Regola di S. Benedetto

Cap. - LXXIII - La modesta portata di questa regola

8 Chiunque tu sia, dunque, che con sollecitudine e ardore ti dirigi verso la patria celeste, metti in pratica con l'aiuto di Cristo questa modestissima Regola, abbozzata come una semplice introduzione, 9 e con la grazia di Dio giungerai finalmente a quelle più alte cime di scienza e di virtù, di cui abbiamo parlato sopra.


Tratto da"Regulae Benedicti Studia - Annuarium Internationale" - Vol. I
 
Gerstenberg Verlag - Hildesheim

L'antropologia della Regola di San Benedetto
di Bernard Viralode OSB, Pradines (traduzione libera)

L'antropologia di San Benedetto è essenzialmente quella che egli ha attinto dalla Bibbia, Vecchio e Nuovo Testamento.

Suo fondamento è che l'uomo è una creatura di Dio, modellata dalle mani di Dio, dalla sua sapienza e dal suo amore, come dice S. Ireneo, in vista del suo disegno eterno di fare di lui un figlio adottivo per mezzo di Cristo (Ef 1, 1-10).

Questo sguardo di fede è quello che anima S. Benedetto quando accoglie un discepolo per aiutarlo a cercare Dio e che sottintende ogni prescrizione della Regola.

Nella prefazione di un libro di Manaranche, mons. Pierre Hauptmann, ex Rettore dell'Istituto Cattolico di Parigi, lodava nella Gaudium et Spes, "la sua preoccupazione di guardare sempre l'uomo alla luce della Bibbia e del Cristo, di superare in questo modo una terminologia ed un'ottica discutibile (naturale e soprannaturale, temporale, spirituale,...) e di affermare l'unità della vocazione umana". Io credo che questa preoccupazione è anche quella di S. Benedetto.

E' per questo che io ho preso come orientamento della mia riflessione sull'antropologia della Regola di San Benedetto, alcuni dei primi versetti della Genesi.

- E Dio disse: "Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza,..." (Gen 1, 26).

- Il Signore Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo, soffiò nelle sue narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente (Gen 2, 7).

- Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e custodisse (Gen 2, 15).

- Il Signore Dio disse: "Non è bene che l'uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile" (Gen 2, 18).

Questi versetti guidano le tre parti di questa conferenza:

- La struttura ontologica dell'uomo,
       - Il lavoro,
       - La dimensione sociale dell'uomo.

 

La struttura ontologica dell'uomo.

E Dio disse: "Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza,..."

Parola solenne e nuova, diversa da quelle che riguardano l'universo materiale. Essa annuncia la creazione di un essere privilegiato tra tutti, ma non estraneo al mondo nel quale appare. Egli ne è partecipe, impastato dall'argilla del suolo, sottomesso alle leggi fisiche che reggono l'universo, immerso nello spazio e nel tempo tramite il suo corpo. Ma l'alito di vita che Dio gli soffiò lo rende anima vivente, che trascende il mondo.

Fatto a immagine di Dio, l'uomo è capace di conoscenza, di libertà, di amore, aperto ad un superamento di sé che sempre lo sollecita, adatto a dominare il mondo, ad entrare in relazione con altri spiriti e soprattutto con Dio, verso il quale tutto il suo essere è teso da un'aspirazione innata.

Poiché è stato creato ad immagine di Dio, l'uomo è una persona il cui centro è il cuore, nel senso biblico del termine. L'uomo, secondo Manaranche è "una libertà, chiamata ad una vocazione divina". Egli è in divenire, sottomesso ad un progresso, ad una crescita e richiede una formazione che permetterà all'immagine di concretizzarsi in somiglianza. "L'uomo è un progetto vivente di Dio" diceva Paul Evdokimov. Il fatto di essere creato secondo la razza divina si apre sul compito da portare a compimento: diventare effettivamente santo. L'immagine, fondamento oggettivo, attraverso la sua struttura dinamica, richiama la somiglianza oggettiva, personale. L'origine "essere stato creato ad immagine", conduce verso il fine "esistere ad immagine".

S. Benedetto accetta questo compito, senza dimenticare la complessità umana; l'aspirazione a superare se stessi per raggiungere colui che attira, ma anche i limiti, la pesantezza naturale che il peccato ha ancor più appesantito. "Poiché ci hai fatti di terra, Signore, non stupirti di trovarci "terrosi" diceva Péguy. Anche S. Benedetto non se ne stupisce.

