A SCUOLA DI MANAGER CON SAN BENEDETTO?


 

Fr. Dermot TREDGET,

Member of the Order of Saint Benedict Douai Abbey, Berkshire, UK

I Benedettini negli affari e gli affari come vocazione:

l’evoluzione di un quadro etico per la nuova economia

Ciclo di conferenze e seminari: “L’Uomo e il denaro” Milano 9 ottobre 2006 - A cura di:

Associazione per lo Sviluppo degli Studi di Banca e Borsa - Università Cattolica del Sacro Cuore Facoltà di Scienze Bancarie Finanziarie e Assicurative

 

Introduzione

La prima cosa che vorrei fare in questa presentazione è quella di giustificare l’affermazione che i benedettini ne sanno qualcosa di affari e della loro gestione. Nonostante il fatto che ci proclamiamo distaccati dal mondo, abbiamo oltre quindici secoli di esperienza nell’organizzazione e mantenimento di una comunità di lavoro. Naturalmente, i monasteri non sono imprese nel senso stretto della parola – il loro fine non è quello di guadagnare. Tuttavia, sempre di più in questo mondo complesso, sottoposto a continui cambiamenti rapidi, vanno gestiti come se fossero un’impresa. In secondo luogo vorrei esplorare quello che intendiamo quando parliamo degli affari come vocazione. Ad esempio, il vostro rapporto con il mondo degli affari corrisponde ad un modo valido di condurre una vita cristiana quanto quello di un monaco benedettino come me? Anche se conveniamo che sia possibile, esiste un contrasto fra la terminologia e gli obiettivi della vocazione monastica e quelli della vocazione imprenditoriale? Quanto sono compatibili?

In conclusione, vorrei fare qualche confronto fra ‘la prassi imprenditoriale’ nella Regola di San Benedetto (RB) e la nuova economia e chiedermi se la RB può fornire un modello per un quadro etico adatto per il mondo degli affari, in particolare per il settore finanziario. Un consulente di organizzazione aziendale che lavora con i dirigenti senior nella City di Londra una volta mi ha descritto la RB come ‘manuale per la formazione a prestazione elevata’. Usava spesso alcune parti della RB per sviluppare le capacità gestionali e per guidare le organizzazioni aziendali anche in periodi di cambiamento radicale. Questo commento è indicativo di come la RB, nonostante la sua età, continui ad esercitare un’influenza anche al di fuori del monastero fino al giorno d’oggi.

I Benedettini negli affari

Come ho già detto nella mia introduzione, sebbene i monasteri non siano aziende a scopo di lucro, devono utilizzare le migliori prassi utilizzate dal mondo degli affari. Nel Regno Unito, tutti i nostri monasteri benedettini sono registrati come istituzioni no-profit. Come tali devono presentare rapporti annui alla Charity Commission e, se hanno una consociata commerciale, cosa che molti hanno, presso la Companies’ House. La legge inglese distingue fra la proprietà di beni personali e l’amministrazone fiduciaria. Individualmente i monaci non possiedono nulla, ma collettivamente amministrano ed hanno l’amministrazione fiduciaria di proprietà immobili ed altri beni per fini non lucrativi, che comprendono l’avanzamento della religione, l’aiuto ai poveri e l’istruzione. Se si consultasse il sito web della UK Charity Commission e si scaricassero i conti di un’abazia benedettina inglese, non sarebbe inusuale scoprire, specialmente nel caso che l’abazia gestisca una scuola, entrate oltre i 10 milioni di Euro, attività fisse di circa 100 milioni di Euro e un portafoglio di investimenti sui 30-40 milioni. In termini di beni e riserve, alcuni ordini religiosi del Regno Unito sono fra i primi 100 enti no-profit. Una volta qualcuno ha descritto l’Ordine Benedettino come una delle più vecchie e più grandi multinazionali del mondo! I monasteri sono soggetti in ugual modo alla medesima legislazione di qualsiasi altra impresa, sia che si tratti di legge sull’impiego, legge sulla salute e la sicurezza, pubblicità delle informazioni finanziarie, IVA, legge sull’ambiente e pianificazione edilizia. Per dieci anni, dal 1987 al 1997, sono stato tesoriere del mio monastero. In questo periodo, ogni anno, almeno tre leggi importanti, alcune nuove, alcune aggiornate, entravano in vigore in prevalenza riguardanti l’armonizzazione con le leggi europee; era necessario conformarsi a tutte queste leggi.

