Cenni sull'origine del Canto Gregoriano


estratto da "Il Canto Gregoriano"

di Dom Daniel Saulnier O.S.B.

edizioni PIEMME

Cap. 1 - LA STORIA


«Cerco dovunque ciò che si pensava, ciò
che si faceva, ciò che si amava nella
Chiesa nelle età della fede.»

DOM GUÈRANGER

Quasi 2000 anni fa, il messaggio cristiano lascia la città santa di Gerusalemme e i territori della Siro-Palestina per espandersi rapidamente lungo il bacino del Mediterraneo. Con la predicazione, si diffonde anche il culto cristiano nascente: ciò che si chiama liturgia, preghiera pubblica cristiana. Dal momento che si è agli antipodi da qualsiasi tipo di centralizzazione, ogni regione celebrerà la liturgia, e perciò canterà nella propria lingua. Questa diversità delle lingue si è conservata fino ai nostri giorni per le liturgie del Medio Oriente. L’Occidente mediterraneo si è invece comportato diversamente. Dopo due secoli di liturgia in lingua greca, progressivamente venne adottata la lingua corrente: il latino. Ogni regione dell'Occidente cristiano cominciò quindi a possedere, un proprio repertorio locale di canto sacro: un’unica lingua, ma testi e musiche diverse. Oggi si è certi che siano esistiti:

 

- un canto «beneventano» per il sud dell’ltalia, 
- un canto «romano» per la città di Roma e per i territori da essa dipendenti,
- un Canto «milanese» nel nord dell’Italia,
- un canto «ispanico» sui due versanti dei Pirenei,
-
un canto «gallicano» (o più?) nelle terre della Gallia romana.
 

 

LE ORIGINI ROMANE

Di tutti questi repertori dell’Occidente antico, solo il milanese è rimasto in uso fino ai nostri giorni. In effetti la Chiesa di Milano ha conservato, non senza difficoltà e compromessi, una liturgia propria. Il suo canto è tuttora chiamato «ambrosiano», in ricordo del patronato spirituale esercitato su questa tradizione dal vescovo Ambrogio, morto nel 397. E' affidato a manoscritti del XII secolo.

La tradizione romana primitiva ci è pervenuta attraverso alcune testimonianze storiche piuttosto vaghe e soprattutto attraverso i sacramentari. Siamo quindi ben informati sull'ordinamento della antica liturgia di Roma, ma cosa possiamo sapere del suo canto? Certamente esso rientrava nella sola tradizione orale. Cinque libri, scritti dall’XI al XIII secolo, ci danno il repertorio cantato in alcune basiliche romane in quest'epoca. Anche se ci sono state delle deformazioni e delle corruzioni, devono essere state minime, perché questi manoscritti presentano tra di loro poche varianti. Consentono perciò di cogliere la tradizione del canto romano primitivo.

La composizione del repertorio romano risale, per la parte essenziale, ai secoli V e VI. Dall'inizio del IV secolo la Chiesa è liberata dalle persecuzioni; l'apparato amministrativo dell’impero romano è passato quasi del tutto al suo servizio. La costruzione delle grandi basiliche permette al culto di assumere uno sviluppo pubblico e di acquistare una nuova solennità. Vi concorrono tutte le arti, e la musica ha un proprio posto. Di fatto, fino ad allora, la maggior parte del canto era riservata a un solista. In quest’epoca nasce invece la schola cantorum, gruppo composto da una ventina di chierici (cantori esperti e giovani allievi in formazione) i quali mettono la propria competenza a servizio della celebrazione liturgica.

Nel corso dei secoli V e VI, questo gruppo di specialisti elabora un repertorio di musica religiosa colta costituito da due tipi di pezzi. Da una parte, un rimaneggiamento del repertorio preesistente. La schola sostituisce ormai il solista per l’esecuzione di alcuni pezzi che fino a questo momento gli spettavano, ma conferisce ad essi uno stile più ornato e una musicalità più complessa.

Dall’altro lato, la creazione di composizioni originali, legate allo sviluppo e all'apparato del culto nei grandi edifici: ad esempio il canto legato all'imponente processione di ingresso del celebrante.

All’avvento di papa Gregorio I (590), la composizione del corpus delle melodie romane sembra essere già portato a termine.

L'INCROCIO ROMANO-FRANCO

Nel corso della seconda metà dell'VIII secolo, inizia un avvicinamento fra il regno franco dei Pipinidi (Pipino il Breve, poi il figlio Carlo Magno) e il papato (Stefano II e i suoi successori). Questo avvicinamento è prima di tutto di ordine politico: i territori del papato sono minacciati dai Longobardi, mentre il giovane re dei Franchi è preoccupato di garantire una legittimità a un potere conquistato a viva forza. Pipino il Breve si impegna a proteggere i territori pontifici, mentre il papa viene in Francia con la sua corte, rinnova la consacrazione del re dei  Franchi (754) e soggiorna per parecchio tempo all’abbazia di San Dionigi.