Egli accoglie tutti quelli che vengono a lui, chiunque siano, con quella fiducia che gli viene dal credere l'uomo buono per natura. "(Tu, o Signore) se avessi odiato qualcosa, non l'avresti neppure creata" (Sap 11, 24).

Questa identità di natura conferisce a tutti gli uomini un'uguaglianza sostanziale. Nel monastero non si fa accezione di persona. S. Benedetto riceve il goto o la schiavo o il figlio del patrizio, e tratta l'uno e l'altro con la stessa bontà, tuttavia senza confonderlo in una massa anonima.

Nessuno più di lui ha il senso delle differenze di origine, di condizione sociale, di età, di temperamento, ed ha la preoccupazione di adattarvisi in tutti i sensi; per quanto riguarda il nutrimento, le bevande, il lavoro, la correzione degli errori e la formazione spirituale.

Egli conosce le resistenze opposte dalla natura ad un lavoro che supera le forze e che giustifica, in qualche modo, le tentazioni di fuga o di mormorazione che provoca. Dimostra anche una tolleranza, che potrebbe sembrare debolezza, di fronte a rifiuti o esigenze ben basse. Egli concede, per esempio, l'uso del vino ai monaci del suo tempo poiché non riesce a persuaderli di astenersene.

S. Benedetto non è né un volontarista che pensa che con un po' di coraggio si potrebbe vincere la difficoltà, né un idealista convinto che un po' di amore di Dio basterebbe per farsene ragione. Egli si accontenta allora di ricordare la legge umana e cristiana: "che almeno non arrivino all'ebbrezza o alla sazietà".

D'altronde le solide fondamenta che S. Benedetto porrà prima di ogni formazione monastica consistono nella formazione dell'uomo. A tutti i discepoli egli chiede innanzitutto l'osservanza del decalogo, la pratica delle virtù di onestà, di temperanza, di sincerità, di lealtà, ed anche le umili virtù di pulizia , di cura, di ordine e di precisione. Egli riprova la negligenza, il lasciar correre, l'incuria, la dimenticanza delle proprie responsabilità, per quanto piccole possano essere.

Sul piano della formazione spirituale, quale è il primo grado dell'umiltà, se non addirittura la base, necessaria per ogni uomo, sulla quale devono stabilirsi i suoi rapporti con Dio?

Imparare a riconoscere ciò che la creatura gli deve, la necessità ontologica di obbedire alla sua legge, il giudizio che normalmente ne consegue. In questo sforzo per evitare il peccato, l'uomo imparerà a conoscersi, a conoscere Dio, a temerlo nel senso biblico del termine. E' questa la conclusione del libro del Qoèlet: "Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo per l'uomo è tutto. Infatti, Dio citerà in giudizio ogni azione, tutto ciò che è occulto, bene o male." (Qo 12, 13).

Su questo fondamento, senza il quale l'edificio sarebbe ben fragile, S. Benedetto intraprende la formazione del monaco che si farà, anch'essa, nelle condizioni umane; in una scuola dove troverà un maestro e numerosi discepoli, più ancora in una casa dove troverà un padre e dei fratelli.

Il monastero è una casa umana, costruita su un angolo di terra. Succede che i postulanti, aspettandosi di entrare in un mondo sconosciuto, si stupiscono di trovarvi una vita ordinaria e normale. Ci manca poco che non ne siano stupiti.

Casa umana che contiene ciò che è utile alla vita di tutti i giorni: dormitori, refettorio, laboratori, giardini, circondata da campi, dove i fratelli possono essere chiamati alla mietitura. Il livello di vita, per quanto riguarda il nutrimento ed il vestiario, è quello degli abitanti del paese con i quali, all'occasione, si divide l'abbondanza o la carenza.

Questa localizzazione risponde ad una tendenza umana, portandogli il beneficio di un "essere a casa propria". Paolo VI, nella recente esortazione apostolica "Evangelica testificatio", sottolinea "l'importanza di un ambiente di vita che abitualmente orienti tutto l'essere, così complesso e diviso, verso la chiamate di Dio e che porti ad una integrazione spirituale di tutte le sue tendenze".

Se la localizzazione da soddisfazione ad un bisogno umano, l'uomo tuttavia ne patisce l'insufficienza. Il suo spirito lo porta ad evadere i limiti che racchiudono il suo corpo e ad espandersi in un libero spazio.

L'uomo del nostro tempo prova fortemente questa nostalgia. Gli spazi interplanetari lo affascinano, i mezzi audiovisivi compensano l'impossibilità di compiere di persona i grandi viaggi, la velocità sempre maggiore è inebriante, poiché annulla le distanze.