Perciò, in oltre quindici secoli, i monaci benedettini hanno fatto molta strada. Continuando a mantenere, speriamo, i principi e valori di base del nostro fondatore San Benedetto, uno dei primi sostenitori dell’idea di Europa, abbiamo dovuto adattarci alle esigenze della società ed alla sua cultura. Allostesso tempo spero che possiamo servire come testimoni di un insieme di valori diversi da quelli del mondo. La Regola di San Benedetto (c. 540), che risale alla metà del sesto secolo, trae la sua ispirazione dalle regole monastiche precedenti e da altri testi scritti, in particolare i Salmi, il Vangelo, gli Atti degli Apostoli e le Epistole. La RB viene chiamata ‘regola’ - ma in realtà - il latino ‘regula’ significa modo di vivere. Un monaco è un individuo che non solo segue Cristo ma ne è infatuato. Nella letteratura monastica, compresa la RB, la vita monastica viene spesso paragonata alla salita lungo una scala spirituale perchè indica una via lungo la quale un individuo può compiere il proprio viaggio verso Dio. Finché è umanamente possibile,un monaco si impegna verso la perfezione morale ed è per lui importante la progressione in virtù, specialmente nell’umiltà, l’obbedienza, la carità e la capacità di giudizio (prudenza). La vita monastica è una forma di ‘etica della virtù.

I monaci ed i monasteri, sebbene distaccati dal mondo, devono sostenersi economicamente. Questo è uno dei motivi principali per cui i monaci devono lavorare. San Benedetto (c.480-c.550) voleva che i monasteri fossero economicamente auto-sufficienti, cioè che per quanto possibile tutto venisse fatto all’interno del monastero. Noi viviamo una vita in comune – rinunciamo ai diritti alla proprietà personale, preghiamo e lavoriamo in comunità. Ma Benedetto era realistico e capiva che neanche i monaci potevano vivere un’esistenza completamente isolata. Si rendeva conto, insomma, che doveva provvedere non solo all’organizzazione interna del monastero ma anche ai suoi rapporti con l’esterno. Ad esempio, parlando degli artigiani del monastero, ci ricorda che,

Se si deve vendere qualche prodotto, coloro che sono stati incaricati di trattare l'affare si guardino bene da qualsiasi disonestà. Nei prezzi dei prodotti non deve mai insinuarsi l'avarizia, ma bisogna sempre venderli un po' più a buon mercato dei secolari "affinché in ogni cosa sia glorificato Dio". (I Pietro 4,11).

Per quanto riguarda l’interno dell’abazia, la comunità e la sua struttura sono importanti: la comunità viene diretta e governata da un Abate, eletto dai monaci, e il modo in cui si prendono le decisioni importanti costituisce un esempio interessante dell’uso della procedura democratica. L’Abate occupa il posto di Cristo nel monastero, è padre della comunità ed esercita l’autorità spirituale e temporale; tutti conoscono quale è il loro posto perchè è determinato dalla data di ingresso nella comunità e tutti sono uguali davanti a Dio. La provenienza sociale, i titoli di studio, l’esperienza professionale e l’età non hanno importanza. Per alcuni tutto ciò costituì uno shock culturale, specialmente per chi non era abituato al lavoro manuale o chi si trovava a raccogliere i prodotti accanto ad un ex-schiavo.

Benedetto dà rilievo alle qualità dell’Abate ed alla procedura di elezione ma non fa riferimento ai suoi titoli accademici o alle sue competenze professionali e neppure l’età costituisce una barriera. Il punto focale è sicuramente la santità e la capacità dell’Abate di dirigere e gestire coloro che si trovano sotto la sua cura: egli è il ministro, il pastore. Nonostante sia antica, la Regola di San Benedetto testimonia la considerazione di un discernimento profondo nella psicologia gestionale delle persone,

Perciò si conformi e si adatti a tutti, secondo la rispettiva indole e intelligenza, in modo che, invece di aver a lamentare perdite nel gregge affidato alle sue cure, possa rallegrarsi per l'incremento del numero dei buoni. Soprattutto si guardi dal perdere di vista o sottovalutare la salvezza delle anime, di cui è responsabile, per preoccuparsi eccessivamente delle realtà terrene, transitorie e caduche.