Queste circostanze permettono al nuovo sovrano di apprezzare gli usi liturgici romani. Pipino il Breve vede in essi un modo di garantire l’unità religiosa dei suoi territori e, attraverso ciò, di consolidare la loro unità politica. Decreta perciò l’adozione nel suo regno della liturgia romana e questa misura verrà energicamente reiterata da Carlo Magno.

L'introduzione della liturgia romana implicava in pratica la soppressione del repertorio dei canti gallicani e la sostituzione con il repertorio romano. Vediamo così nelle corrispondenze e nelle cronache del tempo varie menzioni di richieste di invio di libri da Roma in Gallia. Invii di libri accompagnati da scambi di cantori, dato che il canto in quest’epoca non è ancora scritto: al massimo si potevano mandare libri con dei testi e senza melodia.

Ciò che si è prodotto allora, nella seconda metà dell’VIII secolo, nella Gallia franca, fra la Senna e il Reno (a Metz?), non ci è stato trasmesso da documenti scritti. I liturgisti e i musicologi hanno messo a confronto i libri romani (dei secoli XI-XIII) e i libri di canto gregoriano. Le loro conclusioni permettono di stabilire un’ipotesi altamente probabile. Al momento dell’incontro trai due repertori gallicano e romano, si produsse un incrocio. Il testo dei canti romani, consegnato per iscritto in libri, era facile da imporre e divenne il testo di riferimento.

Andò invece diversamente per la melodia. L'andamento generale del canto romano e la sua architettura modale furono per lo più accettati dai musicisti gallicani. Essi  però lo rivestirono di un’ornamentazione del tutto diversa: quella alla quale erano legati. In altre parole, invece della sostituzione pura e semplice di un repertorio con l’altro, si ebbe un’ibridazione; essa può essere riassunta dall’equazione:

Romano * Gallicano —> Romano-franco

nella quale l’asterisco indica l”incrocio.

La più antica testimonianza musicale di questo incrocio risale alla fine dell'VIII secolo; è il «tonario di Saint Riquier», che indica soltanto le prime parole e il modo di alcuni brani del nuovo canto. Occorre aspettare ancora un secolo per incontrare dei libri di canto con una notazione musicale: i primi ad esserci pervenuti appaiono proprio alla fine del IX secolo. E soprattutto nel corso del X.

Come tutti i canti liturgici dell'antichità, il nuovo repertorio di canto romano-franco è nato dalla tradizione orale, la sua analisi interna lo dimostra abbondantemente. Secondo la tesi storica appena esposta, c'è stata però una rottura della tradizione orale: soppressione di un repertorio locale (gallicano) e sostituzione con un repertorio straniero (romano-franco). Questa imposizione di un nuovo repertorio incontrò molte resistenze, in Gallia, a Milano, a Roma e in Spagna. Due sono le condizioni che hanno portato al successo un simile rimaneggiamento:

- l’invenzione di un procedimento di scrittura della melodia, cosa che costituisce una svolta considerevole nella storia della musica;

- l’attribuzione della composizione del nuovo canto a uno dei personaggi più illustri dell’antichità cristiana: il papa Gregorio Magno.

Il contesto della composizione gregoriana è quello di un ampio movimento di civilizzazione che gli storici chiamano la prima «Rinascita carolingia». Durante quest’epoca, i popoli barbari, in corso di sedentarizzazione, volgono i loro sguardi verso la cultura dell'antichità greco-romana e si fanno prendere da una certa emulazione nei confronti dell’impero bizantino. Il nuovo repertorio diventa quindi immediatamente oggetto di studio dei musicologi del tempo. Quelli che vengono chiamati i «teorici» fanno entrare le composizioni musicali in categorie ritmiche e modali a volte molto distanti dalla realtà della composizione originale. Sono essi a promuovere - dal IX secolo, prima ancora cioè della messa a punto della scrittura - il gioco della sillabizzazione e del discanto, e a fornire al nuovo repertorio uno sviluppo imprevedibile, ma anche a condurre la sua rapida decadenza.

LA DECADENZA

Molte cause vi concorrono. I progressi della notazione Le prime scritture non indicavano gli intervalli melodici, ma soltanto i valori ritmici e le sfumature agogiche. Era certamente quanto conveniva a una musica la cui essenza è far cantare delle parole seguendo le inflessioni molto libere della declamazione. Presto, però, si domandò alla notazione di indicare anche il valore degli intervalli. Mettendo a confronto i manoscritti, si constata che questa nuova preoccupazione rese impossibile per contraccolpo la conservazione della precisione delle sfumature ritmiche.