A modo loro gli anacoreti e, all'estremo, gli stiliti e i reclusi da una parte, i monaci pellegrini dall'altra, hanno provato, ciascuno a modo proprio, la fuga dalla tirannia dei luoghi. Gli uni riducendoli, gli altri percorrendoli senza sosta.

S. Benedetto capisce, come San Gregorio di Nissa, che la ricerca di Dio richiede contemporaneamente un attaccamento ed uno spazio infinito. Per questo cerca di unire le due esigenze. La stabilità cancella alcuni ostacoli. Istruito dalla vita sregolata dei girovaghi, S. Benedetto dissuade il suo discepolo dal cercare Dio su dei cammini terrestri. Gli impone, come prima condizione, di fissare una dimora. Ma gli apre un'altra strada sulla quale dovrà sempre camminare senza stancarsi, anzi dovrà correre ed affrettarsi finché avrà la luce della vita, per giungere a quella dimora celeste verso cui Dio lo chiama.

D'altronde il monastero ne è già l'immagine e l'anticipazione. Dio vi abita, tutto gli appartiene e tutto ciò che vi è contenuto è sacro. Qui Dio deve essere glorificato tramite l'Opus Dei, ma anche grazie alla più piccola e comune azione quotidiana. Nel monastero devono fin d'ora regnare la carità e la pace, appannaggio della città di Dio

La seconda coordinata che talvolta limita dolorosamente l'esistenza umana è il tempo. La vita nel monastero insegna ad esserne sottomessi ed a trascenderlo.

E' facile constatare nella Regola di San Benedetto la sottomissione al tempo, alla successione delle ore, al ritmo dei giorni e delle notti, delle stagioni e degli anni. Il ciclo liturgico lo supera, senza contraddirlo, poiché la resurrezione del Cristo, che ne è il centro, fa da cerniera all'inverno ed all'estate.

L'orario monastico dipende da questo doppio svolgimento, da cui trae la sua armonia ed anche il suo adattamento ai bisogni fisici dell'uomo.

Questo modo di procedere di S. Benedetto non è originale. Le altre regole monastiche, in particolare la Regola del Maestro, sono anch'esse beneficiarie su questo punto del modo di misurare il tempo in quella felice epoca in cui la vita dell'uomo non era regolata da un tempo misurato artificialmente. Sarebbe però vano al giorno d'oggi tentare di seguire lo stesso sistema. Al contrario occorrerebbe forse cercare di adattare l'orario monastico al ritmo della vita dell'uomo moderno.

La preoccupazione di esattezza di S. Benedetto è evidente. Costantemente ripete a coloro che ne hanno l'incarico che nel monastero tutto si compia "alle ore dovute (horis competentibus)". E' così importante questo aspetto, che l'Abate ha la responsabilità di suonare l'Opus Dei sia di notte che di giorno, o di scegliere un fratello così coscienzioso a cui possa delegare questo incarico.

Quanto ai monaci, viene loro richiesta un'immediata risposta al segnale. I motivi di questa esigenza? Evidentemente è l'amore dell'ordine su tutti i piani e il suo orrore per l'anarchia.

E' anche l'amore della pace. Se il cellerario deve dare ciò che deve dare alle ore stabilite, è perché "nessuno, soprattutto i più deboli, deve essere contristato nella casa di Dio". Mi sembra che ci sia ancor di più. Per il monaco si tratta di presentarsi ad un appuntamento con Dio. E' evidente per l'Opus Dei, alla quale "niente deve essere preferito". E'anche ciò che giustifica l'obbedienza senza esitazione, che fa coincidere la volontà di Dio e la risposta del monaco in un unico istante. Questo istante è il momento presente, la più piccola frazione del tempo umano, l'unico tempo che permette l'incontro con Dio, l'eterno presente.

S. Benedetto ci ripete che dal cielo lo sguardo di Dio è costantemente rivolto a noi. Ogni istante della nostra vita ci permette di incontrarlo e di trascendere la nostra fuggitiva durata.

C'è un altro aspetto dello scorrere del tempo su cui vorrei soffermarmi; è la successione delle età della vita umana. Nel monastero vi sono uomini in età matura e nel pieno delle loro forze, vi sono ragazzi ed anziani. S. Benedetto adatta loro il regime del pasto, del sonno, del lavoro e, per i ragazzi, quello della disciplina e della correzione degli errori.