Questo mi ricorda un cambiamento che sta avvenendo nei criteri di assunzione e sviluppo dei dirigenti. In passato si sottolineava l’importanza dell’esperienza intellettuale e professionale del candidato, la performance era misurata in termini di risultati, di quello che il candidato aveva raggiunto. Ora, invece, sembra che si dia maggiore enfasi a quella che viene chiamata ‘intelligenza emotiva’ e ‘spirituale’, o ‘soft skills.’

Benedetto raggruppa diverse attività sotto il titolo generico di lavoro:

1. L’opera di Dio - Opus Dei – la preghiera di gruppo

2. Il lavoro manuale - labor – sostenere i bisogni fisici

3. Le arti e i mestieri – artes – l’uso del talento e delle proprie capacità

4. Il lavoro intellettuale e lo studio – opus, opera

5. La lettura sacra - lectio divina - la lettura lenta meditativa

6. Le opere buone – bonum – l’amore del vicino

7. Il lavoro interiore - conversatio (or conversio) morum – il ritorno a Dio

Di conseguenza, per quanto possibile, ai bisogni quotidiani del monastero provvedono i monaci del monastero stesso. I beni ed i prodotti, ottenuti dalle attività interne, possono essere venduti, per finanziare l’acquisto di articoli essenziali che non sono prodotti ‘in casa’. Il reddito derivante dalle sue varie attività (ad esempio l’affitto degli spazi chiusi, l’educazione, l’artigianato) può essere usato per finanziare progetti edili, acquisto di terreni, progetti di ampliamento, opere di beneficenza. Come probabilmente sanno molti di voi, una delle massime dell’Ordine di San Benedetto è ‘ora et labora’ – ‘prega e lavora’. Per Benedetto la preghiera ed il lavoro costituiscono un unicum. Ma il lavoro non è fine a sé stesso, è piuttosto un modo per raggiungere un fine che consiste nel possedere Dio, la vita eterna. Mi replicherete subito, giustamente, ‘non è questo l’obiettivo di tutti i cristiani – essere con Dio nell’eternità?’ Avete perfettamente ragione. Ma i monaci sono motivati da un desiderio di cercare Dio in un modo speciale, cioé in una comunità monastica, in un ambiente stabile ed appartato sotto la direzione di un Abate.

Attraverso l’ispirazione della grazia, i monaci erano trasformati da questi vari tipi di lavoro per diventare come Cristo. Non solo venivano trasformati dal lavoro e dalla preghiera, ma attraverso i secoli, usando il loro ingegno, la loro creatività e le loro competenze di amministratori, trasformarono il lavoro manuale ed intellettuale attraverso l’introduzione di strumenti, efficienza e processi innovativi. Inoltre, esiste un ritmo ed un equilibrio fra queste varie attività: in termini di tempo e di priorità. Benedetto dà prominenza all’opus Dei o l’opera di Dio, la preghiera della comunità aziendale, affermando che ‘non venga anteposto nulla all'opera di Dio. Le prima sei attività, (l’opus Dei, il lavoro manuale, l’artigianato, lo studio e la lettura sacra, le opere buone) sono subordinate a quell’attività finale di lavoro interiore o quello che viene chiamato da Benedetto conversatio morum ovvero la conversione della vita. Ciò che in greco si chiama la spiritualità: metánoia, cioè un orientamento completo di sé stessi verso Dio.