La progressiva comparsa delle linee, poi della guida (a fine rigo) e delle chiavi, e infine la loro interconnessione  nel sistema del rigo musicale guidoniano, restringono le possibilità ritmiche del notatore tanto quanto giovano all’estendersi della diffusione e all’alleggerimento della memoria. Il rigo guidoniano - perfezionato nel corso della prima metà dell’XI secolo - si comporta un poco come un filtro in rapporto alla composizione originale. Probabilmente ci impedirà sempre di accedere alla verità completa sulle scale primitive, sui microtonalismi e sul gioco dei gradi mobili.

Nella sua genesi, la scrittura musicale è intimamente legata alla tradizione orale. Prima della sua invenzione, si cantava a memoria. Durante i decenni nei quali si elabora la notazione, si canta ancora a memoria, ma il cantore ricorre al libro per prepararsi prima della cerimonia. Una volta stabilito il sistema della notazione, si canta con gli occhi fissi sul libro. A poco a poco, il ruolo della memoria si riduce; l’interprete non raggiunge più il gesto vocale originale: si ferma alla mediazione, necessariamente riduttiva, dei segni. Comincia una nuova tappa della storia della musica.

«La perdita di slancio del pensiero gregoriano immobilizzato da questi segni di riferimento fissi apriva alla musica una nuova era di creazione».

La sillabizzazione dei melismi

Il melisma, o jubilus, è un vocalizzo, un momento di musica pura che sboccia su una sillaba; è un procedimento d’ornamentazione essenziale al canto gregoriano. A partire dal IX secolo si sviluppa invece il tropo, cioè la sillabizzazione dei melismi di certi pezzi (Alleluia, Kyrie e altri canti). Dipendendo sia dal gioco di spirito  sia dalla composizione colta, per non dire preziosa o pedante, la prosula ebbe un innegabile successo a parti
re dal X secolo.

«Una contropartita è però da segnalare: quando i melismi, originariamente puri vocalizzi, sono stati trasformati in canti sillabici attraverso l’aggiunta di un testo letterario, questa modificazione non ha soltanto cambiato lo stile originale, ha anche contribuito a snaturare il ritmo; in effetti le note, che erano spesso diversificate nel loro valore come l’indicano le prime notazioni, sono rese tutte di uguale durata dall'articolazione di una sillaba su ciascuna di esse».

Il discanto

Il trattato Musica enchiriadis, datato del IX secolo, contiene la prima composizione polifonica scritta conosciuta in Occidente, insieme ai primi elementi teorici relativi al canto a più voci. E' del tutto evidente che un semplice raddoppio alla quarta annulla tutte le virtualità modali della melodia originale, mentre lo sforzo degli interpreti per assicurare la simultaneità delle parti ne rovina irrimediabilmente la scioltezza ritmica.

Alla fine del Medioevo (XV secolo), il canto gregoriano è entrato in una completa decadenza, sia nell'edizione che nell'esecuzione. I manoscritti offrono solo una «pesante e noiosa successione di note quadrate che non suggeriscono alcun sentimento e non possono dire niente all’anima». Il Rinascimento con i suoi «umanisti» dà il colpo di grazia: le melodie, corrette ufficialmente,  sono sottoposte ai canoni della latinità classica. I lunghi melismi, divenuti fastidiosi da quando si è dimenticata l’arte di cantarli, sono amputati e ridotti a poche note.

LA RESTAURAZIONE IN CORSO

Nel 1833, un giovane prete della diocesi di Le Mans, dom Prosper Guéranger, avvia la ripresa della vita monastica benedettina al priorato di Solesmes, dopo i quarant’anni di interruzione dovuta alla rivoluzione francese. Secondo la Regola di san Benedetto, la giornata del monaco è tutta centrata intorno alla celebrazione solenne della messa e dell’ufficio divino. Riprendere la vita benedettina implicava un ritorno alle forme liturgiche dell’antichità cristiana, specialmente per il canto. Poco musicista, ma uomo di gusto, erudito e con qualità di discernimento, spinto da un carisma soprannaturale, dom Guéranger affronta la restaurazione del canto gregoriano con entusiasmo.