S. Benedetto, fine psicologo, ha ben presente l'influenza dell'età su tutta la psiche dell'uomo. Conosce la turbolenza dei giovani e la facilità con cui prendono tutto come un gioco, ma anche la loro semplicità, non ancora ingombra dalle complicazioni degli adulti, e quindi più trasparente allo Spirito. Sa che gli anziani, a causa della loro debolezza, sono più esigenti, ma egli conosce la loro saggezza e la loro bontà di fondo. La coesistenza delle diverse età nel monastero ne fa un ambiente normale, che porta del bene a tutti.

Inserimento del monaco in un monastero. Inserimento del monastero nella terra degli uomini, sia geograficamente che socialmente.

Attraverso la Regola, è facile intravedere, attorno a Montacassino, un mondo in vita e colorato. Le persone del paese vengono a cercarvi aiuto e soccorso, i poveri si annunciano da lontano con le loro grida di richiamo, gli ospiti non mancano mai. Agli Abati ed ai monaci del vicinato, S. Benedetto riconosce un diritto di controllo ed una certa responsabilità nel caso, per esempio, in cui un complotto rischierebbe di fare eleggere un Abate indegno. I Dialoghi di San Gregorio Magno ci permettono di evocare, mentre passano sotto le mura del monastero, i Barbari che scorazzano per l'Italia.

Non è che il monastero sia aperto ad ogni vento, e che i monaci non conoscano la separazione dal mondo. S. Benedetto ha profondamente lo spirito di separazione e veglia su questa separazione inerente lo stato monastico. Egli prende minuziose precauzioni per assicurare la solitudine ed il raccoglimento dei monaci, in particolare per le uscite dal monastero e per l'accoglienza degli ospiti. Esse sono sempre valide.

Vi sono delle mura e dei portinai da S. Benedetto, come nel Maestro. Ma che differenza d'accento!

Il portinaio della Regola del Maestro sembra soprattutto incaricato di chiudere a chiave le porte e di sorvegliare le uscite, "affinché i fratelli chiusi là dentro col Signore siano già, in qualche modo, nei cieli e separati dal mondo per Dio.

Da S. Benedetto il portinaio sembra sempre in attesa di colui che può presentarsi, soprattutto se è un povero, per rispondere non appena sente il suo grido, con tutta la mansuetudine e lo slancio del timore di Dio ed il fervore della carità.

No, il monastero benedettino non è un ghetto, per utilizzare un'espressione di T. Merton, né un paradiso. L'essere stabilito nella terra degli uomini gli da il suo aspetto concreto, la sua forma di vita, ed anche il suo posto, ed in una certa misura la sua parte nell'azione apostolica della Chiesa.

Diversa è la fisionomia di un monastero situato nelle vicinanze di una grande città o in aperta campagna. La questione è d'attualità in questo periodo di monasteri in ambiente urbano, ciò che ha modificato considerevolmente la forma di vita monastica.

Questo problema si pone più generalmente ogni volta che si tratta di una fondazione soprattutto in terra lontana e con una differente civiltà. Ma ,senza dover andar troppo lontani, si pone ad ogni monastero antico, affinché, soprattutto nella nostra epoca di rapidi mutamenti, il monachesimo non appaia estraneo agli uomini del nostro tempo, senza perdere ciò che fa la sua specificità. Si tratta dunque di definire bene questo aspetto.

Il lavoro.

" Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e custodisse".

La natura fa dell'uomo il collaboratore di Dio, il lavoro è intimamente legato alla sua condizione.

Il libro della Sapienza lo dice in modo magnifico: "Dio dei padri e Signore di misericordia, che tutto hai creato con la tua parola, che con la tua sapienza hai formato l'uomo, perché domini sulle creature fatte da te, e governi il mondo con santità e giustizia" (Sap 9, 2-3).

La Gaudium et Spes ricordando questo testo aggiunge: "Riconoscendo Dio come il creatore di tutte le cose, la natura umana gli riferisce il suo essere così come l'universo, in modo che, essendo tutto sottomesso all'uomo, il nome stesso di Dio sia glorificato su tutta la terra" (GS 34).

Il peccato dell'uomo ha reso il lavoro faticoso, ma non gli ha tolto la sua dignità ed il suo valore. Questa dottrina ha preservato Israele dal disprezzo del lavoro, ne ha tenuto lontani i monaci, nonostante la concezione della civiltà greco-latina dove la maggior parte di loro ha vissuto.