Tuttavia anche in una abazia le cose potevano andare male. C’è un esempio interessante a proposito, accaduto nel monastero Cistercense di Rievaulx, nel Yorkshire, Inghilterra, durante il tredicesimo secolo. Il monastero aveva costruito nuovi edifici ed aveva acquistato terreni stipulando mutui basati sul reddito futuro. Aquel tempo era molto diffusa la speculazione sulla lana, uno dei prodotti principali dell’economia cistercense. I monaci avevano cercato di garantirsi un reddito per gli anni a venire (forse si tratta di un primo esempio di un ‘mercato dei futures?’). Tuttavia, un’epidemia di scabbia ovina nel 1280 provocò una diminuzione massiccia della produzione ciò causò la loro incapacità di far fronte agli impegni finanziari contratti con i clienti fiorentini. Credo che questo sia un buon esempio di come i monaci, anche nel Medioevo, fossero soggetti alle forze del mercato, alle negoziazioni, ai contratti, alla ricerca di fonti di finanziamento per poter seguire gli obiettivi spirituali ed economici. Dovevano formulare, sviluppare o affinare le regole per negoziare con gli agenti esterni.

Nel capitolo della Regola sul lavoro manuale Benedetto prevedeva non solo le ore di lavoro ma anche quella che chiama la lettura sacra o lectio divina. Questo non era un caso: voleva di proposito assicurarsi che vi fosse un equilibrio e, più importante, che le vite spirituali dei monaci venissero nutrite dalla lettura regolare dei testi sacri. Parte dell’ideale monastico ha le sue fondamenta nell’interpretazione classica del contrasto otium e negotium, fra tempo libero e tempo dedicato al lavoro e agli affari. Ma Benedetto lascia poco tempo per il rilassamento individuale: ozio e ignavia sono i nemici dell’anima.

Ho parlato prima di crescita in virtù, specialmente in umiltà, obbedienza, carità e capacità di giudizio (prudenza). Il modello per queste virtù era direttamente la vita, i fatti e le parole di Cristo. Benedetto chiama il monastero una ‘scuola al servizio del Signore’. Per Benedetto, l’amore del vicino si manifestava non solo nel rapporto fra monaci, ma anche nel rapporto con gli ospiti, i pellegrini, i poveri, i malati e i moribondi. I monaci sono stati i primi a fornire i ‘servizi sociali’ sotto forma di ospizi, ostelli, mense per i poveri, scuole e dispensari medici. Tutti venivano accolti come se fossero Cristo. Come tutti voi saprete, è molto difficile crescere in virtù stando isolati dagli altri; le virtù vanno imparate ed esercitate in qualche forma di ambiente comunitario: prima in famiglia, poi a scuola, all’istituto di studi superiori o all’università, poi sul posto di lavoro. Esiste un detto famoso, del fondatore del Monachesimo orientale, Basilio di Caesarea (c. 330-379) ‘a chi laverai i piedi?’ Ecco perché i principali fondatori cristiani del monachesimo, come Benedetto, Basilio ed Agostino, diffidarono dei monaci che volevano vivere come eremiti o in isolamento totale. Per riuscire a fare ciò, bisognava avere grande santità ed auto-disciplina, perchè ciò è il risultato di tanti anni di formazione all’interno di una comunità. Le virtù umane si potevano imparare, ma l’istruzione e la formazione arrivavano solo fino ad un certo punto: la perfezione vera si raggiungeva soltanto attraverso la cooperazione del monaco con la grazia. Da ciò l’importanza delle virtù teologiche, della fede, della speranza e dell’amore (caritas).

Qui concludo e riassumo la prima parte del mio discorso. Quello che sta emergendo nella RB è una forma di governo d’impresa. Uno dei primi conosciuti.

Stiamo trattando, infatti, di:

• una comunità, diretta da un Abate eletto dalla comunità, assistito da vari consiglieri ed ufficiali delegati; l’Abate è quello che offre una leadership forte, è un padre per tutti;

• una comunità che possiede una struttura e una stabilità dove l’individuo conosce quale e com’è il suo ruolo;

• un contesto nel quale le persone possono crescere e prosperare spiritualmente e psicologicamente;

• un processo decisionale partecipativo attraverso l’ascolto e l’obbedienza verso l’Abate e l’uno verso l‘altro;

• un luogo dove i membri hanno un obiettivo comune e dove lavorano per il bene comune;

• un coinvolgimento nella società oltre il monastero, cioé con gli ospiti, i pellegrini, i malati, i poveri ed i bambini;

• una realtà economicamente sostenibile ed auto-sufficiente;

• una partecipazione a diverse forme di lavoro e preghiera che sono integrati ed equilibrati;

• una partecipazione di ogni membro della comunità agli stessi valori ed obiettivi;

• un impegno al cambiamento, con crescita in virtù e conversione.

