbiamente sull’Uomo-Dio, secondo il piano dell’incarnazione. « E si poserà su lui lo spirito del Signore: spirito di sapienza e di intelletto, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di scienza e di pietà, e lo spirito del timore del Signore lo riempirà » (Is 11,2).

Gioverà osservare che non è detto: «Riposerà su lui lo spirito di timore», come è detto per tutti gli altri doni, ma qui è detto: « lo spirito del timore lo riempirà ». Tanta è la ricchezza di questo spirito, che quando s’è impossessato di un’anima, non la possiede parzialmente, ma la penetra completamente. Ed è giusto che sia così. Il timore amoroso, per il fatto che è tutt’uno con la carità che non vien mai meno, non soltanto riempie, ma possiede inseparabilmente e per sempre colui del quale si è impossessato. Mai le compiacenze della gioia o del piacere terreno potranno diminuirlo, cosa che invece avviene spesso al timore servile.

Questo è dunque il timore dei perfetti, del quale è scritto che riempì l’Uomo-Dio, il quale non era venuto soltanto per redimerci, ma anche per darci, nella sua persona, il modello della perfezione e l’esemplare di ogni virtù.

Quanto al timore servile, Gesù non poté averlo. Egli era infatti vero figlio di Dio, e la Scrittura afferma che « non fece mai peccato e mai sul suo labbro fu trovato inganno » (1 Pt 2,22).

XIV - Domanda sulla castità perfetta

Germano. Il discorso sulla carità perfetta è ormai terminato. Vorremmo ora interrogarti sul grado più alto della castità. Il nesso tra la nostra richiesta e la tua conferenza è questo. Siamo certi che la vetta della carità, sulla quale — come ci è stato spiegato — si vive ad immagine e somiglianza di Dio, non si può raggiungere senza la perfetta castità. Ora vorremmo sapere se la castità può essere così duratura che l’integrità del nostro cuore non abbia mai da risentire i moti della concupiscenza. È possibile che noi, pur vivendo nella carne, rimaniamo così lontani dalle passioni carnali da non sentirci mai bruciare dal loro ardore?

XV - La risposta è rinviata ad altro tempo

Cheremone. Se potessimo intrattenerci continuamente in quei sentimenti che ci uniscono al Signore, sia per imparare, sia per insegnare la scienza della perfezione, noi daremmo prova di possedere la felicità perfetta e meriti straordinari. I giorni e le notti, secondo la parola del Salmista trascorrerebbero nella meditazione: le nostre anime, divorate da insaziabile fame e sete di giustizia, si nutrirebbero incessantemente di questo cibo celeste.

Ma noi abbiamo anche un corpo che è una povera bestia da soma. Bisognerà provvedere anche a quello (come c’insegna la benignissima provvidenza del Signore), per evitare che venga meno lungo il cammino. Ricordiamo che sta scritto: «Lo spirito è pronto, ma la carne è debole» (Mt 26,41).

Diamo ora un po’ di ristoro — anche frugale — al nostro corpo: quando avremo dato il necessario cibo al corpo, anche l’anima sarà più alacre nell’indagare il tema che aveva proposto.


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9 agosto 2015                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net