S. Benedetto non espone di nuovo questa concezione, ma essa è di sottofondo a tutte le prescrizioni così equilibrate e sempre valide che egli da a questo riguardo.

Il primo buon risultato del lavoro è il suo profitto spirituale. I padri del deserto gli attribuiscono una grande importanza: "Il lavoro è necessario per prevenire le divagazioni del pensiero, aiutare nella custodia della cella, allontanare gli assalti delle passioni, vincere l'accidia" (Ist. X, 24). "I monaci gettano il peso del loro lavoro come se fosse un'ancora ben salda ed immobile nei confronti dei movimenti impuri del cuore e del flusso incessante dei pensieri" (Ist. II, 14).

S. Benedetto lo riassume con la sentenza biblica: "L'ozio è nemico dell'anima", poiché, da una parte la lascia aperta alle tentazioni del demonio, e dall'altra è esso stesso un detrimento per l'uomo che non sfrutta i talenti che devono servire a Dio e agli uomini, per quanto piccoli che siano.

Così, S. Benedetto raccomanda di assegnare ad ognuno un lavoro commisurato alle sue forze e possibilità.

Ma per i Padri del deserto, il lavoro per sé stesso non era considerato un valore e, salvo il piccolo fabbisogno strettamente necessario per il nutrimento, il suo prodotto era reputato di nessun interesse. Se il lavoro era ininterrotto, di accompagnamento alla salmodia o alla meditazione, sia nella cella che durante la preghiera comune, è soltanto perché aveva il compito di favorire la preghiera ininterrotta.

Soltanto il legislatore del cenobitismo gli riconobbe il suo valore umano.

San Basilio chiarisce così: "Il lavoro è nell'ordine di Dio, esso permette la sussistenza dei fratelli e l'aiuto a quelli che sono nella necessità" (GR 37). Egli cerca i mestieri compatibili con la professione di monaco e fornisce dei consigli sulla loro scelta tuttora validi (GR 38-40).

Nella Regola di San Benedetto tutto questo insegnamento è implicito. Nel monastero ci saranno quindi dei giardini e dei laboratori il cui elenco non è fissato una volta per tutte. Con la sua abituale fiducia, S. Benedetto concede a coloro che hanno un talento il permesso di metterlo in atto, aprendo così la strada a nuovi tipi di artigianato. Nel passato ed ancora oggi i monaci benedettini non hanno fatto cadere nel vuoto questa accondiscendente disposizione.

Tuttavia S. Benedetto non ha previsto la possibilità che Basilio (forse a motivo della sua carica episcopale) dava ai suoi monaci di curare gli ammalati negli ospedali.

Invece fa sua la preferenza accordata da Basilio al lavoro nei campi, poiché diceva quest'ultimo: "Questa occupazione ha in se stessa ciò di cui ha bisogno per essere esercitata  e dispensa i monaci dal molto viaggiare. Tuttavia bisogna vigilare affinché non conseguano turbamenti ed agitazioni a causa dei vicini".

I Padri del deserto proibivano severamente il lavoro dei campi, poiché questo "impediva di fare della cella un soggiorno fisso ed immutabile, costringendo il monaco a lavorare all'aria aperta. I suoi pensieri avrebbero così svolazzato, per così dire, nello spazio aperto davanti ad essi; tutto l'indirizzo della sua anima, questo rivolgersi all'unico fine, che è qualcosa di così flebile, svanirebbe in mezzo a tanti oggetti diversi" (Conferenza di Abba Abramo 24-3).

La Regola del Maestro paventa soprattutto il timore che i vicini, con le loro dispute e le loro grida, possano nuocere "ai fratelli spirituali" e che un lavoro troppo faticoso possa impedire loro di digiunare.

S. Benedetto non si ferma davanti a questi timori. Non li pone al di sopra del comandamento dato da Dio all'uomo, e si accontenta di rassicurare coloro che potrebbero essere turbati dalla necessità di fare la mietitura: "Saranno veramente monaci se vivono del lavoro delle loro mani".

Ho insistito un poco su questo punto poiché è un esempio del modo con cui S. Benedetto non pone un'osservanza monastica davanti alla condizione normale dell'uomo.

Citando il Vaticano II:" Il lavoro dei campi ha un posto eminente nella vocazione integrale dell'uomo. Effettivamente quando egli coltiva la terra con le sue mani o con l'ausilio di mezzi tecnici, affinché produca frutti e divenga una dimora degna di tutta la famiglia umana.........l'uomo realizza il piano di Dio di dominare la terra, di portare a termine la creazione e nello stesso tempo coltiva se stesso (GS 57 par. I).