 

Gli affari come vocazione

Adesso vorrei esplorare l’idea degli affari come vocazione. La parola vocazione naturalmente deriva dal Latino vocare, chiamare. Fino a venti o trenta anni fa, sicuramente fino ai tempi del Concilio Vaticano Secondo negli anni ‘60, il termine ‘vocazione’ era riservato al prete, ai religiosi e forse chi con la propria professione si occupava di salute ed altri, agli avvocati ed ai contabili. Inoltre esisteva un tipo di gerarchia che datava ai primi anni del Cristianesimo quando lo stato monastico, ecclesiastico e religioso erano considerati la ‘vocazione per eccellenza.’ Per quanto possibile, la vita monastica fu organizzata in modo da dare al monaco il tempo per la preghiera personale ed anche per la preghiera in comune.

I monaci tendevano a godere lo status di élite. Prima dell’istituzione delle università come Bologna, Parigi ed Oxford nel dodicesimo e tredicesimo secolo, per chi non era un chierico, l’istruzione rimaneva una porta chiusa. A mano a mano che l’accesso all’università aumentava, il laicato assumeva più responsabilità e possedeva più proprietà. La gente cominciava a pensare a sé stessa, non voleva necessariamente rifiutare l’insegnamento della Chiesa ma voleva almeno capire su cosa si basavano quegli insegnamenti, in particolare rispetto alla moralità e la teoria etica. Piano piano la ragione rimpiazzò la fede e la Rivelazione: non bastava più semplicemente credere. Da allora in poi, gli insegnanti monastici, specialmente quelli benedettini, iniziarono a perdere la loro influenza. Ma il loro lascito non morì. E’ riconosciuto ancora oggi che il modello benedettino di lavoro e preghiera, la sua struttura collegiale, il modo in cui si prendevano le decisioni importanti, ha avuto un’influenza duratura sullo sviluppo dell’azienda moderna e del governo d’impresa.

Fortunatamente, ora si parla di “vocazione” di tutti i battezzati, chiunque siano, qualunque cosa facciano. Forse dovremmo ringraziare i teologi della Riforma Protestante, per questo, specialmente Martin Lutero (1483-1546). Ma indipendentemente da chi vogliamo ringraziare, non esiste dubbio che la dottrina di tutti i cristiani che hanno una vocazione faccia parte dell’insegnamento centrale della Chiesa Cattolica. Un membro della mia comunità, sapendo del mio interesse per questo argomento, mi ha regalato un libricino che aveva trovato in una libreria di secondo mano, scritto da un autore spagnolo, José Luis Illanes, sulla Teologia del Lavoro. L’autore ha tratto molta ispirazione dal Concilio Vaticano Secondo e anche dagli scritti del fondatore dell’Opus Dei, Mons. Escriva de Balaguer. Parlando della vocazione agli affari e alle professioni, l’autore afferma:

I comuni cristiani, i laici, devono rimanere nel mondo e dovrebbero essere del mondo, ma nello stesso tempo dovrebbero sentirsi eletti da Dio, chiamati alla comunità dei santi.

La nostra vocazione umana e la nostra vocazione divina sono collegate. Costituiscono un’unità di vita nello stesso modo in cui Benedetto collega il lavoro e la preghiera. Nelle facoltà accademiche, comprese le business school, aumenta l’interesse sui temi legati all’etica con riguardo al luogo di lavoro.