Affronta come prima cosa l’esecuzione e chiede ai suoi monaci di rispettare nel canto il primato del testo: pronuncia, accentazione, fraseggio, altrettante garanzie di intelligibilità, al servizio della preghiera. In qualche anno, grazie ai preziosi consigli di un prete della regione, il canonico Gontier, lo stile di esecuzione del piccolo monastero è completamente rinnovato e comincia a fare scuola. La prima legge dellinterpretazione del canto gregoriano è formulata: «La regola che predomina su tutte le regole è che, salvo nella melodia pura, il canto è una lettura intelligente, ben accentata, ben prosodiata, ben fraseggiata...».

Negli anni 1860-65, dom Guéranger affidò a uno dei monaci, dom Paul Jausions, il compito di restaurare la melodia autentica, secondo il seguente principio: «Si ha  qualche volta il diritto di credere di essere in possesso della frase gregoriana nella sua purezza su un pezzo particolare, quando gli esemplari di più chiese si accordano sulla medesima lezione».

I lavori cominciano in modo molto austero. Si tratta di copiare, presso la biblioteca comunale di Angers, i più antichi manoscritti di canto gregoriano. La loro scrittura in «minute zampe di mosca» è per il momento indecifrabile.

In questo sforzo di ritrovare la cantilena gregoriana primitiva, il padre abate di Solesmes non è solo. Fa parte di un più ampio movimento d’interesse per il repertorio sacro.

E' tuttavia a Solesmes che la restaurazione prese la necessaria dimensione scientifica. I primi tentativi di confronto fra i manoscritti, condotti da dom Jausions, furono proseguiti da dom Joseph Pothier, e sfociarono nel 1883 nella pubblicazione del primo libro dei canti della messa, nel quale la restituzione raggiunge già un livello assai buono. Lo avevano preceduto, nel 1880, Les mélodies grégoriennes, primo trattato sulla composizione e l’interpretazione del canto gregoriano. Questo libro non ha perduto nulla della sua attualità.

Fu dom André Mocquereau a sviluppare questa impresa scientifica costituendo una collezione di fac-simili dei principali manoscritti di canto esistenti nelle biblioteche d'Europa. Creò così il laboratorio e la pubblicazione conosciuti sotto il nome di Paléographie Musicale (1889).

Questa collezione di fac-simili, arricchita da quegli strumenti indispensabili che sono i cataloghi, gli schedari e le tavole sinottiche, costituisce la base materiale della restaurazione delle melodie gregoriane.

Le ricerche sono arrivate, fin dall’inizio del XX secolo, ad un’edizione ufficiale dei canti della messa (Graduale romanum, 1908) e dell'ufficio (Antiphonale romanum, 1912).

Una nuova tappa fu superata con la pubblicazione dell'Antiphonale monasticum (1934), che segna un progresso nella fedeltà delle restituzioni.

La restaurazione gregoriana non è però conclusa, in quanto il recente concilio Vaticano Il (1963-1965) ha chiesto «un’edizione più critica dei libri di canto già editi».

Per condurre a termine questo compito, i ricercatori odierni sono potentemente aiutati dai lavori di dom Eugène Cardine (monaco di Solesmes, 1905-1988). E suo il merito di aver chiarito le leggi che reggono la scrittura dei neumi primitivi. Ha anche messo le basi di una «Edizione critica del Graduale romano». Il mistero che copre le origini del repertorio gregoriano non permette oggi di concludere con sicurezza quanto all’esistenza di un «archetipo» scritto di questo repertorio, ma soltanto quanto all’esistenza di un «archetipo di diffusione», sorgente assoluta e unica di tutti i documenti che ci sono stati conservati. Una pubblicazione di questa edizione critica non può perciò essere prevista a breve scadenza. Tuttavia, tutte le testimonianze importanti della tradizione sono ora conosciute, classificate e studiate; a poco a poco svelano i loro segreti.

La parola «restaurazione» merita di essere capita nella completezza del suo significato. Migliorare la restituzione melodica dei pezzi costituisce certo un contributo all’opera della restaurazione gregoriana. Ed essa non è compiuta se non quando il canto gregoriano viene integrato in modo abituale e vivo nella pratica liturgica di un’assemblea (monastero, parrocchia, ecc.), Ci sono così intere comunità che lavorano assiduamente alla restaurazione del canto gregoriano, anche se in modo nascosto e senza la minima pretesa musicologica...      


Per visionare antichi manoscritti si può visitare il sito dell'Abbazia di San Gallo: https://www.cesg.unifr.ch/it/index.htm

Per informazioni dettagliate sul canto gregoriano visitare il sito della Schola Gregoriana Mediolanensis https://www.cantogregoriano.it/


Ritorno alla pagina iniziale "Storia del Monachesimo"


| Ora, lege et labora | San Benedetto | Santa Regola | Attualità di San Benedetto

| Storia del Monachesimo | A Diogneto | Imitazione di Cristo | Sacra Bibbia |


21 giugno 2014                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net