S. Benedetto non fa del lavoro un semplice mezzo, come era per i Padri del deserto. Tuttavia il valore intrinseco che gli riconosce non è assoluto. Come tutti i valori terreni, quello del lavoro è infravalente, "questo valore resta sottomesso ai valori religiosi sotto il cui sovrano ordinamento tutto si trova coordinato alla gloria di Dio". (GS 43 par. I).

Non occorre precisare che S. Benedetto non poteva pensare come farà Karl Marx che "è tramite il lavoro che l'uomo si crea e che rendendo sottomessa la natura egli conquista la sua essenza".

Egli sa, al contrario, che il lavoro, come tutti i valori terreni, può corrompersi nelle mani dell'uomo. Fatto per l'uomo, in certe condizioni lo disumanizza, e, fatto per portare a termine la creazione, può distruggerla. S. Benedetto non dimentica le parole di San Paolo: "Tutto vi appartiene, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio".

Affinché questa salita verso Dio possa compiersi attraverso dei compiti terreni, egli moltiplica le precauzioni. Parlavo del capitolo sugli artigiani del monastero. S. Benedetto, dopo aver largamente accordato ad uno dei suoi figli il permesso di esercitare un talento naturale, glielo toglie se può diventare causa di orgoglio personale.

Per tutta la comunità, il lavoro non può e non deve degenerare in attivismo. Deve essere svolto solo durante le ore stabilite e deve terminare al segnale dell'ufficio divino. Si alterna con la Lectio Divina che, mantenendo il monaco in contatto con la Parola di Dio, mantiene il suo sguardo fisso su di Lui, tenendolo lontano da ogni spirito di avarizia, di appagamento del guadagno e di inquietudine per l'avvenire. Poiché l'Abate non è solo nel dover ricordare a se stesso che nulla manca a coloro che temono Dio e che occorre innanzitutto cercare il Regno e la sua giustizia.

La dimensione sociale dell'uomo.

Il Signore Dio disse: "Non è bene che l'uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile".

La creazione da parte di Dio della donna derivata dall'uomo, della coppia e della famiglia, cellula fondamentale della società, conferisce alla condizione umana un'altra dimensione. Per sua propria natura la persona ha assolutamente bisogno di una vita sociale. "E' attraverso lo scambio con l'altro, ci ripete il Concilio, attraverso la reciprocità dei servizi, attraverso il dialogo coi suoi fratelli che l'uomo cresce mettendo a frutto tutte le sua capacità e può rispondere alla sua vocazione" (GS 25 par. I).

Anche l'anacoreta che Dio chiama al segreto della solitudine non è un isolato, per quanto possa essere perfetta la sua separazione dagli uomini. Sotto l'unico piano della solidarietà umana e cristiana, egli riceve da tutti, dà a tutti ed appartiene a tutti. Il Vaticano II si compiace di sottolinearlo ed ancor più il papa Paolo VI.

Tuttavia, l'importanza che si attribuisce a questo carattere sociale della persona ed all'appartenenza concreta ad una particolare comunità, crea una "sfaldatura", d'altronde molto graduale, tra le differenti forme di vita monastica.

E' la classica distinzione tra l'anacoretismo e il cenobitismo, con la discussione sui loro rapporti ed i loro rispettivi valori. In un modo più sfumato," si tratta dell'accentuazione che si dà alla vita comune ed alle relazioni interpersonali nella Comunità". Cito il Padre Abate Primate nel suo discorso di apertura del Congresso degli Abati del 1970, il quale vede in questo punto, per il nostro tempo, la base più importante del pluralismo.

Come sempre il pensiero personale di S. Benedetto si esprime di più attraverso le norme concrete che egli dà, che non tramite la dottrina che espone. Come coloro che lo hanno preceduto, Cassiano, il Maestro, egli ammette la superiorità dell'anacoretismo; la vita cenobitica è vista come la necessaria preparazione per affrontare i combattimenti del deserto.

Dopo aver praticato nel monastero le prime rinunce di cui parla Abba Pafnuzio: "...il disprezzo delle ricchezze e la padronanza delle passioni dello spirito e della carne, i solitari apprendono la terza, che consiste nell'allontanare dal proprio spirito le cose presenti e visibili per contemplare unicamente le cose future e desiderare solo quelle invisibili".

Tuttavia l'importanza che S. Benedetto conferisce alla dimensione comunitaria della persona umana, che trova la sua espressione nella vita cenobitica, privilegia immediatamente la carità fraterna come cammino per raggiungere Dio.