Tuttavia, è più facile a dirsi che a farsi conciliare il linguaggio e la razionalità degli affari con la comprensione cristiana della vocazione. A volte è come parlare due linguaggi diversi: uno è quello teologico e spirituale, linguaggio dell’invisibile, e l’altro è quello economico ed empirico, linguaggio di quello che si può vedere e misurare. Perfino quando si accetta che il business significhi di più del semplice guadagno, e che le energie del business siano dirette ad una rete più larga di stakeholders e al bene comune, è difficile evitare il fatto che gli affari sono guidati dalle forze del mercato. E’ vero, gli affari sono guidati dal ‘valore’ ma quali sono questi valori? Nella vita reale, come saprete, il valore tende ad essere ridotto al valore o guadagno dell’azionista. La buona prassi e le considerazioni etiche sono accettate ed incluse negli affari giornalieri fintanto che sono necessarie ed efficienti per la generazione dei guadagni. Fino a che punto gli affari sarebbero vincolati se alcuni stakeholders non fossero eticamente sensibili? A volte alcuni stakeholders, come ad esempio la lobby ambientale, proclamano che la presa di posizione etica di molte aziende e multinazionali è ‘cosmetica’, oppure esercizio cinico di pubbliche relazioni.

Nel linguaggio della vocazione e degli affari ci sono anche delle questioni di potere e controllo. Attraverso la nostra vocazione siamo portati dallo Spirito, ci abbandoniamo alla volontà di Dio, siamo passivi. Siamo infusi dalle virtù teologiche della fede, della speranza e dell’amore. Negli affari la tendenza invece è verso il contrario. Vogliamo tenere tutto sotto controllo, essere come si suol dire pro-attivi; non siamo disposti a lasciare nulla al caso. Fino a che punto il potere andrebbe usato per promuovere la concorrenza, per aumentare la quota del mercato? Quando la pubblicità smette di persuadere in modo “dolce” per diventare una forma di manipolazione, specialmente nei confronti di chi è più vulnerabile? Le multinazionali sono spesso criticate per il potere che esercitano sulle economie in via di sviluppo attraverso l’allocazione degli investimenti e delle risorse: prendono di più di quello che danno? Chi servono? Non è facile conciliare il linguaggio della vocazione con quello degli affari. In questa parte finale della presentazione vorrei suggerire di utilizzare la nostra fantasia e di essere creativi nei modi con cui colmiamo le distanze.

Perciò in questa sezione esplorerò quello che si intende quando si dice che gli affari sono una vocazione. Per riassumere:

• vocazione significa il richiamo dell’intera persona in qualunque momento o luogo – questo richiede una risposta ed impegno totale;

• negli ultimi decenni la comprensione ecclesiastica della vocazione ha incominciato ad includere tutti i cristiani–la nostra vocazione, umana e divina, è collegata;

• esiste un contrasto fra il linguaggio della vocazione e degli affari che va capito e conciliato;

• la vocazione può essere intesa in senso laico, non esclusivamente spirituale/religioso.

Lo sviluppo di un contesto etico

Nel 1976 Daniel Bell, un neo-conservatore nord americano, osservò che gli affari erano in profonda crisi morale. La causa di questa crisi non era l’insuccesso economico ma lo sfacelo del quadro di riferimento religioso all’interno del quale l’ethos della vita imprenditoriale era radicato originariamente. Riecheggiando l’avvertimento del sociologo tedesco ottocentesco Max Weber ci ricorda che quando l’asceticismo interiore viene alienato dalle sue radici religiose, si riduce soltanto ad utilitarismo e a materialismo laico. Altri storici sociali come Arnold J. Toynbee hanno riconosciuto il legame fra l’ora et labora dell’ordine benedettino e lo ‘spirito di capitalismo’ di Max Weber.’ Toynbee sottolinea in particolare il fatto che fu l’iniziativa economica del singolo monaco, attraverso l’incanalatura del suo entusiasmo religioso, ad ispirare l’etica del lavoro protestante, puritana e non-conformista.

Questo problema ha stimolato diversi teologi e studiosi di etica a cercare di colmare le distanze fra la teologia, l’etica e gli affari, riconoscendo l’importanza della fede religiosa di ogni individuo. Forse meno in Italia, ma nel Regno Unito la forza lavoro è maggiormente multi-culturale e multi-religiosa, specialmente nelle metropoli e nelle grandi città. Magari dovremmo riesaminare la norma attualmente accettata negli affari secondo la quale le nostre vite private e pubbliche sono separate; forse che la credenza religiosa, ovvero la fede, non dovrebbe influenzare il nostro lavoro?