Questo orientamento del pensiero di S. Benedetto è presente in tutta la sua Regola. Si manifesta da principio, nei primi capitoli dove S. Benedetto segue fedelmente il testo del Maestro, con delle brevi annotazioni e delle aggiunte che tradiscono la sua costante preoccupazione. Sta alla base delle disposizioni concrete che organizzano la vita materiale della comunità. Ma nella misura in cui S. Benedetto si stacca dalla sua fonte, si afferma il suo pensiero personale, che è chiaramente espresso nei capitoli che gli sono propri, dal 67 al 72. In quest'ultimo in particolare l'orientamento del pensiero di S. Benedetto acquista tutta la sua forza. Il capitolo sullo "zelo buono" innalza una nuova scala di Giacobbe, i cui gradini indissolubilmente formati di umiltà e di carità, uniscono in una stessa corrente d'amore i fratelli, l'Abate, il Cristo e Dio, che è raggiunto da tutti, senza distinzioni, insieme. Così la via regale che conduce a Dio ed alla vita eterna è questo ferventissimo amore che permette di mettere in pratica il comandamento nuovo di Gesù, "Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi". Con questa linea di pensiero S. Benedetto si situa più nella linea di Agostino e di Basilio, piuttosto che in quella dei Padri del deserto, così come ce li presenta Cassiano nelle Conferenze, e che, sotto l'influenza di Origene e di Evagrio, hanno acquistato una visione più intellettuale della ricerca di Dio.

Certamente S. Benedetto non li rinnega, anzi raccomanda la lettura delle Conferenze, ne raccoglie i valori della vita ascetica, del distacco dai beni materiali, del silenzio, della solitudine, di ascolto della Parola di Dio. Tutti valori che hanno fatto dei Padri del deserto quei grandi contemplativi di cui non smetteremo mai di ascoltare gli insegnamenti. S. Benedetto reputa gli anacoreti superiori ai cenobiti per i quali egli umilmente legifera; egli ammette che il cenobio è un apprendistato necessario ai combattimenti del deserto, ma non pensa che si riduca solo ad una scuola preparatoria. La vita cenobitica può essa stessa condurre a Dio. Il monaco, quand'anche fosse giunto alla perfezione, può continuare a vivere coi suoi fratelli, facendo le cose che fanno tutti, senza distinguersi, ma in un altro modo, sotto l'impulso dello Spirito Santo che lo possiede.

Del resto sarebbe ingiusto e non vero il dire che i solitari non hanno conosciuto la carità fraterna. Gli "Apoftegmata", le Vite dei Padri, ci incantano con quello stile di perfetta carità con la quale accolgono i visitatori o testimoniano un'indulgente comprensione verso i più deboli di loro. Sarebbe impensabile che l'amore di Dio che li riempie non portasse questo frutto. Ma una cosa è gustare la dolcezza dell'amore fraterno, ed un'altra farlo diventare un comandamento identico al primo, o meglio, il comandamento unico del Signore che basta per compiere la Legge e raggiungere il Regno.

Il comandamento della carità, nella sua doppia formulazione è unico. Ma la luce con cui viene illuminato rischiara i suoi due aspetti. In generale, nelle Conferenze, il termine carità si riferisce al primo significato: "Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutto il tuo spirito e con tutte le tue forze". L'Abba Mosé attribuisce come sinonimo della carità la purezza di cuore, poiché essa soltanto permette di vedere Dio. La purezza di cuore sarà quindi l'unico riferimento dei desideri del monaco: "E' per essa che noi dobbiamo abbracciare la solitudine, sopportare i digiuni, le veglie, il lavoro, la nudità, dedicarci alla lettura e alla pratica delle altre virtù, desiderando, tramite loro, di rendere e di conservare il nostro cuore invulnerabile ad ogni cattiva passione, e di salire, come su altrettanti gradini, fino alla perfezione della carità" (Conf. I, 7).

Gli stessi rapporti fraterni sono sovente considerati, come nella Conferenza "de amicitia", così piena di delicate annotazioni a questo riguardo, come i più efficaci mezzi di raggiungere la purezza di cuore smascherando le segrete pieghe dei nostri vizi. Ma l'ultima parola dell'esigenza evangelica non si riferisce all'amore dei nostri fratelli e alla sua più profonda motivazione.

Il differente accento portato su l'uno o sull'altro dei due aspetti della carità sposta quello che si potrebbe chiamare il polo della contemplazione.

La carità, per i Padri del deserto, è tutta orientata alla contemplazione divina, la "Theoria" che il Signore stabilisce come il bene principale, il solo che rimane poiché nel secolo futuro, tutti passeranno dalla molteplicità della vita attiva alla contemplazione delle cose divine, in una eterna purezza di cuore" (Conf. I, 10). Fin d'ora l'eremita vi si applica attraverso gli esercizi della vita monastica "che hanno per scopo di affinare l'anima in un tale modo da perdere il gusto delle cose terrestri e da non voler più contemplare che quelle celesti" (Conf. I, 17).

Il discepolo di S. Benedetto sente dentro di sé intensamente il desiderio di abitare nella casa di Dio e di vedere nel suo Regno colui che l'ha chiamato, ma S. Benedetto cerca di condurlo tramite i cammini indicati dal Vangelo e fissa il suo sguardo contemplativo sul Cristo il cui volto appare in tutta la Regola, talvolta in trasparenza, talvolta in piena luce.

E' un volto umano, quello di un pastore alla ricerca della pecora smarrita, di un medico paziente che tenta il possibile per salvare il proprio malato, di un uomo dolce e umile, di un servo che non grida, non alza il tono della voce e non rompe la canna incrinata. Ma anche il volto di colui che è diventato, per rendere al Padre il figlio che si è allontanato da lui, l'uomo dei dolori, silenzioso di fronte a tutti gli oltraggi, obbediente fino alla morte.

Lo sguardo rivolto al Cristo accompagna il monaco in tutto il suo cammino verso Dio e gli permette di superare gli ostacoli che si frappongono sulla sua via: ostacoli che derivano dalla sua natura peccatrice, ma ancor più profondamente dal suo incontro con la trascendenza di Dio che non sarà mai allo stesso livello della sua creatura. Siamo di fronte ad un salto di livello. Non si accoglie questa trascendenza, rifiutata da Adamo ed Eva e proclamata dalla croce di Cristo, senza morire a sé stessi.

La pratica della Regola e la vita comune impongono queste rinunce giornaliere e non appariscenti che, senza aver bisogno di creare artificialmente delle prove, sono come delle piccole morti quotidiane che strappano al cenobita un grido d'impotenza, "...guidami su rupe inaccessibile." (Sal 61).

I primi gradini dell'umiltà, l'abbiamo già detto, possono essere accettati dalla ragione razionale. Ma come fare a capire che si deve porgere la guancia sinistra a chi mi ha appena colpito la destra e dare il proprio mantello a colui che ha preso la nostra tunica? Come è possibile amare l'abiezione e credersi il più indegno di tutti. I tentativi di dare una giustificazione a queste esigenze sono sempre falliti. Solo contemplando gli abbassamenti volontari di Cristo si può arrivare fin là.

Ma, nella misura in cui lo sguardo contemplativo si rivolge più profondamente a lui, si rivela il segreto di Dio, il segreto di questo amore inconcepibile che l'umanità del figlio di Dio ci manifesta, di questo amore che è lui stesso. In verità "la conoscenza della gloria divina rifulge sul volto di Cristo" (2 Cor 4, 6).

Nello stesso momento questa conoscenza produce nel monaco la purificazione più profonda. "Riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore" (2 Cor 3, 18).

Trasfigurazione che non sminuisce l'umanità dell'uomo, ma la porta al compimento, così come la Resurrezione del Cristo non ha annientato la sua umanità. Noi abbiamo parlato di questo dinamismo della natura umana che le impedisce di diventare prigioniera di un qualsiasi valore terreno, ma la spinge a completarsi in Colui, all'immagine del quale l'uomo è stato creato. L'antropologia di S. Benedetto risponde alla dimensione escatologica dell'uomo. E' un'antropologia di superamento, un'antropologia aperta che anima tutta la Regola con un grande slancio vitale. Fin dal Prologo S. Benedetto invita a cercare Dio colui che desidera vivere e vedere giorni felici. Sulla terra ne possiede le primizie, la "caparra" dello Spirito, ma è solo nella dimora celeste che vedrà faccia a faccia Colui che lo chiama. E' ancora là che gli si rivelerà la pienezza di comunione universale alla quale è stato iniziato dalla vita del cenobio.

Il monaco è colui che si affretta verso la Patria celeste e che per tutta la sua vita camminerà verso di essa. L'ultima parola di S. Benedetto è una parola di speranza:" Tu giungerai".


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21 giugno 2014                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net