Vorrei ritornare ancora alla RB. Il nostro approccio benedettino “all’etica della virtù” contrasta con la formazione gestionale moderna e con la teoria economica, con la sua enfasi sulla massimizzazione della crescita, sull’utilità, sull’analisi dei costi e dei benefici, sulla creazione di ricchezza. Bisogna fare una distinzione importante, perché un’etica della virtù si focalizza sulle disposizioni e sul carattere della persona che prende la decisione, sulla persona lavoratrice, piuttosto che sull’attività, su quello che quella persona sta facendo. L’etica della virtù è molto importante nella nostra considerazione dell’evoluzione di un contesto etico: la prospettiva che richiede è che, se si possiedono le virtù giuste come la prudenza, la giustizia, il coraggio e la moderazione, si cercherà sempre di fare la cosa giusta qualunque siano le circostanze. Applicando questo principio al mondo degli affari, specialmente all’attività bancaria, significa che il carattere, l’integrità, l’onestà, l’affidabilità dell’individuo sono molto più importanti della loro competenza tecnica o la loro capacità di raggiungere gli obiettivi economici.

Una parte del progetto dell’Illuminismo del ’700 risiedeva nello stabilire il primato della ragione e della libertà dell’individuo. Molte teorie dell’etica dalle quali dipende tanto il mondo moderno degli affari, quanto l’utilitarismo o la tradizione di derivazione kantiana, hanno le loro origini nell’Illuminismo, sebbene i concetti di utilità, dovere e regole universali non fossero una creazione dei filosofi Illuministi come Jeremy Bentham (1748-1832) ed Immanuel Kant (1724-1804). Ad esempio, possiamo tornare al IV secolo, ad Ambrogio (339-397), il vostro Vescovo di Milano. Una delle sfide della vocazione degli affari è la riconciliazione del ‘fare la cosa giusta’ o il ‘bene’ (bonum) con l’utilità. Ciò è particolarmente verosimile per uno che viene chiamato a lavorare in un modello di business nell’economia di libero mercato libero basato sui principi capitalisti liberali.

Verso la fine del 380, Ambrogio produsse la sua opera più estesa su un tema non biblico: il De officiis, che precede la RB di circa 150 anni. Probabilmente la scrisse a poche centinaia di metri da quest’aula! In questo trattato la sua preoccupazione principale era una riforma dell’individuo e degli aspetti di governo dell’azienda “abazia”. Sebbene fosse diretta al clero, aveva un’applicazione più ampia e riscosse maggior successo. Utilizzando il contesto dell’autore classico pagano, il De officiis di Cicerone, in primo luogo Ambrogio esamina quello che è onorevole (honestum) e buono. Poi discute le quattro virtù cardinali – la prudenza, la giustizia, la forza e la temperanza. Da queste quattro virtù nascono la varie forme di dovere. Nella seconda parte parla di quello che è utile e gran parte di questa sezione è dedicata al denaro: Ambrogio mette in guardia il clero contro i pericoli del denaro, specialmente l’avarizia. La sezione finale cerca di conciliare l’onorevole e il buono con l’utile. Nella sua analisi finale l’onorevole ed il buono risultano avere sempre precedenza. Vorrei far notare che, parlando in modo generico, la questione, la sfida, sedici secoli dopo, non è cambiata: come possiamo conciliare il buono e l’onorevole con il fare maggior utile possibile, guadagnare, massimizzare la crescita, incrementare la quota di mercato?

Deve esserci una visione: usate la fantasia per aprire dei modi di sfidare lo ‘status quo’ ed offrire la possibilità di alternative realistiche; utilizzate stili di narrazione, racconti e metafore diversi, come la RB. Accedete anche alla ricerca e alle idee innovative di altre organizzazioni. Ad esemipo, nel 2002, la UK Financial Services Authority produsse un documento di base per un dibattito su ‘Un contesto etico per i servizi finanziari.’ La tesi principale del documento era che i tipi di valore mostrati da un’impresa influiscono sulla regolazione dei rapporti che essa intrattiene. Vedrete che questo modello della FSA collega i valori e la cultura di un’azienda al tipo di contesto regolatorio che forma. Ad esempio, in contrasto ad un’impresa condotta secondo i “valori”, un’impresa che considera soltanto gli standard minimi, la conformità meccanica, la cultura della dipendenza e che cerca di delegare le responsabilità, è più probabile che richieda maggiori controlli, monitoraggi, revisioni contabili ed imposizioni. All’altra estremità della scala, un’impresa che è condotta secondo i “valori” interiorizzerà l’ethos dei valori centrali, si concentrerà maggiormente sullo spirito della legge piuttosto che sulla lettera. Ogni membro dell’impresa è disposto ad assumere la responsabilità delle sue azioni. La ‘cultura del colpevole’ così diffusa fra tante organizzazioni eccessivamente burocratiche diventa una cultura di rapporti forti e una volontà di ascoltare ed imparare dagli altri.

Non sono sicuro di questo ma le idee dietro questa tesi sembrano derivare dal pensiero dello psicologo dell’età evolutiva Lawrence Kohlberg, professore a Harvard. Egli era convinto che il nostro senso di integrità evolvesse passo a passo attraverso la discussione morale in un ambiente comunitario, a scuola, come nell’istituto di istruzione superiore o nel luogo di lavoro. Coniando una frase dalla RB, forse sta suggerendo che l’impresa diventa una scuola di etica o quello che viene chiamata da Benedetto una ‘scuola al servizio del Signore?’

Ora vorrei cercare di tirare le somme. Se prendiamo alcune delle idee di cui abbiamo parlato in precedenza e, utilizzando la nostra fantasia e creatività, le colleghiamo a questo tipo di modello (FSA), possiamo vedere come potrebbero essere utili nello stabilire, adattare o ri-energizzare un contesto etico. Ad esempio, eccone alcune, ma naturalmente potrebbero essercene altre:

• Il concetto di una comunità di lavoro stabile e di sostegno dove l’individuo, a prescindere dalla sua fede o credenza religiosa, può essere sé stesso, sentirsi al sicuro, depositario di fiducia e stare meglio;

• una comunità dove la direzione è forte ed efficace, competente, con visione ed integrità mentre allo stesso tempo è sensibile ai bisogni spirituali, emotivi e psicologici dei dipendenti ed altri stakeholders;

• dove gli individui possono essere incoraggiati a migliorare senza sentirsi minacciati da altri, dove gli errori vengono tollerati come una parte integrale del processo di apprendimento, dove la nostra vocazione può essere nutrita da quello che facciamo;

• un’impresa dove tutte le persone, a prescindere dalla posizione che occupano nell’organizzazione, vengono ascoltate e sono in grado di partecipare alle decisioni politiche importanti, anche soltanto a scopo consultivo;

• un luogo di lavoro dove ogni dipendente possa sottoscrivere onestamente ai valori, fini ed obiettivi dell’impresa;

• un’organizzazione che possiede una cultura di servizio che cerca di bilanciare la sua responsabilità verso tutti gli stakeholders senza compromettere la redditività, lastabilità e l’autosufficienza a lungo termine;

• un’organizzazione che fornisce e sostiene lo sviluppo etico crescente e la consapevolezza

Pertanto, in conclusione, credo che la RB abbia qualcosa di importante da dire all’impresa nella nuova economia e spero di averlo sottolineato sufficientemente nella mia presentazione. In secondo luogo credo che il richiamo degli affari sia valido quanto qualunque altra vocazione e che l’individuo debba potersi sviluppare spiritualmente nel suo posto di lavoro. Infine, credo che non dovremmo essere così pronti ad accettare lo status quo soprattutto quando la nostra formazione ci dice che le cose non vanno bene, che ingiustizie vengono perpetrate. A volte dobbiamo uscire dalla nostra nicchia di comodità, rischiare al limite. Vogliamo essere certi che nella nostra vocazione agli affari siamo sostenuti e rinforzati dalla nostra fede.


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21 giugno 2014                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net